Credete che questo sia glamour?
Che questa sia una vita meravigliosa
e che la mia persona ne tragga beneficio?
Be’, non è così. È duro lavoro.
Marlene Dietrich
Marie Magdalene Dietrich nasce a Berlino, nell’attuale quartiere di Schöneberg, il 27 dicembre 1901. La famiglia, benestante, appartiene a quella piccola borghesia tedesca, e berlinese in particolare, che si sta affermando proprio a inizi XX secolo. Il padre, Louis Erich Otto Dietrich, è luogotenente di polizia, la madre, Elisabeth Josephine Felsing, è figlia di un noto gioielliere. Marie Magdalene riceve un’educazione rigorosa che le servirà per affrontare le difficili prove della vita, anche professionale, con disciplina e forte senso di responsabilità.
Frequenta le scuole a Berlino e poi a Dessau. Già all’età di quattro anni studia inglese, francese e musica, suonando il violino e il pianoforte, per poi diplomarsi in canto all’Accademia di Berlino. Ma ciò che le interessa veramente è la recitazione e nel 1922 comincia la sua carriera di attrice partecipando ad alcuni spettacoli nei teatri di Berlino. Qui ha modo di osservare il lavoro del principale innovatore della regia moderna, Max Reinhardt, e di imparare le regole del palcoscenico. Contemporaneamente debutta al cinema, in quegli anni caratterizzati dalla recitazione espressiva del cinema muto.
Nel 1923 sposa Rudolph Sieber, aiuto regista e produttore cinematografico di cui è lei a incoraggiare la carriera piuttosto modesta. La loro figlia Maria Elisabeth (Maria Riva) nasce l’anno successivo. La relazione, soggetta ad alti e bassi, condizionata dai successi di Marlene e dal suo stile di vita alternativo, giungerà a una separazione, ma mai al definitivo divorzio. La figura di Rudolph resterà sempre un punto di riferimento per Dietrich, anche nella sua totale libertà sentimentale e sessuale, mai celata.
La Berlino degli anni Venti e Trenta, capitale “arcobaleno” ante litteram, è la città delle donne intraprendenti, che possono osare in ogni forma di manifestazione, inclusiva e aperta. Sono gli anni della Repubblica di Weimar, laboratorio di democrazia in cui libertà di costumi, produzione culturale e sperimentazione sono le basi per una rivoluzione avanguardistica nei diversi settori delle arti, del pensiero e della società. Qui la scrittrice viennese Vichy Baum apre la prima palestra di boxe per signore; mentre Lotte Lenya, arrivata dalla Prussia, incarna, nel teatro epico di Brecht, personaggi di donne emancipate, protagoniste di un riscatto sociale, come Jenny dei Pirati ne L’opera da tre soldi.
In città si ascolta musica jazz, portata dalle voci delle cantanti di New Orleans che si uniscono alle truppe in forza all’esercito francese nell’occupazione della Rühr: nuovi ritmi si mescolano alle musiche di tradizione, le ballate di strada e di osteria, generando echi multietnici. La città appartiene alle persone libere: “I gay ballavano, e le sacerdotesse del culto di Saffo cantavano in frac e smoking maschili di buon taglio canzoni a doppio e triplo senso, in cui molti tabù venivano fatti saltare per aria”, racconta Luca Scarlini nel volume Marlene Dietrich – Il fascino crudele. In questo contesto cresce Marlene che non ha mai nascosto, fin da subito, la sua bisessualità. Veste abiti maschili, canta Wenn die Beste Freundin (Siamo le migliori amiche)
di Mischa Spolianky, autore di canzoni ironiche e audaci come anche Ich bin ein a Vamp, in cui la protagonista racconta di essere riuscita, grazie al suo fascino, a rubare i baffi di Hitler. Si esibisce nelle Riviste, dove interpreta canzoni e sketch conturbanti nella speranza di farsi notare. Nel 1929 la svolta della carriera è segnata dal ruolo come protagonista nel film Die Frau nach der man sich sehnt (Enigma) del regista Curtis Bernhardt. Alla ricerca di una interprete fuori dagli schemi, il regista si imbatte in Dietrich: figura insolita dalla fisicità importante e dallo sguardo affilato. A questa esperienza seguirà, l’anno successivo, il grande successo del titolo che la renderà famosa in tutto il mondo: L’Angelo Azzurro (Der Blaue Engel) nel quale viene diretta da Josef von Sternberg.
Tratto dal romanzo di Heinrich Mann, Professor Unrat oder Das Ende eines Tyrannen (Il professor Unrat, 1905), il film ha come protagonista una chanteuse dalle caratteristiche molto spiccate: sexy, sprezzante e provocatoria e narra la tragica storia del professor Rath, rispettabile insegnante di un ginnasio di provincia, innamorato di Lola Lola, che si esibisce nell’omonimo locale cittadino “Der Blaue Engel” (L’Angelo Azzurro). La passione per la cantante di varietà sarà causa di una totale perdita di sé fino alla morte. La leggenda narra che aggirandosi tra i teatri di Berlino, Sternberg rimase accecato dalla Dietrich in scena per una piccola parte in una commedia di Georg Kaiser. Gli occhi di ghiaccio, il corpo voluttuoso, la voce dura e roca, l’espressione indecifrabile erano ciò che cercava per dare credibilità al personaggio di Lola Lola. In questo, che è il primo film sonoro del cinema tedesco, si impone così una figura femminile inedita, una donna seduttiva, audace, indifferente ai sentimenti. Grazie a questa interpretazione si fisserà per sempre nell’immaginario collettivo il prototipo della donna fatale, sessualmente libera, dal fascino enigmatico, capace di conquistare chiunque, uomini e donne. La voce, nell’esecuzione della celeberrima Ich bin von Kopf bis Fuss Auf Liebe (Sono fatta per l’amore dalla testa ai piedi)
o in Die Fesche Lola, roca e squillante insieme, a metà tra il parlato e il cantato, è il suono di un’identità così misteriosa da ammaliare schiere di uomini e di donne.
Il talento nel canto, poi, nella nascente era del sonoro, si rivela l’arma vincente. Dopo la prima de L’Angelo Azzurro, la critica tedesca è concorde nel lodare un’opera che esalta l’espressività vocale degli attori e in particolare di Dietrich. Lei, però, è già in viaggio verso la California. L’ascesa di Adolf Hitler e l’avvento del Terzo Reich rendono la Germania un luogo invivibile, dominato da un clima di violenza intollerabile, di cieca retorica nazionalista. Altre donne scelgono di appoggiare le imprese del nuovo astro della politica tedesca: tra loro Eva Braun, Winifred Wagner, moglie di Siegfried, figlio del compositore Richard Wagner, o la regista e attrice Leni Riefenstahl. È noto a tutti il debole di Hitler per la bionda fatale Marlene: privatamente si fa proiettare i film da lei interpretati, più volte fa domanda di incontrare la grande artista, con l’intento di annoverarla tra le sue amanti. Lei ogni volta declina. Come rifiuta le medesime pressioni da parte di Goebbels, ministro della Propaganda che le promette una carriera stellare in Germania. Dietrich si nega, senza mai alcun tentennamento, sbeffeggiando quell’interlocutore insulso. Mai volle avere a che fare con i detentori di un pensiero folle, artefici della rovina della Germania e dell’Europa, che avevano trascinato in una devastante guerra mondiale.
Nel frattempo, la diva arriva in America dove, complice una nuova e definitiva immagine, risultato di una dieta drastica e di trucco e acconciature impeccabili, il corpo di Marlene Dietrich diventa un oggetto d’arte. A Hollywood, Marlene ottiene un contratto di sette anni dalla casa di produzione che distribuisce in America L’Angelo Azzurro, la Paramount. La firma, però, è condizionata da una insolita richiesta, che solo a una grande diva viene accordata, ovvero quella di scegliere il regista con cui lavorare. La clausola inserita nel contratto le permette così di essere diretta solo da Sternberg, il regista che tutto le aveva insegnato, nella vita e in scena. Tra i due si instaura un rapporto artistico quasi simbiotico, dal quale nascono diversi capolavori.
Il primo è Marocco (1930), film destinato a scandalizzare per una serie di scene in cui Dietrich intona canzoni vestita in frac e cilindro, accentuando il carattere ambiguo della sua figura già impresso nel personaggio di Lola Lola. La prima scena cinematografica esplicitamente omosessuale, poi – un bacio tra Marlene e una anonima spettatrice –, rende questo film qualcosa di sconvolgente per i tempi, ma lungimirante e profetico dei cambiamenti, in direzione dei diritti per la libertà di genere e di identità sessuale che la società avrebbe operato negli anni a venire fino a oggi.
Per questa interpretazione della chanteuse Amy Jolly, Marlene riceve la nomination all’Oscar come migliore attrice protagonista, ma nessun premio le verrà attribuito, né per questo film né per gli altri della sua straordinaria carriera. Dietrich è comunque la diva del momento, si scrive di lei, dei suoi amori, della sua vita trasgressiva, dei suoi vestiti firmati Schiaparelli, dei suoi pantaloni, indumento scandaloso per una donna e, invece, indossati sfrontatamente; una fotografia la ritrarrà in tenuta maschile da yacht, accompagnata da uno slogan inequivocabile: “La donna che anche le donne possono amare”. In America la sua immagine diventa iconica: sopracciglia sottili ad ala di gabbiano, fisico longilineo, lunghe gambe che sbucano da vertiginosi spacchi.
Il 1932 è l’anno di Shanghai Express in cui l’immagine della diva viene curata in modo particolare attraverso i costumi di Travis Banton, per esaltare ancora di più la sua bellezza androgina. Si consolida la natura di dark lady diafana e altera nel personaggio di donna indipendente, intelligente e colta, sicura di sé, sessualmente ambivalente. Immagine che sarà riproposta nei film successivi come: Venere bionda, Canzone di canzoni, L’imperatrice Caterina, Capriccio Spagnolo, sempre con la regia di Sternberg. Queste pellicole fanno di Dietrich una delle donne più famose e ricche degli Stati Uniti, a contendersi le scene da protagonista con l’altra diva, Greta Garbo.
Nel 1934 Marlene compie un viaggio in Europa tornando poi in America con il seguito dei suoi familiari. Separata dal marito vive una vita affettiva e sessuale pari a quella dei suoi personaggi, con numerosi amanti di entrambi i sessi. Una condotta considerata scandalosa perfino nel tollerante ambiente di Hollywood. Nel 1935 esce l’ultimo film in cui è diretta da Sternberg, maestro stimolante e anche protettivo, The Devil is a Woman (Capriccio Spagnolo). È lui a decidere la rottura di questo lungo sodalizio artistico, troppe le liti durante le riprese, eccessivamente supponente l’atteggiamento dell’attrice.
Intanto, il 6 marzo 1937, dopo sette anni di lavoro, successi, amori e avventure vissuti negli Stati Uniti, Dietrich, osannata e strapagata, ottiene la cittadinanza americana. La fine degli anni Trenta è, però, una fase di cambiamenti: nuove celebrità, come Katharine Hepburn, impongono una diversa immagine di donna, meno altera, che oscura il personaggio della vamp, tragica e scandalosa. Ma Marlene sa reinventarsi e trovare nuove guide, capaci di esaltare alcuni suoi caratteri non ancora espressi. Lavora con registi come Ernst Lubitsch, che la dirige in Angelo, film in cui il personaggio della dark lady appare più autoironico.
Partita d’azzardo di Joe Pasternak la riporta al livello delle più grandi dive del momento. In questo film scompare l’immagine diafana creata da Sternberg per dare spazio a una figura più “carne e ossa”, consapevole del proprio corpo e dell’effetto sugli altri, una creatura dalla natura meno cannibale ma solidale e pacifica nei confronti degli uomini. Frederick Hollander le scrive pezzi memorabili, come You’ve Got That Look that leaves me weak
e The boys in the backroom. Emerge definitivamente il suo talento vocale.
Sulla scia del successo nel 1940 esce La taverna dei sette peccati, dove di nuovo Dietrich si mette in luce in una travolgente esibizione di canzoni scritte da Hollander. Come I’ve been in love before;
e The man’s in the navy.
In Germania, intanto, è finita l’epoca del grande cinema di Fritz Lang e il diffondersi del pensiero antisemita genera un clima politico e culturale aberrante, che l’attrice continua a condannare, nonostante i ripetuti richiami di Goebbels perché ritorni in patria. In questi anni intrattiene relazioni con giovani uomini al principio della carriera cinematografica, come John Wayne, o attori pluripremiati, come il divo francese Jean Gabin, che si arruolerà volontario in un reparto della fanteria di marina francese agli ordini del generale de Gaulle. Combatterà in Marocco, in Francia, e nella campagna di Germania fino a giungere al “Nido dell’Aquila”, la residenza privata di Hitler a Berchtesgaden. E poi ancora lo scrittore Erich Maria Remarque, autore del celebre romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale, diventato un classico dell’antimilitarismo. In America, però, c’è chi la considera una spia tedesca, invischiata con il nazismo e a esso avversa fintamente. La sua sincerità verrà riconosciuta solo nel 1961.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale il suo impegno alla causa antinazista è totale. È certo che abbia collaborato con il regista Lubitsch nel progetto di portare fuori dalla Germania e dall’Austria un numero indefinito di ebrei. Un intreccio di contatti costruiti nell’ombra che hanno permesso a tanti uomini e donne di trovare la salvezza. Una diva che non si è mai tirata indietro, neanche quando si è trattato di dare un contributo concreto sul campo. Nel 1942 accetta l’invito dell’Office of Strategic Services di cantare canzoni americane in lingua tedesca nel programma radio indirizzato al Terzo Reich. Canzoni che assumono una rara intensità, come Time on my hands;
Mean to me
e Taking a chance on love.
Poi l’impegno si fa anche eroico, quando ottiene di andare oltremare sui fronti di guerra per cantare alle truppe. “Il primo spettacolo fu in Algeria, all’Open House – racconta il libanese Danny Thomas, che aveva il compito di presentare l’attrice nelle sue esibizioni – (…). Urlarono quando lei apparve sul palcoscenico. Non erano preparati a vedere Marlene Dietrich. Rappresentava tutte le donne del mondo, tutte le donne che desideravano”. Cade una bomba non molto lontano, la sera dello spettacolo, e manca la luce, ma i soldati gridano di proseguire, accendono le loro torce proiettandole verso il palcoscenico. Non vogliono che lo spettacolo finisca prima del tempo. La sera della sua partenza, come racconta lo scrittore Charles Higham, l’albergo che la ospita, in un boato, diventa un cumulo di macerie.
Poi è la volta dell’Italia: a Napoli l’impatto di Marlene sui soldati è così travolgente che, completamente sedotti, questi si gettano sul palcoscenico nell’idea di poterla toccare, abbracciare, stringere, tanto che lo spettacolo deve essere interrotto. Racconta il tenente colonnello Robert Armstrong, scorta militare di Marlene in Italia e Francia: “A volte recitava su rozze piattaforme di legno montante nei campi da noi stessi, con soltanto i fari delle jeep a illuminarla, o sotto la pioggia protetta da un ombrello o deboli tendoni di canapa. Non ebbe mai più una valigia per il trucco e i costumi di scena. Usava l’uniforme dei G.I. [i soldati dell’esercito statunitense]: giacca Eisenhower, calzoni da marinaio. Non si lamentava mai. Mai. Credo che le piacesse fare il soldato. Essere uno dei ragazzi”. Ma ciò che si fissa indelebilmente nella sua mente è la condizione dei soldati negli ospedali da campo, come riportato da Charles Higham.
Racconta Marlene: “Esordivo sempre con See what the boys in the back room will have, perché era quella che tutti volevano (…). Ritornavo a vedere i feriti che avevano condotto mentre cominciava lo spettacolo. Nel frattempo erano stati ripuliti, operati e imbottiti di analgesici, cosicché giacevano inerti nei letti (…). Si vedevano file di letti, accanto a ognuno c’era un’asta e da questa pendeva un vaso di vetro, un vaso di sangue. L’unico movimento era il gorgogliare del sangue e anche l’unico suono: un lievissimo mormorio. Stavo immobile a osservare la vita che scorreva dalle bottiglie fin dentro ai ragazzi; la vedevi arrivare dentro di loro, la sentivi”. Ovunque, in quegli ospedali, ci sono giovani feriti e malmessi. Anche soldati tedeschi. “Vada a parlare con loro, che sono malridotti”, le dicono una volta. “Andavo da quei giovani volti nazisti – racconta – e mi chiedevano con le lacrime agli occhi: ‘È lei la vera Marlene Dietrich?’ Allora dimenticavo il passato e cantavo Lili Marleen per loro e per tutti i ricoverati. Non c’è stato momento più grande nella mia vita”.
Lili Marleen sarà la canzone simbolo della sua impresa, diventata inno di pace e testimone di fratellanza, cantata dai soldati su tutti i fronti. Nata durante la Prima guerra mondiale dalla poesia del soldato Hans Leip, poi musicata da Norbert Schultze, venne cantata la prima volta da Lale Andersen. Fortemente osteggiata da Goebbels, che avrebbe voluto censurarla da ogni programmazione radiofonica, trovò, invece, con Dietrich, la massima diffusione. Lei, infatti, la canterà in tutte le lingue, con un’intensità unica e straziante.
Nell’aprile 1945, prima della resa della Germania, è in visita al campo di concentramento di Belsen, in cui è internata la sorella Elisabeth. Ricorda il freddo e la pioggia gelida, Marlene. Poi la puzza nelle baracche, i corpi ammucchiati, tra sangue, fango, sporcizia. Tutti fanno il possibile per trovare la sorella, lei prende coraggio e si aggira tra quei cadaveri, la cerca nei volti, tra gli stracci e la scopre ancora viva, benché malata di tifo. Probabilmente tenuta in ostaggio dal regime al fine di convincere la diva ad abbandonare la sua impresa di intrattenere le truppe americane. Il suo impegno militante sarà causa di persecuzione anche nei confronti della madre, segregata a Berlino, che Marlene riuscirà ad abbracciare solo poco prima della morte, alla fine del 1945. Si ammalerà anche lei, di polmonite. Salvata dalla penicillina per la cui scoperta lo scienziato Alexander Fleming aveva ricevuto il premio Nobel per la medicina proprio nel 1945, Marlene mostrò pubblicamente verso di lui ammirazione e gratitudine.
L’arrivo a Roma è tra i suoi ricordi più felici: i fiori, le fanfare, le sigarette e la cioccolata lanciate alla folla incredula, radunata attorno ai carri armati. In America, per il suo impegno civile, viene nominata mascotte del 71º reggimento di fanteria e le viene riconosciuta la maggiore onorificenza per chi si è distinto per la causa della libertà, la Medal of Freedom, consegnatale nel 1947. E anche il governo francese, per la sua attività a favore della democrazia e a supporto delle truppe impegnate nei combattimenti, le attribuisce il titolo della Legion d’onore.
Berlino e la Germania, invece, restano un luogo non gradito in cui la diva non è benaccetta: nonostante l’incontro con uno dei capi della nuova politica tedesca, infatti, la gente per le strade le intima di tornarsene in America, al grido di Marlene go home. Del resto, più volte Dietrich additò al popolo tedesco una responsabilità nella guerra, ritenendo non solo Hitler colpevole di quanto successo: l’affermazione “Credo che ce lo siamo voluto”, ritorta contro di lei, offese molti tedeschi, per lungo tempo. Dopo la guerra, Dietrich lavora con nuovi registi: George Lacombe in Roumagnac; Billy Wilder in Scandalo internazionale, dove interpreta il ruolo di una cantante nazista nella Berlino devastata dai bombardamenti; Alfred Hitchcock in Paura in palcoscenico dove canta The laziest girl in town di Cole Porter
e Orson Welles in L’infernale Quinland.
In questi anni diventa molto amica della cantante francese Édith Piaf. Fragile e insicura del proprio talento, è Marlene a incoraggiarla. Le è vicina al suo debutto a New York al Versailles Restaurant. È lì ad ascoltarla e applaudirla la sera che finalmente anche il pubblico americano comprende la grandezza di questa interprete di canzoni struggenti, che raccontano destini avversi, storie di vagabondi, di schiantati dalla guerra.
Nel 1958 riceve la nomination Golden Globe per Testimone d’accusa e il David di Donatello per il film Vincitori e vinti di Stanley Kramer (1961). Qui, nei panni di Frau Bertholt, vedova di un generale, ha il compito difficile di difendere il suo Paese, martoriato e in rovina davanti a un giudice americano nel processo di Norimberga. Marlene è gigantesca quando accenna a qualche parola del testo di Lili Marlene. Ma il cinema le appare sempre più un processo meccanico in cui le qualità artistiche sembrano passare in secondo piano.
Le esperienze sui palcoscenici improvvisati durante la guerra le rendono chiaro che ora la sua strada è il teatro. Lì sta il suo futuro, la messa in scena di se stessa come opera d’arte totale, padrona del palcoscenico. Il drammaturgo inglese Noël Coward le svela le enormi possibilità che la scena le può offrire, mettendo in piedi uno spettacolo-recital che combini monologo e sequenza di canzoni. Cantare si rivela la sua forma d’espressione più autentica, attraverso cui esprimere il suo talento. A cinquant’anni Marlene incarna il sogno di una bellezza eterna, una presenza magnetica resa ancora più seducente dal canto. È straordinaria nell’arte di parlare come se cantasse, ha la libertà nella voce, ma anche la dedizione alla parola, che è sovrana.
Nel 1953-54 si esibisce dal vivo al Sahara Hotel Congo di Las Vegas e a Londra, al Café de Paris, ottenendo un clamoroso successo, cui segue una lunghissima tournée. Fino al 1975 è in scena in diversi teatri del mondo, mostrandosi al pubblico inguainata in abiti attillatissimi con decorazioni di strass, perle e gioielli. Una dea che incanta con l’eleganza dei movimenti, la recitazione impeccabile, lo stile superbo e la voce che intona capolavori. Alle sue spalle, dal 1957 al 1964, autore degli arrangiamenti, è il grande musicista Burt Bacharach.
Canta canzoni vecchie e nuove, diventate grandi classici. Come I’ve grown accustomed to her face;
o My blue heaven;
Falling in love again;
You are the cream in my coffee
e Where have all the flowers gone? canzone antimilitarista di Pete Seeger
famosa anche nella versione tedesca Sag Mir Wo Die Blumen Sind.
È a Rio de Janeiro, in Russia, in Australia. Ad Amsterdam chiede di poter visitare la casa di Anna Frank. Ne esce con gli occhi bagnati di lacrime, non parlerà mai dell’episodio. In Inghilterra alla Royal Albert Hall e al Prince of Wales Theatre, canta nella stessa serata dei Beatles. Torna in Germania con un’accoglienza sbiadita, ma lei adora cantare nella sua lingua ed essere perfettamente compresa da coloro che vedono in lei l’emblema della Germania libera. In Israele è proibito cantare in tedesco, ma lei contravviene all’imposizione e viene ripagata con un’ovazione, sia a Tel Aviv che a Gerusalemme.
Nel 1962 partecipa al documentario di Louis Clyde Stoumen, The black fox – sulla carriera di Hitler – che vincerà un Oscar. Negli anni Settanta Marlene è universalmente riconosciuta icona della moda, di uno stile glamour, al punto che grandi autori pop si ispirano a lei, nell’immagine e nel carattere trasgressivo. Freddie Mercury per la copertina dell’album “Queen II” la celebra con una foto che lo ritrae nella stessa posa di Marlene in uno scatto degli anni Trenta. Il 1978 è l’anno del suo ultimo film, Gigolò di David Hemmings, accanto a David Bowie, rockstar glam rock incredibilmente gender fluid.
Gli ultimi anni sono vissuti in uno stato di malinconia per la lontananza dalla patria abbandonata e nella sensazione di non essersi mai veramente integrata nella terra che le ha permesso l’affermazione professionale. Sceglierà Parigi e la solitudine per trascorrere l’epilogo infelice di una vita trascorsa sfrontatamente in primo piano. Come artista e come militante, accesa sostenitrice dell’antinazismo, del pacifismo, della libertà in ogni sua declinazione. Muore il 6 maggio 1992 dopo otto anni passati a letto, senza quasi potersi muovere, colpita forse da infarto o da sfinimento psicofisico. È sepolta a Berlino accanto alla madre. Sulla tomba è inciso: Qui giaccio/ alla pietra miliare/ dei miei giorni.
Nel 1984 l’attore Maximilian Schell realizza un film-intervista nel quale della diva, per sua volontà, appare solo la voce.
Marlene scompariva dalla scena mentre nel mondo si moltiplicavano le citazioni alla sua produzione musicale e cinematografica e alla sua figura, simbolo di autenticità, di emancipazione da ogni condizionamento sociale, morale, culturale, sessuale: fuori da ogni classificazione. Artista geniale e ribelle, ironica, profetica, profondamente se stessa, eterna musa di un’arte necessaria che assolve al ruolo più nobile, quello di frantumare le convenzioni e mettere in discussione ogni stereotipo. Marlene Dietrich, immortale diva.
Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi. Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato sabato 9 Aprile 2022
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/marlene-dietrich-la-diva-di-berlino-che-ripudio-la-germania-hitleriana/