Brindisi alla gioventù è il quarto album di Mauro Carrero, dopo Nagìra uscito nel 2022. Se nei precedenti lavori il cantautore piemontese aveva indagato soprattutto il passato collettivo della sua terra, tra Langhe, Alta Val Tanaro e Torino, con reminiscenze che andavano dalle antiche leggende ai fatti di cronaca, da Beppe Fenoglio agli Anni di Piombo, in questo nuovo lavoro domina invece – come segnalato dalle note di copertina – “la contemplazione di un passato più personale”, ma forse allo stesso tempo universale: un passato fatto di dolcezza e nostalgia, di ricordi e di illusioni perdute. Non senza qualche parentesi ironica e goliardica, e almeno un ritorno al passato resistenziale che, si può ormai dire, è uno dei temi di Mauro Carrero.

Il cantautore Mauro Carrero

Nella canzone di apertura, che dà il titolo all’album, ti rivolgi a un generico “tu” del passato, tra foto, gioventù e un bicchiere di vino. Sei tu il protagonista del testo? E quel “sorso a chi non c’è più” è un brindisi a qualcuno in particolare o un addio a quei giovani di allora?

Il protagonista, ovvero il tu della foto, non sono io bensì un amico con cui facevamo gruppo in gioventù. Un personaggio quasi epico, che incarnava quello spirito ribelle e selvaggio che avevamo allora, con i capelli lunghi, l’abbigliamento bizzarro, i tatuaggi che a quell’epoca non erano ancora simbolo di omologazione ma il contrario (che poi erano fatti da soli e male, con china e ago in stile galeotto, “tatuaggi geroglifici” come dico in un’altra canzone). Un amico protagonista di vicende quasi picaresche. “Un sorso a chi non c’è più e un brindisi alla gioventù”, è una frase che effettivamente disse lui. Non so a chi si riferisse ma possiamo dire che tutti abbiamo un qualcuno che non c’è più. Ma è anche, come dici, un addio a quegli anni, a quelle frequentazioni e, appunto, a quello spirito.

Da Youtube

Generazione e Debora raccontano sogni e illusioni del passato con una vena malinconica: i tuoi testi parlano di un “tempo bruciato chissà come” e di “vani simboli di fedi e libertà”. Nel raccontarci la storia di queste canzoni, dicci se ciò che è andato in fumo è il sogno di qualche singolo individuo o di un’intera generazione.

Molti dei sogni che sono andati in fumo sono i miei. A quel tempo immaginavo di avere di fronte mille strade e possibilità, pur con le idee confuse e forse ingenuamente. Poi andando avanti ti trovi a fare i conti con la realtà, con “quel poco che a vivere ci è dato”, per citare un cantautore a me caro. Per quanto riguarda i sogni o i valori della nostra generazione da giovane (mi riferisco agli Anni 90), la vedevo come una generazione piuttosto disillusa o addirittura nichilista, ma mi è difficile giudicare, forse sono solo impressioni dovute al fatto che vivevamo in un territorio molto periferico (l’Alta Val Tanaro). Quello che sicuramente non ci aspettavamo era una rivoluzione informatica e mediatica di tale portata. Si intravvedeva forse qualcosa ma, se dalle generazioni precedenti avevamo sentito parlare della speranza di una rivoluzione volta a una maggiore equità sociale, l’unica rivoluzione a cui abbiamo assistito, inermi, è stata appunto quella tecnologica. In “Generazione” accenno a questo fatto, mentre Debora è una dedica a una compagna di classe delle superiori, uccisa dall’ex, ed è stata la canzone da cui sono scaturite poi tutte le riflessioni su quel periodo e buona parte delle altre tracce.

Dunque canti il passato da un oggi che sembra sempre inadeguato, carente, difettoso: che cosa manca al presente? Che cosa rimproveri a questo nostro mondo attuale?

In realtà non giudico il presente. Canto del passato perché, come dico nel libretto del cd, è l’unica cosa che conosco, anche se a volte in modo trasfigurato. Il presente è ambiguo, spesso indecifrabile, mentre il futuro, per quanto si possano azzardare delle previsioni, ci è ignoto. Solo nel brano intitolato L’app-untamento è contenuta una parziale lettura del presente. È una canzone goliardica che racconta di una disavventura tramite un’app di incontri, e quindi racchiude in sé una sorta di riflessione su questa società sempre più dominata da social, app, influencer, mondi virtuali e, più in generale, su questa innovazione frenetica con la quale, personalmente, faccio molta fatica a tenere il passo. Un tema molto complesso che certamente non ho la presunzione di affrontare in una canzone, e al quale accenno soltanto attraverso questa storia comica e al suo epilogo: “Un giorno ho detto provo l’amore con un’app, e adesso mi ritrovo che l’han barbame i ciapp”.

Ma ci sono anche canzoni attraversate da un’atmosfera di speranze per il futuro, seppur vaghe e quasi impalpabili. Sto pensando a Aria di Marzo e Nella valle.

Aria di marzo è un inno alla primavera o, meglio, a quel momento magico in cui si inizia a percepirne l’arrivo, un canto dedicato alla rinascita, alla luce, quindi contiene certamente un senso di speranza. Nella valle è dedicata all’Alta Valle Tanaro dove ho vissuto dai 6 ai 23 anni e dove abitano i miei famigliari e tanti amici. È scritta al futuro (“Là nella valle ritornerò…”) perché è un posto dove, a differenza dei primi tempi, mi piace ritornare, soprattutto per fare lunghe camminate in montagna. Un luogo con cui ho un legame viscerale, di sangue, dove ho trascorso forse gli anni più importanti della mia vita, quelli della formazione, e che custodisce infiniti ricordi. In qualche modo questo pezzo ha un legame col futuro anche perché anticipa i brani a cui sto lavorando in questo periodo e che spero un domani di concludere.

Fin dagli esordi la tua musica è stata, almeno in parte, caratterizzata dalla contaminazione sonora con altre tradizioni. Penso alle atmosfere slave alla Bregović, a quelle portoghesi, a quelle argentine di alcuni tuoi pezzi del passato. Adesso è la volta di ‘O caffettinho. L’esotismo musicale è un tentativo di fuga dalla realtà?

C’erano queste contaminazioni soprattutto nell’album precedente, Nagìra, che essendo stato realizzato durante il lockdown era volutamente un viaggio di evasione attraverso vari generi internazionali. Altre volte si tratta semplicemente di un gioco oppure di un tentativo di misurarmi con altri stili, altre armonie, altre ritmiche, o per un semplice desiderio di variare.

E poi, come dicevamo, c’è sempre il ritorno alla Resistenza, ma questa volta hai giocato mescolando l’epopea partigiana con quella western: Un giorno d’inverno è infatti scritta sulla melodia di Streets of Laredo.

L’idea è stata quella di scrivere un pezzo sulla Resistenza utilizzando una melodia già esistente. Questo, infatti, è ciò che è avvenuto per la maggior parte dei canti resistenziali, che derivavano spesso da canti popolari anonimi. Ma credo sia stata una bella intuizione farlo partendo da Streets of Laredo per un insieme di motivi, oltre che per la bellezza della melodia in sé: innanzitutto perché il testo originale narra gli ultimi istanti di vita di un cowboy, e questo mi ha offerto una serie di immagini di spunto; inoltre sia la Resistenza sia il Far West sono appunto due epopee, entrambe dominate da queste figure di, mutatis mutandis, ribelli fuorilegge; infine perché è un canto anonimo di origini assai remote (pare che a sua volta derivi da un’antica ballata irlandese).

Fabrizio De Andrè, Pierangelo Bertoli, Enzo Iannacci, Francesco Guccini sono tra i musicisti preferiti di Mauro Carrero

Per finire, una domanda sul tuo pubblico. Brindisi alla gioventù, oltre a essere il più intimo dei tuoi album, sembra anche quello in cui comunichi più intensamente il bisogno di un pubblico. Chi è il tuo ascoltatore ideale?

Non faccio altro che scrivere quello che mi viene, quello che mi emoziona. Rispetto agli album precedenti non credo ci sia una maggiore ricerca di consenso, né tra il pubblico né tra gli addetti ai lavori o i sedicenti esperti. Altrimenti farei cose più alla moda. Oggi sento tanta elettronica, ma mi piace sentire strumenti veri. E poi i brani devono convincere prima di tutto me stesso. Sovente mi hanno detto che ricordo i cantautori “classici” (Guccini, De André, Bertoli, Jannacci, Conte), quindi nel mercato mainstream odierno suonerò del tutto anacronistico, per quanto i due aggettivi “classico” e “anacronistico” risultino un ossimoro.

Lo scrittore Beppe Fenoglio da giovane durante una partita di calcio

Ad ogni modo ci sono persone che mi seguono, un po’ di tutte le età, dal primo album ispirato a Beppe Fenoglio e altre che si sono aggiunte dopo. Alcuni mi hanno conosciuto ascoltandomi dal vivo, che è una dimensione molto diversa da quella su disco, sia per l’energia sia perché racconto cosa c’è dietro a queste canzoni. Sono ascoltatori interessati soprattutto ai contenuti e allo stile letterario di quello che scrivo e canto, al di là del sound più o meno moderno.

Giacomo Verri, scrittore e insegnante