È la voce del collettivo Offlaga Disco Pax, ma anche autore dei testi che, insieme alla musica elettronica minimale di pregevolissima fattura, ne hanno fatto un riferimento della storia musicale indipendente e politica, anche dopo il loro scioglimento avvenuto nel 2014. Perché Max Collini, da ex militante della Fgci, nei suoi testi ha sempre coniugato esperienze biografiche con vicende politiche nazionali, evocando un immaginario di provincia, quello di Reggio Emilia, legato ai luoghi della Resistenza, alle Feste dell’Unità, alle case popolari in cui il Pci prendeva maggioranze bulgare, alle toponomastiche da Via Carlo Marx a Via Ho Chi Minh, Via Che Guevara, Via Stalingrado.
“Nessuna conquista democratica, nessuna Costituzione figlia della Resistenza può dirsi acquisita per sempre e il presente non fa che ribadirlo ogni giorno, per questo sarà meglio cominciare da noi stessi a ricostruire il rapporto con la Storia dell’ultimo secolo” sostiene Collini. Ne abbiamo parlato mentre è in tour con il suo ultimo spettacolo “Storie di Antifascismo senza retorica”.
L’Anpi è fermamente convinta che per custodire la memoria delle partigiane, dei partigiani e di tutte le persone antifasciste che hanno riconquistato le nostre città alla civiltà e al rispetto dell’uomo sull’uomo bisogna assicurarsi che questa memoria giunga alle nuove generazioni, alle scuole, alle famiglie, ai luoghi di aggregazione. Ed è ciò che veicola “Storie di Antifascismo senza retorica”.
Non ho mai avuto alcuna pretesa pedagogica nelle cose che faccio, mi limito a raccontare storie, quasi sempre vere o, più raramente, verosimili. Lo faccio anche in questo tour, dove gli aspetti emotivi ed empatici sono fondamentali. Non sono uno storico, né uno studioso, né un accademico, per questo ho scelto con l’aiuto di Arturo Bertoldi, presidente di Istoreco Reggio Emilia e coautore dello spettacolo, di narrare episodi che riguardano aspetti abbastanza marginali o sconosciuti della storia del Novecento. Mi trovo più a mio agio in situazioni non istituzionali e a raccontare vicende che difficilmente trovano posto nei libri. Nelle vicende narrate in “Storie di Antifascismo senza retorica” si parla di persone normalissime travolte loro malgrado dalla Storia, quella con la esse maiuscola, in cui nella loro semplicità hanno detto e fatto cose che ai miei occhi e spero anche a quelli del pubblico si sono involontariamente rivelate straordinarie. Per questo le sento nostre nel profondo di quello che siamo e di quello che non vogliamo diventare.
Cosa risponde alla vulgata “non può esistere antifascismo in assenza di fascismo”?
Mentre per decenni ci si è baloccati su questo favoloso assioma abbiamo avuto in ordine sparso: il Golpe Borghese, Gladio, il Piano Solo, Peteano, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, la strage di Bologna e la strategia della tensione tutta, i Nar, Ordine Nuovo, Terza Posizione, il Rapido 904, Piazza della Loggia, la P2, i servizi deviati e, se vogliamo guardare al presente più prossimo, una miriade di formazioni neofasciste e l’assalto recente alla Cgil a Roma. Sono solo esempi, l’elenco sarebbe infinito. L’assenza di fascismo in questa Repubblica dal 1945 a oggi è stato solo il desiderio mai realizzato di chi ama la democrazia.
Nello spettacolo “Come è potuto accadere?”, elaborato con Pippo Civati, si dimostra quanto dal dopoguerra a Tangentopoli, la società italiana si sia spostata gradualmente a destra. Rigiro la domanda: come è potuto accadere?
A forza di sentirci dire che abbiamo la Costituzione più bella del mondo, dimenticandoci però di comprenderla e applicarla, lo spazio per chi in quella Costituzione non si riconosce si è sempre più allargato. Banalissime questioni di equità sociale, parti opportunità, diritti, libertà sindacali, soggettività, sanità pubblica, beni comuni a un certo punto non sono stati più un patrimonio collettivo. Il passaggio epocale è avvenuto nella seconda Repubblica, dove a un certo punto quello che era di tutti è diventato, non si sa come né perché, di nessuno. In realtà io credo di saperlo il perché, e suppongo lo sappiano anche molti di voi. Le conseguenze nella società sono state catastrofiche e anche la sinistra istituzionale, o quel che ne resta, porta enormi responsabilità in merito. A forza di inseguire un modello che non le apparteneva ma che appariva moderno agli occhi dei garantiti di ogni ordine e grado si è trasformata in un ibrido contraddittorio e senza identità. Le nuove generazioni non conoscono e non conosceranno, temo, un vero Stato Sociale perché chi lo aveva costruito lo ha poi smantellato, pensando di poterselo portare nella tomba come un Tutankhamon qualsiasi. Una cosa inguardabile e orrenda, se posso dire.
In “Piccola storia ultras”, brano dell’album “Gioco di società”, si scopre come un coro dei tifosi della Reggiana nella metà degli anni Settanta fosse intonato sull’aria di una canzone popolare dedicata ai morti del 7 luglio 1960 sotto il governo Tambroni. Perché oggi la musica non parla più di politica? Cosa è successo?
Credo sia normale che le canzoni della musica pop, di Sanremo e della produzione mainstream attuale siano figlie del loro tempo. È sempre stato così. Oggi un cantautore di trent’anni non potrebbe scrivere un brano come “Generale” di De Gregori o come “L’anno che verrà” di Lucio Dalla, non ci sono le condizioni perché questo avvenga, né un contesto che potrebbe accoglierle. Oggi prevale una visione soggettiva, un modo di guardare al mondo e alla contemporaneità che coinvolge solo l’io. Siamo scollegati da lotte sociali e da una percezione dell’altro che sia in qualche modo ancora assimilabile al motto della Rivoluzione Francese. Si parla solo di se stessi in una monodimensionalità che dice tantissimo di quello che siamo diventati. Ogni brano trap scritto da ventenni è un micro trattato di sociologia contemporanea, a volte spaventoso. Trovo che sia un vero miracolo che in un contesto storico simile Dario Brunori abbia realizzato una canzone come “L’uomo nero”. A suo modo è l’eccezione che conferma la regola.
Pubblicato giovedì 20 Luglio 2023
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