e non può essere etichettata
in nessun segmento
della musica popolare brasiliana”.
Caetano Veloso
Bahia, e la sua tradizione etnica sono un tripudio di suoni, stili, colori che irradiano luce in tutto il Brasile.
Bahia, provincia costiera intorno a Salvador è il cuore musicale che riecheggia tra le foreste, gli altipiani, i massicci poderosi di questa vasta area del Sud America.
Qui si è generata un amalgama che ha fuso civiltà india, cultura africana importata dagli schiavi, spirito europeo imposto dai colonizzatori portoghesi. Dalla mescolanza di identità eterogenee hanno preso vita espressioni religiose, folcloriche e musicali tipiche, che hanno connotato la varietà di questo territorio a nord di Rio. Così la descrive Gildo De Stefano, che tanto si è soffermato sulla vita e sulle tradizioni di questa terra: “Bahia ha il suo cibo, i suoi costumi, i suoi culti per la religione yoruba, importata dagli schiavi della Nigeria. È una regione colorita, con una musica corrispondente alla sua cultura: tutto, dal reggae alla salsa, si fonde con gli stili locali del samba e del merengue, derivanti per lo più dal sound della Madre Africa” [De Stefano, “Il popolo del Samba”, p. 175].
Chi più di tutti ha saputo interpretare l’atmosfera di questo luogo, attraverso la musica, è un gruppo di artisti noto come clover-leaf, il quadrifoglio, di cui fanno parte Gilberto Gil, Caetano Veloso, Gal Costa e la sorella di Veloso, Maria Bethânia. Su quest’ultima soffermiamo il nostro interesse. Una carriera connessa a quelle dei musicisti brasiliani appena citati, a volte amalgamata, a volte più ribelle, ma pur sempre figlia di un Brasile che, al momento della sua affermazione come artista, voleva fortemente conquistare il mondo. Attraverso i ritmi, le sonorità, le danze tipiche di questo Paese.
Unica madre tra i tanti padri della musica brasiliana, schiva ed essenzialmente se stessa solo sul palcoscenico, così Maria si descrive: “Le etichette, il fatto di essere chiamata Regina, Diva, mi riempiono d’orgoglio. Ma le parole finiscono qui. Io sono una donna, una cantante del nord-est brasiliano, vivo per rappresentare l’anima e il cuore del mio popolo. Il resto non conta” [Repubblica.it, 04.01.2010].
Maria Bethânia Vianna Talles Veloso, nata nel 1946 a Santo Amaro de Purificaçao nel nord-est del Brasile, è lo spirito di questa terra. A Santo Amaro da Purificação, piccolo centro nel reconcavo baiano, tra gli ultimi giorni di gennaio e i primi di febbraio si celebrano una serie di riti religiosi che mescolano la cultura cattolica ereditata dai portoghesi a quella sincretica di origine africana. Tra questi la celeberrima Festa de Nossa Senhora da Purificação, una delle più tradizionali feste religiose del Paese. Si compone della Novena de Dona Canô, citata anche nel brano “Reconvexo” di Caetano Veloso, passando per quella che si definisce in portoghese Lavagem do adro da igreja, fino a culminare nella processione. Nel mondo musicale di Maria, nella sua teatralità, nel suo misticismo rientra questo contatto profondo con la tradizione locale, con le manifestazioni tipiche della religiosità del popolo, che ha radici antiche, intrise di ritualità. Una recente intervista a Maria sulla festa:
Sesta di otto figli nati nella famiglia di José Telles Veloso (Seu Zeca), un funzionario del governo, e Claudionor Viana Telles Veloso (Dona Cano), una musicista, il suo nome di battesimo lo sceglie il fratello Caetano, dopo l’uscita dell’omonima canzone di successo scritta dal compositore Capiba e resa celebre dalla voce di Nélson Gonçalves. Un destino già scritto, dunque. Di essere dentro la musica, appena nata.
In realtà, l’infanzia di Maria è segnata dal desiderio di diventare attrice. Ed è vero che la sua capacità di stare in scena, la sua arte espressiva sono aspetti caratteristici che devono provenire per forza da un istinto naturale, da un’ambizione da sempre coltivata. Ma la musica è prevalente. La musica è il cuore della famiglia Veloso, impossibile non esserne travolta.
A tredici anni con la famiglia si trasferisce a Salvador, Bahia. Ed è qui che le si spalanca un mondo incantato di suoni, di ritmi pervasivi, di suggestioni letterarie che la affascinano e ne condizionano per sempre la musicalità.
Bahia è un proliferare di circoli intellettuali, di teatri, di luoghi in cui la musica si produce, si ascolta, si vive. A sedici anni il fratello Caetano, appassionato di cinema, la invita a cantare in un film per il quale sta producendo la colonna sonora. Lei rifiuta, ma il regista di quella pellicola, Álvino Guimarães, sa che quella voce è speciale e la coinvolge nel musical di Nelson Rodrigues, Boca de Ouro. È il 1963 e questa volta Maria accetta. Sale su un palco e canta per un pubblico. Comincia lo spettacolo eseguendo un samba di Ataulfo Alves. È già un trionfo.
In quello stesso anno si formano i Baianos, composti da Caetano, Gil, Gal, Maria e Tom Zé. Tutti studenti della Facoltà di Filosofia, tutti uniti nella stessa passione per la musica popolare da reinventare.
Dalla loro collaborazione nasce Mora na filosofia che va in scena al Teatro Vila Velha a Salvador. Uno spettacolo che mette in luce le peculiarità e le innovazioni che i giovani artisti introducono nella canzone. Una rottura rispetto a ciò che si ascoltava fino a quel momento.
Innovazioni che diventeranno parte integrante del Tropicalismo, movimento musicale sorto in quegli anni Sessanta, dall’idea di “salvare il Brasile dall’invasione di ballate romantiche che aveva preso il sopravvento alla fine degli anni Cinquanta, dopo il boom della bossa nova.” [De Stefano, p. 175]. Il nome prendeva spunto da un quadro che rappresentava l’antropofago indio, opera dell’allora moglie del grande scrittore costruttivista Oswald de Andrade, Tarsilia do Amaral. Profeta della nuova sinistra e dell’arte pop, Oswald non poteva non colpire l’attenzione dei giovani creativi di quella generazione. Il concetto di “antropofagia”, così come inteso dal movimento tropicalista, veniva alla luce nel Manifesto Antropófago (Manifesto Cannibale) del 1928. In esso l’autore esprimeva una teoria rivoluzionaria: la forza del Brasile risiedeva nella sua capacità di cannibalizzare, da sempre, le altre culture. La frase Tupy or not Tupy, that is the question – ispirata dalla prima tribù autoctona costretta a doversene andare all’arrivo della ‘civiltà’ – incitava a non fuggire di fronte al nuovo, a divorare la cultura altra per assimilarne i caratteri più fecondi. Verrà reinterpretato, questo manifesto, diventando strumento di affermazione del Brasile contro il dominio culturale post-coloniale europeo. “L’idea del cannibalismo culturale – racconta Veloso – ci calzava proprio a pennello, a noi tropicalisti. Stavamo “mangiando” i Beatles e Jimi Hendrix. Le nostre argomentazioni avevano trovato una formulazione concisa ed efficace. Naturalmente la facemmo nostra […]. L’antropofagia è un modo radicale di rivendicare un’identità” [De Stefano, p. 177]. Era un cannibalismo culturale e musicale, un cannibalismo che traeva linfa da tutti i generi: li mescolava, li mischiava e ne faceva uscire qualcosa di mai sentito prima. [Cfr. Veloso, “Verità tropicale: musica e rivoluzione nel mio Brasile”, p. 201].
Sono gli anni del colpo di stato in Brasile, il golpe militare messo in atto dagli Stati Uniti di Lyndon Johnson, preoccupato, con la presidenza di João Goulart, di un eccessivo orientamento a sinistra. Nel 1964 gli Stati Uniti impongono un governo di generali e attuano di fatto l’assoggettamento del Brasile. Sotto la dittatura terroristica del generale Castelo Branco, il Paese soffre la privazione dei diritti politici, oltre che delle libertà di espressione. Così, diversi artisti, quelli che non riescono a fuggire dal Pese auto esiliandosi, sono rinchiusi in carcere. Chi trova rifugio porta con sé la propria cultura, ed è questa fuga che permetterà al resto del mondo di venire a conoscenza di quella sfolgorante ricchezza artistica. I tempi cambiavano ovunque e gli slogan delle manifestazioni studentesche contro l’odio razziale, contro la guerra in Vietnam, contro ogni ingiustizia sociale attraversavano il mondo da parte a parte. Trasportate dalle musiche, dai libri, dalle canzoni. I nuovi artisti brasiliani dell’avanguardia musicale davano così vita alla costruzione di un linguaggio nuovo, capace di fondere il mondo popolare con quello della musica erudita.
Lo stesso gruppo di artisti mette in scena un nuovo spettacolo intitolato Nos, por exemplo, una raccolta di classici della musica popolare brasiliana dagli anni 30 agli anni 50, sempre al Teatro Vila Velha di Bahia. Si vuole sperimentare, uscire dagli schemi, reinventare il passato. “L’idea era di modernizzare la musica brasiliana – dirà Gil –. Io e Caetano guardavamo ciò che facevano Dylan, i Beatles, gli Stones e i movimenti studenteschi nei campus, e decidemmo che era venuto il momento in cui la gioventù brasiliana facesse la sua dichiarazione” [De Stefano, p. 177].
Così la musica, nella sua nuova veste, si lega anche all’impegno.
Sono numerosi i musicisti tropicalisti che si dedicano, attraverso le canzoni, all’attivismo politico. Sono la risposta agli eventi del golpe del 1964. Così come lo è il Cinema novo. Il movimento resiste pochi anni, ma da esso prende vita la Música Popular Brasileira o Mpb che, nei vent’anni di lotta per la libertà di espressione e contro ogni censura artistica, rende il Brasile terreno fertile di innovazione nei vari aspetti della musica popolare. Fino alla cessazione del regime militare, nel 1985.
Sono canzoni provocatorie che affrontano i drammi sociali e politici di un Brasile indigente, sconquassato da difficoltà di ordine sociale e politico, dalle diseguaglianze razziali. Canzoni come Haiti, di Caetano Veloso e Gilberto Gil, scritta successivamente per documentare le deprivazioni della povera gente e le violenze razziali subite.
L’aver dato voce a questi “problemi sociopolitici contemporanei come la povertà in rapporto all’etnia (e all’ambiguità dell’identità razziale), la brutalità della polizia e dei militari, la difesa della pena capitale e dell’illiceità dell’aborto da parte dei politici e della chiesa ufficiale, l’assassinio di massa dei bambini senza fissa dimora, l’epidemia dell’Aids, rendeva questi musicisti una minaccia. Potevano influenzare negativamente, corrompendole, le coscienze e le idee dei giovani brasiliani che dovevano restare all’oscuro di ciò che stava accadendo. Alcuni verranno incarcerati. Altri subiranno intimidazioni e torture. Altri ancora manifesteranno il proprio disagio attraverso il suicidio. [Gerard Béhague, “Rap, Reggae, Rock, or Samba: The Local and the Global” in “Brazilian Popular Music” (1985–95), in Latin American Music Review” vol. 27, n. 1, Spring/Summer 2006, pp. 79–90].
Nel 1967, infatti, la vita in Brasile diventa sempre più insopportabile con l’alternarsi di marescialli che impongono un potere assoluto. Nel 1968 Gilberto Gil e Caetano Veloso, come Mikis Theodorakis in Grecia, vengono incarcerati senza particolari accuse, e poi esiliati. Sono un pericolo. Viene vietato loro di esibirsi, di comparire in programmi radiofonici o televisivi, di fare musica. La musica, che tanta presa ha sui giovani, incombe come un masso sulla testa di un Paese che si vuole tenere nel silenzio e nella sottomissione.
Con loro c’è anche Maria. Definita “l’incarnazione dello spirito dell’Mpb”, parte integrante della rivoluzione del Tropicalismo, è lei in quegli anni a creare le fondamenta su cui è stato costruito il successo della musica popolare brasiliana nel mondo. A queste varie correnti innovative e rivoluzionarie si lega il suo primo lavoro.
“Quando cominciai con Caetano e Gil – racconta – fui la portabandiera di una generazione: ero la musa della gioventù che chiedeva di essere liberata. E in quei momenti mi consideravo come quei giovani. […]. Sono un’artista e nel mio lavoro il fattore socio-storico è sempre presente, consciamente o inconsciamente”. [De Stefano, p. 198, da un’intervista rilasciata a Canal 2 di São Paulo].
Maria ottiene un immediato consenso di pubblico già ai primi spettacoli. Racconta attraverso le sue esibizioni la realtà del Brasile di quegli anni e la sua esperienza di vita, facendo trasparire l’emozione e una forte carica drammatica tipica del suo canto. Che l’ha resa presenza magnetica, una figura quasi mistica di donna e di artista, capace di incarnare la parte più viscerale della sua terra. “Bethânia – come dice Caetano nel documentario su di lei, Fevereiros – è piena. Un essere, completo, illuminato, raro, circondato da un’aurea mistica incredibile, che traspare completamente”. É questo che sorprende. È la sua vocazione nell’esprimere l’intangibile, nel raccontare l’impercettibile mistero dell’esistenza umana carnale e spirituale. Non solo come cantante, ma come emanazione mistica, centro gravitazionale di una religiosità, bisognosa di essere salvaguardata più che mai e che a Santo Amaro germoglia come in nessun altro centro del Brasile.
Il trailer:
Nel 1965 Maria viene chiamata a sostituire la musa della bossa nova, Nara Leão nello show Opinião (Opinione) a Rio de Janeiro. Lo spettacolo è uno dei primi che si colloca in posizione critica nei confronti della dittatura militare. Parte da qui, con questo spettacolo portavoce delle istanze della sinistra nazionalista populista, la versione più politica di Maria. Che la avvicina all’icona della canzone di protesta americana Joan Baez.
“L’essenza del brasiliano – dirà Maria – è come un biglietto di banca falso: non mangia bene, beve peggio, non può vedere uno show. È tutto censurato, è una bella guerra…” [De Stefano, p. 197].
“Alcuni mesi dopo la rivoluzione – come era chiamato ufficialmente il golpe che aveva instaurato il governo militare, racconta Veloso – il musical Opinião riuniva in un piccolo teatro di arena a Copacabana un compositore del morro (Zé Kéti), un compositore del Nordeste (João do Vale) e una cantante di bossa nova della Zona Sud carioca (Nara Leão), combinando il fascino degli spettacoli de bolso (tascabili, ndr) di bossa nova realizzati nei locali notturni, con l’eccitazione del teatro politico. Lo spettacolo rappresentava una delle espressioni più compiute del tentativo di alcuni bossanovisti (tra questi Nara Leão) di avvicinare la musica moderna brasiliana di buona qualità all’arte impegnata. Questa tendenza ebbe come fautore e precursore lo stesso Vinìcius Morales, il primo e più illustre paroliere della bossa nova, e raggiunse a volte eccellenti risultati. Il Brasile creò infatti la più incantevole forma di canzone di protesta del mondo. Fra l’altro quello spettacolo inaugurava lo show di musica ‘teatrale’ – ossia le canzoni erano inframmezzate con testi scelti della letteratura brasiliana e mondiale o scritti appositamente per l’occasione –, che da quel momento in poi avrebbe avuto un grande sviluppo nell’ambito della musica popolare brasiliana” [Caetano Veloso, p.53-54].
L’album (con Nara Leão):
Documenti d’epoca sullo spettacolo:
Carcarà, di João do Vale, costituiva il momento clou della serata, già nell’interpretazione di Nara. Ma Maria, con un talento drammatico ineguagliabile, aggiunge un tale intensità da rendere reali, tangibili le immagini evocate. Descriveva la naturale violenza con la quale il carcarà – un falco che vive nel Nordeste – attacca le caprette appena nate. “Il ritornello pega, mata e come (prende, ammazza e mangia) veniva ripetuto ogni volta con crescente intensità. L’ombra di un paragone – carcarà, mais coragem do que homen (carcarà, più coraggioso dell’uomo), era sufficiente, nel contesto, a suggerire un vago ma potente argomento rivoluzionario” Come non ricordare l’avvoltoio di Cantacronache, che incombe sull’umanità, simbolo di guerra e di violenza.
“Capii subito – continua Veloso – che Bethânia avrebbe interpretato superbamente questo pezzo. In effetti sin dalla prima serata in cui sostituì Nara, Carcarà divenne un cult per ogni spettatore che avesse una coscienza politica e quando fu registrato il 45 giri riscosse un successo strepitoso.” [Veloso, p. 54].
Questo momento coincide anche con la scoperta di Maria come cantante. Lei con la sua origine bahiana diventa l’artista dal talento drammatico incommensurabile a cui si unisce la forza di una personalità guerriera. “Solo io vivo – dice ben consapevole del proprio carisma –, Maria Bethânia, solo io so chi è, l’artista e la cantante” [De Stefano, p. 197].
Ma dopo quel successo prevale la nostalgia per la sua terra e Maria fa ritorno a Bahia, dove viene reclamata nei locali più frequentati della città carioca.
La casa discografica Odeon le offre un primo contratto a cui ne faranno seguito altri con l’editrice Phonogram divenuta poi Polygram. Con questa incide A tua presença, in cui canta diversi pezzi scritti dal fratello. Come Janelas Abertas N. 2, Quem Me Dera, e soprattutto A tua presença morena, canzone in cui Maria esprime la sua intrigante sensualità: “La tua presenza/Si diffonde nel campo abbattendo le recinzioni/La tua presenza/È tutto ciò che mangi, tutto ciò che prega”.
Anche Rosa dos ventos, scritta da Chico Buarque De Hollanda, ha parole piene di poesia per un amore potente che travolge anima e corpo.
https://www.youtube.com/watch?v=wq3-vTTpPGc
Ma è solo con Rosa dos ventos, un recital scritto con Fauzi Arap e inciso poco dopo, che Maria realizza il suo sogno: essere protagonista di uno spettacolo nel quale spaziare in lungo e in largo tra i temi e le atmosfere che esprimono a pieno la sua personalità artistica. Si alternano i generi musicali più vari: dai frevos al samba, ai baioes passando per una gran parte di repertorio ispirata al candomblé.
Tutto l’album:
È l’anima del Brasile che esplode nella mescolanza dei generi musicali, della tradizione e della modernità. Degli stili e delle tematiche. Le vicissitudini passate e presenti. Sulle quali Maria appoggia uno sguardo da artista, politico, che prende un suo specifico significato:
“Non ho mai parlato di politica e il mio lavoro non è direttamente collegato alla politica. Forse è politico nella misura in cui si trasforma e trasforma le altre forme; nel momento in cui il lavoro dell’artista si attua, già sta commentando il suo tempo. D’altronde noi artisti siamo un po’ medianici, abbiamo una specie di sesto senso [De Stefano, da un’intervista rilasciata a Canal 2 di São Paulo, p. 198].
Nel 1978 con l’album Alibi raggiunge il traguardo di un milione di dischi venduti. È la prima cantante donna brasiliana a essere conosciuta in tutto il mondo.
https://www.youtube.com/watch?v=84FRqdCkCGA&list=PLAdta3CbHYNQlQBhUXi3WgDsXV4Qoe9h7
Così, Maria, simbolo di intraprendenza femminile; libera dalle catene del ruolo sociale, dai limiti di ogni costrizione artistica, politica, economica, di genere, ha reso la sua vita un’icona. Di emancipazione, di vitalità e potente affermazione di sé. Un trapezio lanciato nel vuoto. Senza vincoli, senza lacci. Ha insegnato alle donne il valore del riscatto da un passato schiavo e sottomesso. Senza per questo essere femminista. Umana e mistica. Solida e spirituale. Concreta e imprenditrice. “Molti amici, professori, medici, mi hanno parlato delle difficoltà che ci sono per le loro donne, come se fosse un problema importante di fronte alla fame dei brasiliani, all’analfabetismo dei brasiliani, alla morte dei brasiliani. La forza della donna si può dimostrare anche e soprattutto in altri modi: sono una donna e sono all’apice della musica popolare brasiliana […]. Invece di guadagnare il 20 per cento, utilizzo parte del mio denaro per far lavorare gente che vale; contemporaneamente produco alcuni artisti…l’importante è dar da mangiare alla gente, poi istruirla. Insomma è certo che per pensare bene è necessario prima mangiare bene” [Di Stefano, da un’intervista a Rete Globo, p. 198].
Nel 2006 il documentario musicale Maria Bethânia música é perfume di Georges Gachot illustra il processo creativo della cantante.
Un secondo documentario, Pedrinha de Aruanda, ne narra l’arte, la speciale umanità, la religiosità.
Del 2016, lo spettacolo Abraçar e Agradecer la rappresenta in piena attività artistica.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato domenica 31 Maggio 2020
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/maria-bethania-libera-musa-di-una-generazione/