Ti passi de giorno da Porto Marghera
te par che sia sera dal scuro che xe
Ti passi de note dal steso logo
ghe xe un gran fogo che pare el dì.
Luisa Ronchini
“Ci incontrammo per la prima volta, Luisa Ronchini ed io, a casa di un’amica comune, nel settembre 1964. Mi ci aveva portato Mario Isnenghi per far sentire agli amici le canzoni che un po’ sul serio e un po’ per scherzo – lui i testi io la musica – avevamo scritto. Fu un successo […] e questo mi spinse a far sentire le altre, quelle che avevo fatto da solo. Poi fu la volta di Luisa che mi stupì con un grosso numero di canzoni a me sconosciuto (ero fermo all’Avvoltoio e a Bandiera Rossa urlate per le strade durante le manifestazioni). Cantò a lungo le sue canzoni veneziane, quelle contro la guerra, quelle della Resistenza e del lavoro ed io improvvisai un accompagnamento di fisarmonica”. Così Gualtiero Bertelli, cantautore tra i più rappresentativi della canzone militante e sociale italiana, raccontava del suo incontro con Luisa Ronchini agli inizi della carriera. E di nuovo oggi, mentre lo intervistiamo a Marghera, città di scioperi nelle fabbriche e di violenti scontri negli anni dell’autunno caldo, più volte menzionata nelle sue canzoni, ricorda il giorno in cui la voce di Luisa lo impressionò: “Aveva una voce straordinaria, una voce con un’estensione impressionante, ricchissima di bassi ma anche di alti veri”.
Chi meglio di lui può raccontarla? Lui, che in quegli anni già si era avviato lungo la strada della canzone d’impegno, senza però mai abbandonare la professione adorata di maestro elementare, “la vera vocazione”. Lui, che nei primi anni Sessanta aveva voluto conoscere i padri della canzone di protesta: Margot, Sergio Liberovici, Fausto Amodei, Michele Straniero che presentavano a Venezia i Canti della Resistenza spagnola. Grazie a Luigi Nono li aveva incontrati per far loro ascoltare i suoi pezzi originali. Lui, che poi avrebbe continuato a scrivere canzoni in dialetto sulla realtà di allora: la povera gente che perdeva il lavoro, i giovani senza speranze di futuro.
Lui che dopo quel primo incontro a casa dell’amica Vania Chiurlotto, fonderà con Luisa il Nuovo Canzoniere Veneto, tra le più significative esperienze nate sulla scia delle ricerche di Roberto Leydi, di Gianni Bosio e del Nuovo Canzoniere Italiano, sul recupero del patrimonio musicale popolare in via di estinzione, per gli effetti dell’industrializzazione e dei cambiamenti epocali nel tessuto economico e sociale del Paese. A questa formazione e a Luisa, dunque, si deve il fondamentale lavoro di ricerca e riscoperta del repertorio musicale popolare del Veneto. Girando per le calli e i campielli di Venezia, per le strade di Chioggia o Treporti, armata di registratore, di grande curiosità e tenacia, senza di lei sarebbe andata persa una gran quantità di materiale storico di enorme importanza. Di vilote e furlane, di canti contro la guerra come Addio Venezia addio o di protesta come Le impiraresse. Sarebbero svaniti insieme agli ultimi portatori anziani, gli unici in grado di interpretare correttamente un canto.
Di Luisa Ronchini (Bergamo, 1934 – 13 luglio 2001), di questa voce che sconvolge, poco si sa. Si conosce un’educazione piccolo borghese ricevuta tra la sua infanzia a Bergamo e il lungo tempo della giovinezza trascorso a Bolzano. Dell’inizio degli anni ’60 sulla scia della sorella Liliana, da poco sposata e trasferita a Venezia, è il suo arrivo nella città lagunare dove si impiega come ceramista.
“Lavorava alla fabbrica di Silvano Gosparini: dalla creta si creavano manufatti che poi Luisa dipingeva. Era un’eccellente disegnatrice, dal tratto fumettistico e deciso. Un segno molto incisivo, energico, forte come il suo carattere”, dice Gualtiero.
Lo stesso Gosparini è anche animatore di un gruppo anarchico che poco dopo apre a Venezia una galleria d’arte, l’Accademia della Stampa e soprattutto, in rio terà dei Nomboli, tra i Frari e San Polo, una libreria, l’Internazionale. A essa facevano riferimento tutti i gruppi della sinistra veneziana che non si riconoscevano nei partiti e nelle organizzazioni ufficiali.
Luisa, grazie anche a un carattere molto impetuoso, chiede di lavorarci. Ed è qui che avviene la folgorazione. “Era una libreria molto particolare – dice Gualtiero –, trovavi la più ampia letteratura anarchica non solo italiana, scritti politici di attualità, tutto su Michail Bakunin. E poi saggi, studi, riviste, giornali di politica, economia e di propaganda. Nessun romanzo, ma dischi in quantità: quelli di Cantacronache, quelli della casa editrice Le Chant du monde sostenuta dal Partito comunista francese e i primi Dischi del Sole. Luisa viene a conoscere questo repertorio di cui si innamora e in breve tempo impara centinaia di canzoni”. In galleria poi si organizzano serate musicali e lei comincia e esibirsi. Intorno al 1963 avviene un altro fatto straordinario. “In libreria avviene l’incontro con Armando Borghi, uno degli ultimi anarchici storici, uno dei promotori, nel 1914 della “settimana rossa” che, dopo l’esilio negli Stati Uniti, tornato in Italia, dirigeva il settimanale anarchico Umanità Nova. Luisa, che lo intervista, accende il registratore, gli dà in mano un canzoniere anarchico e lui dalla prima all’ultima, le canta tutte quelle canzoni. Luisa raccoglie così un grande patrimonio: alcune erano già note, ma parte erano sconosciute”. Così comincia ad approfondire e a specializzarsi nel repertorio anarchico, politico e sociale in generale. Ma ciò che davvero dà l’avvio alla sua carriera è il progetto discografico con i Dischi del Sole. “I contatti con i Dischi del Sole erano tenuti dal responsabile commerciale, tale Renzo Aristolao, che si recava il libreria per proporre i nuovi dischi. Chiacchierando con Luisa le parla della collana in preparazione di canti popolari italiani divisi per regione, diretta da Roberto Leydi”. Su consiglio di Aristolao, Luisa avrebbe potuto ricercare quattro o cinque canti del Veneto per farne un disco. “Roberto Leydi stesso le mandò un nastro tratto dall’enorme patrimonio che l’etnomusicologo statunitense Alan Lomax aveva registrato in Italia nel ’54 quando aveva attraversato il Paese per ricercare i canti della tradizione. Nel Veneto aveva raccolto testimonianze molto importanti. Leydi ne aveva ricevuto una copia, estrapolato quattro o cinque pezzi e inviati a Luisa”. Così, grazie a questo progetto nasceva la collaborazione con il Nuovo Canzoniere Italiano. Con loro Luisa parteciperà all’edizione del 1964 de L’Altra Italia a Milano, rassegna di concerti e spettacoli ispirati al mondo operaio e contadino. Prenderà parte a concerti insieme a Michele Luciano Straniero e Ivan della Mea. Dal 1963, poi, iniziava la ricerca sul patrimonio popolare della sua terra.
“Una ricerca ponderosa – dice Gualtiero –. Anche se lei non era una ricercatrice, non aveva strumenti critici, non era una etnomusicologa, era una semplice raccoglitrice. La nostra urgenza, del resto, all’inizio, era di trovare canzoni per costruire un repertorio”. Sono ricerche casuali, infatti, dal principio, poi Luisa acquisisce un po’ di metodo e raccoglie moltissimo con il suo gelosino. “C’erano luoghi deputati come le osterie, dove si trovavano i gruppi che cantavano, si lanciava un canto e si aspettava che i cantori rispondessero, magari con un’altra versione della stessa canzone. Un altro luogo era il ricovero per gli anziani, ce n’erano diversi con buona memoria che ricordavano canti bellissimi”.
Luisa gira tutta Venezia, ma è fortunata e dal principio non le serve andare molto lontano: “Era in affitto da una signora che cantava benissimo. Si chiamava Tilde Nordio, fu lei a cantarle diverse delle canzoni che andarono poi a finire nel suo primo disco, Nineta cara”.
Il disco viene registrato nel ’64 ma non esce prima del ’65. Lo stile di canto di Luisa non incontra immediatamente il favore di Leydi, sembra non adattarsi pienamente ai modi dei cantori popolari. Luisa ha una grande voce, che si è formata sul repertorio leggero. Ma è proprio di quegli anni la polemica di Leydi sull’Europeo contro uno spettacolo di Strehler sui canti popolari eseguiti da Milva che aveva uno stile ricco di melismi, tipico del canto all’italiana. Troppo distante dallo “specifico stilistico” che andava rispettato nelle operazioni di folk revival [Cfr. Bertelli, Venezia e una fisarmonica, p. 122].
“Luisa era un’istintiva che istintivamente cantava bene per il gran dono della voce che aveva. Lei amava cantare ancora prima di arrivare a Venezia – dice Gualtiero -, ma i suoi mito erano Claudio Villa e il canto tutto vocalizzi alla Nilla Pizzi”. Le ci vorrà un po’ per impostare diversamente la sua voce, togliere gorgheggi e svolazzi per ripulire il suono, come l’interpretazione di quei canti richiedeva. Nonostante tutto, quindi, finalmente il disco esce, con l’accompagnamento del chitarrista Franco Baroni. Comprende diversi brani che diverranno tra i più celebri del repertorio popolare. Tra questi: Peregrinazioni lagunari che racconta una lunga passeggiata a Venezia e in laguna, da Marghera a Fusina alla Giudecca a Burano;
Povero Barba Checo: Povero Barba Checo! El xe casca’ in canale, par no’ saver nuare a’ s’ha negao,
La ninna nanna Nana Bobo,
Il cielo è una coperta ricamata:
ed E ti Rosina:
“Il cielo è una porta ricamata ed E ti Rosina le ha imparate dalla Tilde – dice Gualtiero –, mentre Povero Barba Checo e Nana Bobo arrivano dal disco di Lomax. Di Peregrinazioni lagunari esistono varie versioni. Luisa nel disco ha inciso la più bella, quella che le ha cantato un suo collega ceramista, Sandro Brasi. Il testo di Peregrinazioni lagunari c’è anche nel disco di Lomax, ma è cantato con la stessa melodia di Povero Barba Checo e sempre, queste due canzoni le abbiamo trovate attaccate. Erano entrambe canti di un venditore di focacce, il povero zio Checo”.
Quando il disco esce Luisa ha già una certa popolarità. Verso la fine del 1964, con Gualtiero Bertelli, che cantava e suonava la fisarmonica e il chitarrista Franco Baroni aveva dato vita al Canzoniere Popolare Veneto. Il gruppo aveva esordito all’inaugurazione del circolo di cultura di Mestre Concetto Marchesi, con lo spettacolo La canaglia pezzente. Canti della Resistenza. Il gruppo aveva continuato occupandosi di ricerca sul campo, a cui in un secondo momento era seguita un’attività di riflessione sui canti rinvenuti, cercando di storicizzare, di contestualizzare e di capire il significato di quelle storie e le motivazioni per cui erano state fissate.
“Abbiamo anche cominciato a occuparci del materiale scritto – dice Gualtiero – e ci siamo accorti che autori come Bernoni, Dal Medico, Perlato, questi raccoglitori dell’Ottocento, secondo la logica romantica, se ne fregavano della musica e guardavano solo ai testi, la famosa poesia popolare. Questi studiosi avevano raccolto molti canti di cui avevano lasciato traccia nelle loro pubblicazioni. Tramite questi libri ci siamo costruiti un repertorio”. Repertorio che comprenderà via via anche canzoni originali.
Se i primi spettacoli non andavano al di là di esibizioni di canzoni certamente importanti e di grande impatto sul pubblico, ma fine a se stesse, ora era necessario introdurre l’aspetto della storicizzazione, della ricostruzione di un contesto in cui inserire quei canti: un discorso politico capace di dimensionare tutto quel lavoro. Da questa esigenza nascerà il successivo lavoro del gruppo: lo studio di canzoni di lotta internazionali, l’introduzione della nuova canzone e la stessa opera di autore di Gualtiero. Di lì a poco, nel 1964 comporrà brani come Ma ’sti signori sullo sfruttamento dei lavoratori: Da trenta giorni siamo a spasso/per diminuzione di personale/ventitré uomini hanno cacciato via/tutto un inverno senza lavorare.
e inciderà Sta bruta guera che no xe finia (I Dischi del Sole, 1965). Un disco di denuncia sulla situazione di sofferenza e precarietà degli operai nelle fabbriche, degli studenti nelle scuole, delle famiglie di sfollati ancora in attesa di una casa. Denuncia che sfocerà nel 1970 nell’album I giorni della lotta (I Dischi del Sole) che contiene brani come Primo agosto Mestre Sessantotto, scritta in ricordo della data che rappresentò il momento più crudo della lotta degli operai della Montedison a Porto Marghera che “dal 15 luglio al 2 agosto 1968 diedero vita a una delle più importanti lotte operaie del dopoguerra” definendo le modalità della lotta autonoma che da lì si diffonderà ovunque [Bermani, Pane, rose e libertà, p. 182]. Una canzone che incitava alla lotta, allo scontro fisico ormai necessario, per affermare i diritti calpestati dei lavoratori: Colpo su colpo, senza illusioni,/giorno per giorno, senza più paura,/uomo per uomo, nasce la lotta:/di tanti primi d’agosto sarà fatta/la nostra liberazione.
Nel ’65 al gruppo si aggiunge Alberto D’Amico. “Una sera – racconta Gualtiero – mentre facevano le prove nello studio di un pittore, Romano Perosini, che poi è diventato il marito di Luisa, lui si presenta con una persona: un volto rude e arcigno. Era Alberto d’Amico, nato a Venezia da genitori siciliani. Amava cantare e aveva una bella voce, infatti ci fece sentire un pezzo di Frank Sinatra e lo cantò incredibilmente. Ma io, da subito, strabuzzai gli occhi. Lui era un giovane dirigente della gioventù fascista. Poi si era ricreduto e aveva rinnegato quel passato. E alla fine si era presentato lì perché ci teneva a cantare. Così si è unito al gruppo, ha imparato ad accompagnare con la chitarra e ha cominciato prestissimo a scrivere, canzoni anche belle. Perché alla fine noi volevamo cantare canzoni nostre”.
Le due spinte, dunque, l’una popolare l’altra rinnovatrice, porteranno il Canzoniere Popolare Veneto ad affermarsi presto come realtà autonoma e creativa. Si esibiranno per esempio al Folk Festival internazionale di Torino del 1965 ed emergeranno nella produzione di spettacoli originali e di grande valore artistico e culturale.
Il 7 aprile 1967 a Venezia, infatti, va in scena un primo spettacolo che resterà alla storia: Tera e acqua. “Tera e acqua era uno spettacolo che parlava di Venezia, il primo spettacolo nel suo genere, l’unico che solo attraverso le canzoni raccontava una città, Venezia e la sua laguna. Terra e acqua”.
Dallo spettacolo viene tratto il disco Adio Venezia Addio che contiene l’omonimo brano. Si tratta di un canto popolare veneziano nato durante la Grande Guerra quando i primi profughi cominciavano a sfollare dai quartieri colpiti dalle incursioni marittime e aeree. Furono poi costretti a lunghissimi e massacranti viaggi verso i campi profughi situati spesso lontanissimo, quello della canzone è addirittura a Pesaro.
“Adio Venezia Adio – dice Bertelli – l’abbiamo raccolta diverse volte sia io che Luisa, con versioni poco diverse tra loro. Quella che abbiamo sempre utilizzato, perché era la più completa dal punto di vista del testo e precisa da quello della musica, mi è stata cantata, e ovviamente ho ancora la registrazione, nel 1966 da mia madre Lidia Gottardo e da mia zia Linda. Ho inciso da solo, e con voce sola, nella sua versione integrale Adio Venezia Adio (ma sarebbe più corretto citarla col primo capoverso El diciaoto novembre) nel bellissimo LP sulla prima guerra mondiale dal titolo Addio padre edito da I Dischi del sole. Il canto parla dei veneziani che dopo la rotta di Caporetto, mentre la città incominciava a essere preda delle incursioni nemiche, sono andati profughi in varie località della costa adriatica. La nonna di mia madre, dalla quale le sorelle avevano appreso il canto, andò a Pesaro, ma un altro gruppo che ho registrato era andato a Rimini e la famiglia di mio padre andò invece a Loreto”. (Per ascoltare o scaricare vai a https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=2409&lang=it)
Il triste pellegrinaggio dei profughi è raccontato in tutte le sue tappe: Adio, Venessia, adio,/noi se ne andiamo/adio, Venessia, adio,/Venezia salutiamo./Passando per Malamoco/ghe gera de le donéte,/che tutte ci dimandavano:/Ma da che parte siete?
Interpretazione del Canzoniere Popolare Veneto:
L’album comprende anche Viva Venezia, un inno alla città molto popolare;
la conta Piomba la stella in mezzo al mare,
e Le pute de San Lunardo che è una furlana, composta di strofette in cui si gioca a prendere in giro le donne dei vari sestieri: Le pute de San Lunardo/g’ha le gambe de bombàso/e quando che le camina/le se ghe storse le se ghe inchina/la la la…/E quéle de Rialto/le va in giro col taco alto/le se volta par de drìo/vede quel béco de so marìo.
Non mancano le ninne nanne come E Na Nana Nana Nana Te Canto,
ma anche i canti di protesta come Povere filandine. Uno dei rari cantati delle operaie, mal pagate e sfruttate nelle filande venete, scoperto grazie alla registrazione dell’anziana Maddalena Lucco, una delle portatrici più preziose a cui si deve la gran parte del repertorio del Canzoniere Veneto:
Povere filandine,/desfortunàe che semo,/la paga che ciapemo/li ne la vol magnar.
Sono anni in cui si avverte l’urgenza di portare alla conoscenza di un sempre più vasto pubblico i fatti quotidiani e la lotta che la classe operaia conduceva ogni giorno nelle fabbriche e nelle piazze. Questo solleciterà la composizione di testi e la scelta di un repertorio anche slegato da una canzone di gusto, ma in grado di interpretare quel momento di crisi sociale e politica. Il nuovo linguaggio della canzone non poteva che passare attraverso il contatto con il pubblico degli operai, intellettuali, contadini, dei compagni che riscoprivano un modo nuovo di dire i loro problemi, di discutere. Così si aggiungeranno via via al vecchio repertorio le nuove canzoni nate dal quotidiano come Nina ti te ricordi di Gualtiero Bertelli, storia di una coppia di giovani sposi e del dramma di un lavoro che manca: Amarse no xe no un pecato,/ma ancuo el xe un lusso de pochi/e intanti ti Nina te speti/e mi so disocupà.
O Giudecca di Alberto D’Amico, canzone sulla condizione di degrado di questa isola abbandonata nel dopoguerra: Giudecca nostra abandonada, vint’anni de fame e sfrutamento/e adesso s’è rivà el momento /de dirghe basta e de cambià.
La canzone sentiva il dovere di raccontare la nuova Italia che subiva gli effetti del boom.
Già dal 1959 si stava verificando un riavvio significativo delle lotte operaie in diverse città italiane con alla testa i giovani, gli operai e gli immigrati. Cominciavano a venire alla luce una serie di ingiustizie profonde nel rapporto di lavoro: “le sperequazioni tra uomini e donne, fra impiegati e operai, o il permanere di gerarchie e di discriminazioni sempre meno accettabili. La grande pesantezza degli orari di lavoro trovava poche giustificazioni in un mondo industriale caratterizzato da innovazioni tecnologiche e da razionalizzazioni dei processi produttivi” [Crainz, Il paese mancato, p. 186].
La resistenza degli industriali alle rivendicazioni degli operai fu durissima e appoggiata da una parte della Democrazia Cristiana. Tra le prime agitazioni vi fu quella degli elettromeccanici dell’industria a partecipazione statale che si riunirono il giorno di Natale del 1960 a Milano in piazza Duomo. Gli operai della Fiat di Torino tornarono allo sciopero nell’estate del 1962, in occasione del rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici [Foa, Questo Novecento, p. 286]. A Porto Marghera, poco dopo, il primo novembre 1964, avvenne uno dei più grandi scioperi nazionali: “Nel 1962 e nel 1963 – racconta Gualtiero – c’erano stati i rinnovi dei contratti dei chimici e dei metalmeccanici. Noi andavamo con i cartelli Studenti e operai uniti nella lotta, ma solo un 20% degli operai scioperava e gli altri andavano dentro. Ma nel 1964 vengono minacciati 700 licenziamenti alla Sirma di Porto Marghera, che insorge. 10.000 in piazza a Mestre, una roba dell’altro mondo” [Bermani, Una storia cantata, p. 66].
Gualtiero e Luisa non ci pensano due volte e vanno a cantare davanti ai cancelli della Sirma occupata. “Si andava per solidarietà, con l’idea di supportare la lotta, di richiamare l’attenzione della gente, ma succedeva quando la fabbrica andava male, e purtroppo era una specie di estrema unzione. In quell’occasione io cantai Ma ’sti signori e Luisa Se otto ore vi sembran poche, storico canto di inizio Novecento delle mondine. Non so come, gli operai registrarono quell’esibizione. Il giorno dopo quei canti furono trasmessi dagli altoparlanti della fabbrica. Quelle sono diventate le canzoni della Sirma. Certo, funzionava poco perché quando si arrivava i giochi ormai erano fatti, avevano già deciso di chiudere la fabbrica e a nessuno importava che noi si andasse a cantare”.
Luisa partecipa volentieri a queste manifestazioni. Inciderà, infatti, canti di protesta e sociali come Il Canto dei malfattori
o Ti passi de giorno da Portomarghera, da lei scritta, parole e musica, sulla devastazione della città per opera dell’inquinamento delle industrie: Il mare è scuro come la terra a Porto Marghera sei arrivato.
“Fino a un certo punto è stata anarchica – dice Gualtiero – e poi è diventata comunista e questa lotta davanti alla fabbrica era una medaglia”. Naturalmente queste esperienze con la loro carica umana e spontaneità inducono il gruppo a contribuire sempre più attivamente, attraverso il canto, sulla società civile. Essere attivamente presenti dove la classe operaia lotta, senza credere di fare la rivoluzione con le chitarre, ma almeno per intervenire con la presenza, con strumenti popolari di espressione adeguati. [Cfr. Plastino, La musica folk, p. 593].
Così il Canzoniere Popolare Veneto continua a produrre spettacoli, sostenere le battaglie dei lavoratori in difficoltà, diffondere quel repertorio di canzoni politiche, sociali. Del 1965 è l’invito a Mantova per una serata. Ci sono Gianni Bosio, Nanni Ricordi, Sandra Mantovani, Giovanna Daffini, il Gruppo Padano di Piadena. Gualtiero quella sera riceverà la proposta di incidere il suo primo disco e di partecipare alle iniziative del Nuovo Canzoniere Italiano. Sarà sempre più impegnato e poco dopo il gruppo si avvierà a una separazione.
“Ci siamo divisi nel ’72 – dice Gualtiero – perché Luisa aveva aderito al Pci e io al Manifesto, era la rivista che poi è diventata anche un movimento politico. A quel punto era tale la frattura che ci siamo sciolti. Io avevo anche voglia di fare esperienze diverse. A Luisa bastavano una chitarra, pochi accordi e la sua voce. Io ho fondato il Nuovo Canzoniere Veneto e mi sono dedicato soprattutto alla mia musica, canzoni nuove. Luisa ha continuato a livelli anche molti alti, si è aggiunta al gruppo Emanuela Magro e insieme hanno realizzato spettacoli molto raffinati. Luisa, poi, ha inciso i suoi dischi da solista come Mi vo cantare di Chioza, per la Cetra”.
Mi vo’ a cantar di Chioza… la chiara stela esce nel 1977 e comprende una lunga serie di canti di tradizione che raccontano la vita dei lavoratori della laguna: pescatori, gondolieri. Brani come Mi vo a cantar di Chioza; I Batipali ripreso anche in Ci ragiono e canto;
Tiro de l’argano, A un pescator digo de sì, Sibén che su vecieto, Ghe giera ’na bruta vecia, I dedese mesi, Dormiratsu ben mio, Fa la nana bel bambin, La chiara stela, La passione di S. Chiara, Le dodese verità.
Del 1975 è invece Semo tute impiraresse (Cetra) che contiene l’omonimo brano di denuncia. Luisa, nelle sue ricerche, trova numerose canzoni d’amore, ma mai quelle più esplicite di lotta presenti nei repertori di monda o di filanda dell’Emilia Romagna e della Lombardia: “Possibile che in questa regione di preti e suore, non ci sia stato il benché minimo rigurgito non dico rivoluzionario, ma almeno protestatario!” [Bertelli, Venezia e una fisarmonica, p. 145]. Grande è la soddisfazione, quindi, quando emerge dalla voce dell’anziana Maddalena Lucco il canto Semo tute impiraresse che dà il titolo all’intero album.
Semo tute impiraresse/semo qua de vita piene/tuto fògo ne le vene/core sangue venessiàn,/no ghe gnente che ne tegna/quando furie deventèmo,/semo done che impiremo/e chi impira gà rason.
Le impiraresse erano le infilatrici di perle veneziane. Lavoravano a domicilio per le conterìe, le fabbriche di vetro di Murano. Un lavoro che consisteva nell’infilare piccole perle di vetro su fili di cotone speciale, per essere utilizzate nell’abbigliamento, per ricami e collane, oppure sul fil di ferro, per creare oggetti decorativi. Un mestiere che richiedeva pazienza e destrezza e che pure era una delle attività meno pagate, con uno sfruttamento della manodopera a basso costo che iniziava dagli otto anni e proseguiva fino a tarda età. Dal disco La donna nella tradizione popolare (1978) Luisa scrive: “Le impiraresse, infilatrici di perle a Venezia, erano lavoratrici a domicilio e il loro lavoro dipendeva dal collegamento con le fabbriche di perle di Murano. Lavoravano generalmente durante l’estate davanti agli usci delle loro case nei sestieri popolari e specialmente a Castello. Cantavano assieme le loro rivendicazioni e le loro lotte. Questa canzone, infatti, è collegabile al sorgere delle prime leghe operaie”.
L’interpretazione del Canzoniere Popolare Veneto,
e quella di Luisa con Emanuela Magro.
Nel 2002 Luisa partecipa a Re Orso. “È una fiaba in due atti dal testo di Arrigo Boito – dice Gualtiero – con la composizione musicale di Margot, di cui era diventata molto amica. Luisa ha cantato la parte di Re Orso con voce baritonale e si è anche molto divertita”.
La sua ricerca, svolta nel corso di lunghi anni in cui Luisa batte tutta Venezia prende corpo nella pubblicazione Sentime bona zente (1990) una raccolta di canti, conte e cante del popolo veneto, ricercati con pazienza e passione. “Il libro contiene un repertorio sterminato – dice Gualtiero -. Luisa ha raccolto canti d’amore, ballate, canti di lavoro, canti di osteria, canti di carcere, conte, filastrocche, canti religiosi, canti di guerra, canti anarchici, canti di questua, canti di matrimonio”.
Nel suo repertorio, del resto, si sono da sempre alternate canzoni popolari più spensierati, i canti d’amore, le danze, le ninne nanne come Dormi Amor
o canti di festa come El carneva xe ’nda’,
i canti della tradizione popolare come Tiorte i remi e vuoga
ai canti più impegnati, di lotta, e di protesta.
Nel 1993, in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita della Camera del Lavoro di Venezia viene organizzato un grande concerto che abbraccia cento anni di canto popolare veneziano. È l’ultima volta che Luisa canta in pubblico. Ci sono con lei sul palco, tra gli altri, Gualtiero Bertelli, Alberto D’Amico. Colpita da una rara malattia con la quale combatte per diversi anni, Luisa Ronchini muore il 13 luglio del 2001.
Tutti i materiali sonori, i nastri da lei registrati per le calli, i sestieri, i campielli veneziani sono conservati presso l’associazione culturale Società di Mutuo Soccorso Ernesto de Martino di Venezia. Risultato di una passione smisurata per la ricerca che l’ha condotta ovunque a recuperare e salvare centinaia di canti e di storie. Una voce possente e plasmata, un volto illuminato da un sorriso aperto. Carattere e determinazione da vendere.
Da poco, nel febbraio 2018, il disco Ama chi ti ama – I tempi della vita cantati dalle donne, progetto attraverso cui Ala Bianca e Istituto Ernesto de Martino hanno celebrato la figura della donna nella canzone popolare italiana, ha reso omaggio anche a Luisa inserendo il brano Piccola donna, estratto da Sulla linea di condotta da tenere di fronte agli interrogatori in questura (con Gualtiero Bertelli) (Milano, Linea rossa, 1969).
Io mi interesso di politica/penso ai problemi sociali/son per l’estrema sinistra/anzi ancora più in là.
Voglio il divorzio al più presto/meglio, il non matrimonio/vado in piazza se è il caso/ a gridare la libertà.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati,edizioni Unicopli
Pubblicato venerdì 26 Ottobre 2018
Stampato il 03/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/la-voce-del-veneto/