Woody Guthrie (da https://www.thenation.com/wp-content/uploads/2012/07/woody_guthrie_cc_img.jpg)

Cristo, ne ho fatta di strada in questi mesi! Soldi neanche a parlarne, ma ho messo il naso in un sacco di posti, belli e brutti. Per alcuni ne valeva la pena, altri erano passabili, ma certi facevano proprio schifo. Ho fatto tante canzoni per i sindacati e le ho cantate dappertutto, dovunque la gente si radunasse per parlare e cantare. […] La mia via è stata come questa moneta che gira: un susseguirsi di teste e di croci. Ma quelli a cui mi sono sentito più vicino sono stati i sindacalisti e i soldati. E poi naturalmente i contadini. Cantare per me è un modo per conoscere la gente, di partecipare al lavoro degli altri”. Woody Guthrie

 

Woody Guthrie è uno dei miti più fecondi che popolano il pantheon della storia americana. Ancora oggi, a cinquant’anni dalla morte, con la sua vita disastrata e meravigliosa, nomade e combattiva, ci aiuta a comprendere tante verità spesso scomode da raccontare. Padre della canzone di protesta e di lotta, il segno che lui ha lasciato nella musica ha marchiato indelebilmente generazioni e generazioni di cantautori, a partire dal celebre erede Bob Dylan. “Americano”, ma anche decisamente “anti-americano”, ha dedicato la sua esistenza alla lotta politica radicale, contestando il sistema “dominante”. Eppure oggi è un mito nazionale degli Stati Uniti. In questa contraddizione, con il racconto della sua vita, ultimo degli ultimi, ha dato voce all’America degli emarginati e sconfitti, senza mai essere un artista patriottico. Certamente “Woody amava l’America – scrive Alessandro Portelli – […], ma il patriottismo di tante sue canzoni è rivolto alla terra, non alle sue istituzioni (ed è inseparabile dall’antifascismo: ‘Questa macchina ammazza i fascisti’, stava scritto sulla sua chitarra)” [Portelli, La canzone popolare in America, p. 9]. Un contestatore, quindi: “un poeta proletario dotato di una forte spinta rivoluzionaria […] per fare storia alternativa alla storia borghese, non solo nei contenuti, ma anche nelle forme; alternativa soprattutto nel suo essere insieme storia, poesia e politica militante” [Portelli, La canzone popolare in America, p. 190].

Sulla sua pelle ha vissuto la condizione dello hobo, il vagabondo perennemente costretto a spostarsi da una parte all’altra dell’America attratto dal miraggio di un’occupazione stabile. Infatti, a lui, e a tanti come lui, l’economia flessibile americana ha regalato una vita precaria “un sistema dove nessuno è sicuro, nessun posto è tranquillo, nessuna casa è al riparo dall’ipoteca e dallo sfratto, dove la libertà e l’uguaglianza sono dietro ogni angolo ma non si raggiungono mai” [Portelli, La canzone popolare in America, p. 41].

Un manifesto di Woody Guthrie (da https://i.pinimg.com/236x/f4/8e/85/f48e85cdc63eeaa05d75398911cd5962–cc-license-buy-canvas.jpg)

Insieme alla sua, infatti, ci sono le storie dei tanti proletari, dei contadini, operai e minatori. Degli sradicati, dei disperati e sbandati. Degli esclusi, di coloro il cui posto è negli strati bassi di una società tutta impegnata nella sua evoluzione darwiniana. Di coloro che portano avanti con armi ìmpari la propria lotta per la sopravvivenza in un mondo in cui a prevalere è la legge del più forte e dove il più debole è destinato a soccombere.

Sono i testi di Guthrie, soprattutto, a costituire una novità assoluta: nessuno aveva mai usato prima la musica come mezzo diretto di informazione e di denuncia. E in effetti l’America dipinta da Guthrie nessuno prima di lui l’aveva mostrata e divulgata.

Non feci mai canzoni sui sentieri delle mandrie o la luna che faceva capolino nel cielo, ma dapprima erano canzoni buffe, su tutto quello che non va, e su come mai le cose andavano bene o male. Poi presi un po’ di coraggio e feci canzoni che dicevano quello che secondo me era sbagliato e come si poteva raddrizzare, canzoni che dicevano quello che tutti pensavano” [Guthrie, Questa terra è la mia terra, p. 178].

Non solo canzoni, dunque. Bound for glory (Questa terra è la mia terra) è il romanzo autobiografico pubblicato nel 1943, col quale Guthrie consegna alla memoria l’esperienza della sua vita fuori dagli schemi, ma anche quella di un intero repertorio umano col quale prende contatto durante il suo viaggiare per le vaste terre d’America. Questo fa di Bound for Glory un testo al tempo stesso intimistico e corale, d’avventura e di riflessione, personale e sociale.

Si racconta delle sue origini, nato il 14 luglio 1912 nella città agricola di Okemah, Stato dell’Oklahoma.

Dal padre Charles, speculatore terriero e politico locale, impara subito alcune canzoni dei cowboy e delle ballate scozzesi. La madre Nora Belle, dotata di buon talento musicale, sul figlio eserciterà una profonda influenza anche sul piano artistico.

Una famiglia borghese e ben inserita nel tessuto sociale della piccola cittadina. Ma l’infanzia a Okemah è segnata da gravi lutti ed esperienze traumatiche che incidono fortemente sulla vita di Guthrie. Per primo, la perdita della sorella maggiore Clara, morta tragicamente in un incendio dell’abitazione. Poi la rovina finanziaria della famiglia a causa di speculazioni sbagliate del padre. Infine, il ricovero della madre in una clinica psichiatrica dove morirà poco dopo.

In pochi anni le sue certezze vanno in fumo, come la sua casa devastata da un nuovo incendio. Da tutte queste funeste esperienze dichiara d’avere imparato a non piangere.

1922: un pozzo di petrolio a Okemah (da https://i.pinimg.com/originals/29/dd/7c/29dd7cad626b3c744669fece69f68c0b.jpg)

Nel 1922 la scoperta del petrolio in Oklahoma trasforma la tranquilla cittadina di Okemah in un luogo popolato da varia umanità: operai in cerca di lavoro, ma anche imbroglioni, giocatori d’azzardo, criminali.

In pochi anni, però, il petrolio finisce e la cittadina affonda in una crisi economica che lascia i suoi abitanti impoveriti, senza vie d’uscita e sfiduciati. E Okemah da cittadina piena di vita diventa un deserto: “non c’era più chiasso che sulla collina di un camposanto” [Guthrie, p.16]. Occorre andarsene alla ricerca di un destino migliore. Guthrie abbandona la città e comincia a vagabondare, dando inizio a quel “nomadismo cronico” che caratterizzerà tutta la sua vita. Lo descrive bene la canzone Hard Travelling (1941):

Ho viaggiato su quei treni merci, pensavo che lo sapessi/ Ho viaggiato su quei carri malandati, in lungo e in largo/ Ho viaggiato con i clandestini, i disperati, i vadabondi/ È stato duro il mio viaggio, o Signore.

Si può già cogliere come, musicalmente, il suo stile derivi dalla tradizione bianca, ma anche da quella nera, soprattutto per ciò che riguarda il semi parlato alla talking blues. Il blues e la musica afroamericana sono, infatti, la base popolare da cui egli trae ispirazione. Il blues è ritmo, improvvisazione, la forma poetica utilizzata dagli schiavi per comunicare tra loro nascondendo al padrone ciò che pensavano. Allo stesso modo, più avanti, i lavoratori manovali, gli operai, i contadini utilizzeranno le canzoni per lo stesso scopo, per organizzarsi e comunicare le notizie, oltre che per facilitare il lavoro, dargli un ritmo. [Cfr. Portelli, La canzone popolare in America, p. 16]. Ma ci sono anche influenze legate al mondo della country music, genere che esplode in America negli anni ’20-’30 e, prima di diventare un fenomeno commerciale e di marketing, era espressione diretta della cultura contadina meridionale.

Nel 1929, intanto, l’America piomba nella crisi finanziaria e nella grande Depressione che la getta in un disastro economico di dimensioni devastanti. Così la descrive Alessandro Portelli: “Nel 1932 i disoccupati erano più di dieci milioni. Le banche chiudevano una dopo l’altra, i titoli calavano, speculatori e risparmiatori si trovavano da un momento all’altro ad evere perso tutto. I prezzi salivano vertiginosamente, il reddito nazionale si era dimezzato in tre anni. Crollavano i salari, le industrie lavoravano ad orario ridotto. Quando, nel marzo 1933, si toccò la punta massima, i disoccupati erano stimati tra i 14 e i 16 milioni. Le file si allungavano davanti agli ospizi dove si distribuiva una scodella di minestra agli affamati” [Portelli, La canzone popolare in America, p. 33].

Woody con Mary Jennings (da http://www.451online.it/root/wp-content/uploads/2015/07/Woody-Guthrie-con-la-moglie-Marjorie-Maiza.jpg)

Guthrie si trasferisce a Pampa, in Texas, presso uno zio. Qui conosce Mary Jennings, che sposa, e con cui metterà al mondo tre figli.

Nella città texana viene a diretto contatto con una realtà sociale che stimola in lui profonde riflessioni: lavoratori, contadini abbandonano le campagne isterilite per aprirsi la possibilità di una nuova vita. Per tentare una sorte migliore s’inurbano in queste terre di tutti e di nessuno.

In questi stessi anni, impara a suonare bene la chitarra dallo zio, e insieme ad altri musicisti forma un gruppo musicale, il Pampa Junior Chamber of Commerce Band, dando l’avvio alla sua carriera musicale:“E laggiù nelle pianure del Texas, proprio in mezzo alla conca di polvere, con il boom del petrolio ormai finito, il grano soffiato via e la gente a spasso afflitta da ipoteche, debiti, conti, malattie e preoccupazioni che soffiavano da ogni parte, mi sembrò ci fosse la materia per fare un sacco di canzoni” [Guthrie, p.197].

La sua musica, fin da subito, trae ispirazione dalla realtà circostante. È canzone popolare e politica, che trova il suo senso profondo proprio in mezzo a quella working class che stenta a trovare spazio in quella società americana che ha tutto l’interesse nel far sì che essa resti l’anello debole del sistema. “Ormai avevo deciso che le canzoni e la musica erano il linguaggio dei linguaggi – scrive -. All’inizio erano canzoni buffe su storie che prima andavano male e poi finivano per andare meglio o magari peggio. Poi incominciai a prendere coraggio e a scrivere canzoni su quello che veramente pensavo ci fosse di storto. E a come aggiustarle; insomma canzoni che dicevano quello che tutti pensavano in questo nostro Paese. Ed è questo che mi ha fatto andare avanti allora” [Guthrie, p.197].

Le tante storie di questa povera gente gli si attaccano addosso come la polvere del Texas.

Nel 1935 le dust storms che s’abbattono sulle Grandi Pianure costringono agricoltori, proprietari terrieri, operai e disoccupati di Texas, Tennesee e Georgia a partire verso l’Ovest in cerca di lavoro. Anche Woody decide di partire per la California, lasciando a Pampa moglie e figli. Attraversare l’America è allora come passare attraverso la sua stessa anima. E Guthrie canta la sua odissea e quella degli americani che come lui sono costretti a lasciare le loro terre per cercare lavoro. Si sofferma sulle sofferenze patite durante i viaggi, con la disperazione di non riuscire a trovare un posto in cui stare.

La canzone Dust Storm Disater (Il disastro delle tempeste di polvere, 1960) racconta proprio la reazione di quella gente di fronte alla tempesta di polvere che il 14 aprile 1935 si abbatté sui loro territori come un “pesante sipario nero”. Così la descrive Walter J. Stein in California and the Dust Bowl Migration: i coloni che avevano seminato il terreno delle grandi pianure a cotone, granturco e frumento non raccolsero nulla a causa del loro modo dannoso di coltivare la terra. Il terreno superficiale sfruttato da arature forzate non era più fertile. E all’arrivo della siccità si trasformò in polvere soffiata dai venti e sospinta attraverso gli stati dell’Est. Si dimostrò che le tempeste di polvere furono una catastrofe creata dall’uomo, il risultato di anni di sfruttamento improprio della terra [W. J. Stein, p. 13-14]. Ma molti videro in questa tragedia il giudizio e la condanna di Dio sugli uomini, come dimostra anche questa canzone di Guthrie:

Pensammo che fosse arrivato il giorno del giudizio/Pensammo che fosse arrivata la nostra ora.

Più tardi, invece, nella canzone I ain’t got no home (in this world anymore), l’autore stravolge il suo punto di vista. Se il testo originario (di origine religiosa) suggeriva a questi migranti americani (che dovendo abbandonare le loro case si erano sistemati ai margini delle città dell’Ovest dentro baraccopoli di carta), di sopportare la fame e i disagi, di non ribellarsi perché poi ci sarebbe stata per loro una ricompensa nell’altra vita, nella rilettura di Guthrie, invece, il senso di “non riuscire a sentire di avere una casa in questo mondo”, come recita la canzone, assume una sfumatura molto più concreta e diventa la consapevolezza di non poter vivere degnamente senza possedere un tetto sotto cui sentirsi davvero a casa. Sparisce la connotazione religiosa e l’idea della ricompensa nell’altra vita. Bisogna combattere su questa terra per i diritti negati.

Now as I look around, it’s mighty plain to see/This world is such a great and a funny place to be;/Oh, the gamblin’ man is rich an’ the workin’ man is poor,/And I ain’t got no home in this world anymore.

Viaggia in treno Guthrie. E This train in bound for glory (Questo treno viaggia verso la gloria, 1958) è una delle tante canzoni attinte dai traditional spirituals di matrice religiosa. Si tratta di un elogio al treno, mezzo di spostamento utilizzato dai vagabondi per viaggiare lungo l’America in cerca di migliori condizioni di vita. Ma è anche una dichiarazione di appartenenza a una precisa categoria sociale: su questo treno trovano posto solo i giusti, che siano poveri o vagabondi non importa. Non c’è posto per gli imbroglioni, per i disonesti, i ladri, i bugiardi. L’America, intende dire Guthrie, è per me, e per quelli come me.

This train is a free train, this train,/This train is a free train, this train,/This train is a free train,/Everybody rides in Jesus’ name/This train is a free train, this train

La canta Jonny Cash:

Pensiero espresso anche in This land, (Questa terra, 1940) canzone dalla melodia semplice e cantabile, più volte proposta come inno nazionale americano. L’autore racconta del suo vagabondare sul territorio americano, mettendone in luce la varietà paesaggistica:

Dalla California all’isola di New York/ Dalle foreste di sequoie fino alle acque della Florida.

Ogni strofa sottolinea che Questa terra è stata creata per te e per me.

Il testo, infatti, presenta il tema della critica alla proprietà privata:

Vidi un cartello laggiù/ E su quel cartello c’era scritto: Vietato entrare/Ma dall’altra parte non c’era scritto proprio nulla/Quella parte è fatta per te e per me

e vuole essere un inno alla libertà. Guthrie si sofferma sulla descrizione della “sua” gente: americani che, come lui, sono costretti a chiedere assistenza sociale e aiuto per non morire di fame, perennemente in cerca di lavoro. Ed è per queste persone, per la gente comune, per i disoccupati, per i migranti, che è stata fondata l’America, per quelli come “me e te”: l’America è una terra che appartiene al popolo.

This land is your land This land is my land/From California to the New York island;/From the red wood forest to the Gulf Stream waters /This land was made for you and me.

La canta Bruce Springsteen, per lui è “la più grandiosa delle canzoni mai scritte sull’America”.

Così, all’America del benessere e della democrazia, all’America di Hollywood e dei petrolieri, Guthrie contrappone quella di Ludlow, delle città minerarie dove le famiglie degli operai vivevano in condizioni di quasi schiavitù. Certamente un’America più vera, più autentica in tutte le sue sfaccettature sociali, politiche e culturali. Che lui conosce viaggiando. Viaggia sui carri merci, in autostop, a piedi; per mantenersi s’adatta a fare qualsiasi lavoro, dipinge insegne e vetrine di negozi, suona e canta nei saloon.

Going down this road feeling bad (Me ne vado su questa terra e mi sento male, 1939), Guthrie la canta per la prima volta nel 1939 quando viene invitato sul set del film tratto dal libro di Steinbeck, Furore, per raccontare la sofferenze della popolazione fuggita dall’Oklahoma. La canzone è una preghiera affinché ci sia più rispetto per la dignità umana. Il ritornello An’I aint’t a-gonna be treated this way ripete la stessa richiesta di non essere maltrattato e di essere considerato al pari di ogni altro essere umano, senza alcuna distinzione di ordine sociale.

Il ritratto di questi vagabondi al pari di lui è quello di un popolo di grandezza biblica, che lotta per vedere riconosciuta la propria dignità: è voce d’un popolo che grida nel deserto, ma che non trova alcun dio pronto ad ascoltarlo e a riscattarlo.

L’arrivo in California, nel 1937, è segnato da una nuova delusione: questo Paese non assomiglia per niente a quello raccontato dalla stampa e dalla radio. Non è il posto dove scorre latte e miele, ma piuttosto un posto dove spesso quel che resta da raccogliere sono solo “grappoli di rabbia”. I villaggi e le piccole città sono presidiate da vigilantes privati, ci sono campi profughi disseminati nelle periferie intorno alle città, grandi slums dove si resta in attesa di un’occupazione che in molti casi non arriva. Infatti, non c’è lavoro, ma solo disperazione, sfruttamento e violenza. Così ci si deve arrangiare, nell’indifferenza di una borghesia ipocrita e la violenza di vigilantes pagati per intimidire quei lavoratori che cercano di organizzarsi.

A loro Guthrie dedica la canzone Vigilante man in cui mette in scena una vicenda personale. Di quando giunto in California dal suo viaggio in fuga dalle tempeste di polvere, fece proprio la conoscenza di alcuni di questi uomini che lo scortarono dalla loro macchina fuori dalla città, costringendolo a camminare per ore sotto la pioggia.

Qualche tempo dopo dalla stazione radio KFVD di Los Angeles arriva la svolta nella carriera di Guthrie: assunto per cantare vecchie ballate tradizionali e alcune delle sue canzoni, attraverso queste trasmissioni riuscirà a conquistarsi un pubblico sempre più vasto, soprattutto tra le migliaia di profughi che, come lui, vivevano ai bordi delle città, nei campi, tra le baracche di cartone. Di loro canta miserie e disperazione, oltre alla nostalgia per le proprie terre abbandonate. Le sue canzoni diventeranno sempre più la voce delle persone umili e sole, private dei propri diritti. Diventeranno l’occasione per sollecitare a fare qualcosa, raddrizzare certe intollerabili storture della società americana.

La sua musica è come un inno sacro da cantare insieme per esorcizzare la paura di non farcela, di fallire, di perdere la posta in gioco. Guthrie non vuole rassegnarsi a credere che tutta questa gente di buona volontà sia bound to lose (destinata a fallire), e porta in giro le sue canzoni, che stanno lì a fare coraggio, che sono un invito a non mollare: “Canzoni che esprimono la stanchezza e il dolore, parlano dei viaggi scomodi, della scalogna e di quanto sia difficile tirare avanti, ma dicono anche che ce la caveremo, che lavoreremo, che ci faremo onore” [Guthrie, p.274].

Nel 1940 lascia Los Angeles e fa rotta verso New York. Entra per la prima volta in uno studio di registrazione e scrive articoli su giornali di sinistra come il Daily Worker di New York, dove tiene la rubrica Woody Sez, e il Peoples World. Se ne serve per fare circolare le sue canzoni ed esprimere la propria opinione sugli eventi contemporanei. Il suo impegno politico si fa sempre più marcato.

Lo stesso anno, lo studioso di tradizioni popolari Alan Lomax affettua delle sessioni di registrazione per conto della Library of Congress di Washington in cui Woody canta alcune canzoni inframmezzate da suoi commenti. Incide Dust Bowl Ballads, il primo album di canzoni originali.

Poco dopo dà vita a un gruppo folk, gli Almanac Singer composto di numerosi artisti folk (tra questi Pete Seeger) con cui registra diverse canzoni che parlano di pace, di antifascismo e che hanno l’obiettivo di promuovere le idee del Partito comunista americano. Alcuni di questi componenti fonderanno i Weavers portando in giro molte delle canzoni di Guthrie.

Nel 1941 è a Portland, nell’Oregon, dove riceve l’incarico di raccontare in parole e musica la grande impresa della costruzione della diga sul fiume Columbia. Ne nasce il progetto Le canzoni del Coulee Dam. Per Guthrie è un’esperienza esaltante: non tanto descrivere la costruzione della diga in sé, quanto vedere il fiume e la grande potenza dell’acqua che, nelle sue canzoni, diventa la metafora ideale per rappresentare l’America, grande Paese chiamato a liberare il mondo dal nazifascismo. L’America è entrata in guerra e il suo sforzo militare va sostenuto, come mostravano le direttive del Partito comunista che, già da un po’ Guthrie frequenta.

Così scrive Grand Coulee Dam (La Grande Coulee Dam, 1945), canzone che inneggia alla meraviglia della grande diga sul Columbia che supera in bellezza le sette meraviglie del mondo. E racconta del percorso del fiume dalle Montagne rocciose all’Oceano Pacifico. Per merito della grande impresa che ha imbrigliato l’acqua, l’uomo ha potuto utilizzare questa risorsa per costruire fabbriche e aerei, mandati a sconfiggere, per l’America, il nazifascismo.

Well, the world has seven wonders that the trav’lers always tell,/Some gardens and some towers, I guess you know them well,/But now the greatest wonder is in Uncle Sam’s fair lang,/It’s the big Columbia River and the big Grand Coulee Dam.

The biggest thing that man has ever done (The great historical bum) (La cosa più grande mai fatta dall’uomo, Il grande vagabondo della storia, 1961) è una storia dell’uomo e dell’America. L’autore si mette nei panni di un viaggiatore solitario, il grande vagabondo della storia che si sposta lungo un arco temporale lunghissimo, dalla nascita del Paradiso Terrestre, passando poi in rassegna alcuni momenti salienti della storia americana: la guerra d’Indipendenza, la guerra di Secessione, la fine della schiavitù. Ognuna di queste grandi imprese rappresenta ciò che di più grande l’uomo sia stato in grado di realizzare. Ma nulla è così grandioso come sconfiggere Adolf Hitler e dare al mondo un futuro di pace.

Allo scadere del contratto, con la sua famiglia torna a vivere a Pampa in Texas. Subito dopo, però, riprende la strada per New York con la speranza di tornare a lavorare nelle stazioni radiofoniche. Il suo continuo vagabondare e la sua vicinanza a movimenti politici radicali e progressisti, però, logorano il suo rapporto con Mary e contribuiscono alla fine del suo matrimonio.

Tra il 1942 e il 1945, tornato a New York, conosce la giovane ballerina Marjorie e si sposa, mettendo al mondo quattro figli.

Le canzoni di questi anni hanno per tema il secondo conflitto mondiale. Della guerra, dal principio, Guthrie ha una visione esaltante, quasi futurista: la vede come un’occasione necessaria per annientare il nazifascismo. E vede l’America come una grande potenza il cui compito è proprio di assolvere a questa missione. Lui stesso, motivato da questo desiderio, parte come volontario nella Marina in servizio nel Mediterraneo. Diverse le canzoni antifasciste.

Sally, don’t you grieve (Sally, non esser triste, 1944) racconta in prima persona la vicenda di un giovane americano. È appena stato chiamato alle armi, e prega la sua amata di non essere triste, di continuare a vivere da brava ragazza americana, anche qualora lui non tornasse più dal fronte:

Sally, trovati un lavoro e metti da parte lo stipendio/Lavora meglio che puoi per gli Usa.

Il tono potrebbe essere ironico e nascondere una critica all’America capitalista, ma in questa fase Guthrie ha fiducia nell’America come potenza capace di annientare il nazifascismo e in fondo crede sia giusto lavorare e combattere per Lei. Il protagonista della canzone, infatti, intanto pensa alla sua missione:

Attraverserò quel grande oceano/Col fucile al mio fianco! Quando avremo battuto Hitler, ti sposerò/fermare il vecchio Hitler è ciò che intendo fare.

So long. It’s been good to know yuh (World War II Version) (Addio, è stato bello conoscerti, Versione della Seconda Guerra mondiale, 1940), nella melodia riprende una ballata del 1929, mentre nel testo si racconta di un giovane che decide di fare la recluta e di partecipare alla guerra. Parte per mare e saluta tutti:

Addio, è stato bello conoscerti/ C’è una grande guerra che dobbiamo proprio vincere/Dopodiché ci ritroveremo di nuovo insieme.

Prevale un tono di esaltazione dell’impresa bellica, la canzone è un’esortazione a combattere e a vincere.

I got the news that the war had begun/It was straight for the Army Hall that I run/And all of the people in my home town/Was a running up and a running down.

E poi: All you Fascist (Voi fascisti), scritta nella seconda metà anni quaranta, pubblicata nel 2000 con la musica di Billy Bragg. Celeberrima canzone antifascista che nel ritornello ripete come uno slogan in tono anche un po’ canzonatorio:

Voi fascisti siete destinati a perdere.

Nell’ultima strofa l’autore dichiara che andrà in battaglia a combattere per sconfiggere il fascismo e porterà con sé il fucile della libertà. La canzone ha però anche un altro pregio, cioè di anticipare le forme di protesta e di “disubbidienza civile” contro il razzismo, dichiarando la ferma volontà di avversare tutte quelle leggi che sancivano e regolavano la segregazione razziale in gran parte degli Stati Uniti, conosciute come “Jim Crow”:

I’m gonna tell you fascists/You may be surprised/The people in this world/Are getting organized/You’re bound to lose/You fascists bound to lose

E dice infatti, nella penultima strofa, che

gente di tutte le razze/Sta marciando fianco a fianco/E marciano verso quei campi/Dove un milione di fascisti morirà.

Ilsa Koch (Ilsa Kock), pubblicata nel 2001 con la musica di The Klezmatics, ha per tema la figura di Ilsa Kock, meglio nota come la “Puttana di Buchenwald” o “Strega di Buchenwald”, moglie del comandante SS di quel campo di sterminio. Conosciuta per la sua crudeltà e immoralità nei confronti dei prigionieri, venne condannata all’ergastolo da un tribunale militare americano nel 1947, ma fu rilasciata quasi subito. Condannata di nuovo all’ergastolo per crimini contro i connazionali, fu arrestata nel 1949 e nel 1967 morì suicida in prigione.

Chi narra è un prigioniero del campo di sterminio che descrive le atrocità del campo, le sevizie e le torture di cui è testimone. Guthrie qui si è calato nel recinto di un lager e nella canzone ha trasferito con molta immediatezza le immagini, le sensazioni, le paure di un prigioniero.

Nel periodo 1946-54 la canzone di Guthrie affronta temi scottanti che toccano l’America nel profondo. Un’America sempre più descritta come il regno del capitalismo, asservita al dio denaro e dunque terra di disuguaglianze sociali ed economiche. È questa America il nemico da combattere, quella che manda a morte i lavoratori stagionali, i minatori, gli operai, le braccia che davvero hanno costruito il Paese. E anche i due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.

Caso tra i più controversi nella storia della giustizia americana, che ha mosso intellettuali e artisti, a favore dei due giovani lavoratori. Guthrie scrive diverse canzoni per raccontare la loro storia e le vicende che portarono alla loro sentenza di morte.

In The flood and the storm (Il diluvio e la tempesta, 1946) l’autore si rivolge a un ideale pubblico di ascoltatori che chiama Cari amici ai quali vuole raccontare una storia. La storia dell’America che nel 1920 ha vinto la grande guerra ed è uscita dal conflitto vincente e potente, desiderosa di riavere indietro tutti i dollari investiti nel corso del conflitto. L’America viene chiamata Zio Sam, immagine che nasce all’interno del mondo militare e che richiama subito la guerra.

È un’America prepotente e capitalista, che ha costruito la sua storia sull’accumulazione del denaro e sullo sfruttamento dei più deboli. Ma la morte dei due giovani ha scosso il mondo perché essi sono diventati un simbolo di lotta a favore della causa dell’uguaglianza e per i diritti dei lavoratori. Questa ingiustizia è diventata l’arma più forte da far valere contro ogni altro sopruso. La canzone è molto complessa: oltre a voler ridare dignità a Sacco e Vanzetti, Guthrie usa il sacrificio dei due anarchici italiani per raccontare l’America del 1947. Sacco e Vanzetti diventano gli immigrati lavoratori che hanno portato in America lo spirito della rivoluzione operaia. Spirito che bisogna rinnovare anche oggi, sembra voler dire Guthrie, nell’America del 1947 che ha appena lanciato la guerra fredda, e che dopo la fine della seconda guerra mondiale vive nella falsa prosperità economica e vede l’esplosione dell’imperialismo. La battaglia di Sacco e Vanzetti non deve fermarsi, anzi deve servire da esempio per le battaglie contro l’America di oggi.

http://www.youtube.com/watch?v=mFWcdOUH8kI

Red Wine (Vino rosso, 1960) è un racconto oggettivo dei tragici avvenimenti e si sofferma sulle diverse fasi della vicenda, dal momento dell’arresto dei due giovani, fino al processo e all’esecuzione, senza tralasciare i particolari delle testimonianze, citando nomi di giudici, di testimoni, di poliziotti che hanno preso parte alla vicenda. Nel momento in cui la canzone mette in scena il fatto più crudo (la condanna a morte sulla sedia elettrica) un testimone racconta le proprie emozioni e la speranza che le cose possano cambiare:

I was right there in Boston the night that they died,/I never did see such sight in my life;/I thought the crowds would pull down the town,/An’ I was hopin’ they’d do it and change things around.

Poi, forse, l’amarezza, lo sconforto e la delusione prendono il sopravvento e la voce narrante preferisce smettere di raccontare e andarsene.

Il tema del lavoro con le sue morti ingiuste, sarà un altro dei quelli portanti nella poetica di Guthrie. Storie del presente e del passato. Ludlow Massacre (Il massacro di Ludlow, 1958) torna con la memoria a un fatto tragico avvenuto il 20 aprile 1914 quando a Ludlow, in Colorado, funzionari al soldo della Colorado Fuel e Iron Company (della famiglia Rockefeller) repressero nel sangue uno sciopero di minatori. In conseguenza dello sciopero le famiglie dei lavoratori si videro costrette ad abbandonare le case di proprietà della compagnia mineraria e organizzarono una tendopoli. Proprio qui le guardie private diedero l’assalto all’accampamento bruciando le tende e uccidendo venti persone, donne e bambini. Alcuni leader dello sciopero furono arrestati e giustiziati, mentre nessuno dei responsabili del massacro fu mai punito. Nella cittadina di Ludlow il sindacato dei minatori fece erigere, qualche tempo dopo, un monumento per ricordare le vittime.

La canzone narra la vicenda del massacro, seguito all’abbandono coercitivo delle abitazioni da parte dei minatori con le loro famiglie. La volontà di riscossa si può ottenere solo con le armi, per rispondere alle armi. L’immagine finale è di desolazione e la canzone si chiude con una invocazione a Dio: i bambini morti sono bambini di tutti, tredici vittime americane dell’ingiustizia. Che ciò resti nella memoria.

Il significato della canzone, infatti, “sta soprattutto nel fatto di essere stata scritta – scrive Portelli – trent’anni dopo lo sciopero di Ludlow, per ricordare ad una nuova generazione di operai la tradizione di lotte che li aveva preceduti e che dimostrava la giustezza della lotta armata” [Portelli, La canzone popolare in America, p. 107].

Anche 1913 Massacre (Il massacro del 1913, scritta nel 1941 e pubblicata nel 1961) è la cronaca di un evento della storia passata, ma Guthrie se ne serve per parlare dei problemi del mondo operaio della sua generazione.

Il fatto: alla vigilia di Natale del 1913 i minatori di Calumet, in sciopero e con le loro famiglie, si sono riuniti all’Italian Hall, nel Michigan, per festeggiare il Natale. Poco prima, delle milizie private al soldo delle compagnie minerarie, hanno attaccato la folla provocando otto morti. In risposta, e per compattare gli scioperanti e le loro famiglie nella lotta, la leader degli scioperanti ha organizzato quell’evento. È proprio durante la festa che qualcuno dal secondo piano dello stabile grida «Al fuoco!». Ne segue un terribile panico tra la folla che si riversa in massa sulle scale. Settantatré persone rimangono schiacciate a morte sulla scala d’uscita (la “fatal stairs”). Molte bambine e bambini tra i 6 e i 12 anni. Non c’era alcun fuoco, e non si seppe mai chi fu a urlare la notizia del falso incendio. Nelle vicinanze, però, erano stati visti molti agenti privati delle compagnie minerarie. Il crimine è rimasto insoluto.

Plane Wreck at Los Gatos (Deportee) (Disastro aereo sul Canyon di Los GatosDeportee – scritta nel 1948 edita nel 1961) ha per tema lo sfruttamento dei lavoratori stagionali messicani che, sulla base di alcuni accordi tra Messico e Stati Uniti, venivano rimpatriati. Pur senza documenti, però, potevano ritornare negli Stati Uniti con un contratto di lavoro temporaneo. Questa situazione garantiva all’America una mano d’opera stagionale a basso costo che veniva impiegata per la raccolta delle arance, delle pesche. Una volta finita la stagione i lavoratori venivano rimandati in Messico e poi richiamati la stagione successiva. Questi lavoratori venivano chiamati deportees, ovvero “esiliati”, “stranieri”. Lo spunto per scrivere il testo viene a Guthrie dopo aver letto la notizia di un incidente aereo in cui trovarono la morte diversi lavoratori stagionali che stavano per essere rimpatriati in Messico. E a questi lavoratori, deportees, stranieri, Guthrie vuole ridare un’identità.

Nel corso della canzone, infatti, essi diventano amici, fratelli e sorelle: sono Juan e Rosalia. Persone con un nome e una dignità:

Goodbye to my Juan, goodbye Rosalita/Adios mis amigos, Jesus y Maria/You won’t have a name when you ride the big airplane/All they will call you will be deportees.

Nel finale la voce impersonale della radio annuncia che un aereo ha preso fuoco e una palla di fuoco si è accesa sulle colline. Che cosa è successo? Nulla di così grave. Sono solo deportees.

Verso la fine degli anni Quaranta il comportamento di Guthrie va soggetto a sbalzi d’umore che mostrano i primi segni della malattia, una sindrome degenerativa ereditaria di cui era affetta anche la madre. Così abbandona la famiglia e torna di nuovo in California. Qui incontra Anneke Van Kirk che diventerà la sua terza moglie e da cui avrà una bambina.

I primi anni Cinquanta, invece, periodo della “caccia alle streghe” e del red scare, negli Usa vedono il sorgere di sentimenti anticomunisti. Gli americani simpatizzanti della sinistra subiscono forti ripercussioni, soprattutto nel campo dello spettacolo dove molti perdono il lavoro. Il gruppo dei Weavers, per esempio, è soggetto a censure a causa delle sue battaglie per i diritti civili, la libertà di parola. Guthrie sarà inserito nella lista nera, per le sue idee comuniste, pur essendo ormai diventato un esempio per i cantanti folk del Greenwich Village.

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È in Florida che trova aiuto presso un amico che offre riparo agli artisti messi al bando dal maccartismo. Qui scrive il romanzo Seeds of a Man e canzoni ispirate a problemi ambientali e razziali.

Ma in seguito al peggioramento del suo stato di salute, viene ricoverato nell’Ospedale psichiatrico di Greystone dove gli verrà diagnosticata la Corea di Huntington, malattia ereditata dalla madre. Morirà a New York il 3 ottobre 1967.

Di Woody Guthrie ci resta un patrimonio enorme: una storia dell’America in musica e parole che ancora oggi appare una fonte narrativa inestimabile.

La voce di questo folksinger non ha temuto di contestare il modello propagandistico della democrazia statunitense, quell’American way of life che avrebbe dovuto garantire l’incontro tra gli interessi collettivi e quelli privati. Invece, la potente testimonianza di Guthrie sta lì a ricordare come questa promessa di better living non tenesse in conto le proteste di quei tanti che per varie ragioni ne venivano esclusi dopo esserne stati illusi e delusi.

In questo controcanto della storia americana, la rivoluzionaria esperienza cantautorale di Woody Guthrie si inserisce come uno spartiacque: lui che si è opposto all’idea di una canzone come bene di consumo e di pura evasione, ha cantato le tante vite di quella working class che la cultura dominante ha spesso rimosso dall’immagine ufficiale del paese. “Sai benissimo che preferisco mangiare fagioli e granturco e bere acqua fresca, pur di suonare per la gente che apprezza e vive le cose che canto. Mi scoppia il cervello se penso che quelli là vogliono convincermi che per campare devo cantare la loro merda contraffatta!” [Guthrie, p.332].

Il suo perseverante idealismo, la lotta a favore degli ultimi, non ha vacillato neppure davanti alle tante smentite di una storia che inevitabilmente prendeva altre direzioni. E la sua utopia è stata quella di non smettere mai di credere nella possibilità di costruire un ordine nuovo e giusto. Anche attraverso le canzoni e l’esperienza del canto, luogo di scambio e di incontro fraterno.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli