Margot (da https://gaetanolopresti.files.wordpress.com/2014/02/1-margot-1708800064_n.jpg)

Ma se torniamo a Margot e al suo destino

Dobbiam parlar di trecento canzoni 

Che stan seguendo le oscillazioni

Della politica, come consiglia

La tradizione della sua famiglia.

Sono canzoni ironiche e tristi

Che parlan spesso di poveri Cristi, 

E guardano con occhiali speciali

Ciò che riportano tutti i giornali.

Come all’inizio della sua avventura,

Cantando sempre, senza aver paura,

Margot racconta ingiustizie tremende

E dell’attual società le vicende.

Margherita Galante Garrone (Margot)

 «Io non ero nessuno prima di cantare con Cantacronache. Non ero nessuno, la classica ragazza di buona famiglia. Certo, una famiglia speciale che mi ha dato, oltre alla scuola, un’istruzione a parte. Un’istruzione che ancora oggi mi serve: mio padre mi insegnò il latino, mio zio, il grande storico, mi insegnò lo studio dell’antico, mia madre mi insegnò a cantare, era violinista e cantante».

Chi parla è Margherita Galante Garrone, in arte Margot. Figlia maggiore del magistrato e politico Carlo Galante Garrone, uno dei padri nobili della Repubblica Italiana: senatore della Sinistra Indipendente di Parri, ma soprattutto celebre antifascista, partigiano, nonché fra i fondatori del Partito d’Azione. Nipote del celebre storico Alessandro Galante Garrone. I prozii, Eugenio e Giuseppe Garrone, due medaglie d’oro al valor militare della Prima guerra mondiale. Sorella della pedagoga teatrale Alessandra Galante Garrone che a Bologna fondò la celebre scuola di teatro.

Carlo Galante Garrone (da http://legislature.camera.it/ _dati/leg08/deputati/foto/d21280.jpg)

E così comincia la sua intervista, rilasciata un giorno di gennaio del 2011, proprio nella sua casa alla Giudecca, con affaccio, al di là del Canal Grande, su piazza San Marco. Una casa piena di libri, un teatrino di marionette nella sala. Intorno, un giardino con tanti gatti.

Si diceva che non ricevesse mai nessuno, perché era una persona schiva e riservata, e non ci teneva troppo a incontrare gente per farsi intervistare. E soprattutto si diceva che non le mandava certo a dire e che avrebbe potuto mettere alla porta chiunque, da un momento all’altro, se non le andava a genio.

Invece, quell’intervista generosa divenne parte di un documentario dell’Università di Bologna (Cantacronache. 1958-1962: politica e protesta in musica) che ricostruiva la storia di Cantacronache, e dell’Italia di quegli anni, gli anni di attività del gruppo torinese, dal 1958 al 1962, proprio attraverso quelle loro canzoni così diverse, cronache di eventi politici e sociali che martoriavano il Paese, da poco uscito dal secondo conflitto bellico. Un Paese con l’urgenza della ricostruzione, in pieno boom, ma con tante questioni ancora irrisolte. Che diventeranno il seme di una contestazione più dirompente, appena qualche anno dopo.

Lei, con la sua presenza e il particolare timbro, bruno, naturale, sincero, aveva aggiunto al gruppo la possibilità di nuove armonie, di colori diversi, che avrebbero reso l’impasto vocale immediatamente riconoscibile.

Come anche la sua voce in primo piano, spesso asciutta, nell’interpretazione distaccata dei pezzi, scelta espressiva ispirata alla recitazione brechtiana.

Non era certo la canzone americana il modello di Cantacronache, piuttosto quella francese e soprattutto tedesca. Legata al teatro di Bertolt Brecht, praticava la modalità espressiva dello “straniamento” o “dizione epica”. Si innescava, così, un distacco tra l’artista e il pubblico, incoraggiato a sviluppare senso critico piuttosto che immedesimazione nello spettacolo o nella canzone. Canzone scritta ed eseguita proprio allo scopo di educare l’ascoltatore, evitando di commuoverlo o emozionarlo.

«Le canzoni di Cantacronache – dice Margot – nascevano proprio con questo spirito di non partecipazione perché si capissero le parole e il messaggio fosse chiaro». E lei, questa tecnica, a forza di tanto studio, la fece sua.

Quella canzone, del resto, doveva avere la funzione pedagogica di educare le masse. In quegli anni era urgente per il Pci, che sostenne questo progetto musicale, impostare una politica culturale che sapesse coinvolgere larghe masse e interessarle alla realtà: “La questione che si pone – avvertiva Palmiro Togliatti nel giugno 1961 – e che potrebbe stare al centro di una indagine sugli indirizzi culturali del nostro tempo, è quella delle origini di questo profondo distacco dalla cultura della vita reale, che è continuato e che si è anche accentuato, per cause evidenti, sotto il fascismo e continua tuttora, nelle varie forme della decadenza e dell’evasione” [Santomassimo, G. Palmiro Togliatti. Opere scelte, p. 1033].

Canzone dei fiori e del silenzio, manifesto poetico del gruppo, esprime bene questa necessità di reagire, di non subire modelli culturali basati sull’effimero. La canta e declama anche Margot:

Ci dicono cantate/dei boschi e dei fiori/degli amori felici/della gente lietamente/con filo di ferro/le palpebre cucite/e di sorda ovatta/le orecchie riempite.

«Quando ho incontrato Cantacronache era il 1960 – dice –. E avvenne casualmente: Emilio Jona era collega di mio padre che in quel momento era avvocato. A casa sua avevo sentito i dischi di Bressens che era il mio mito. Poi conobbi Fausto Amodei, Michele Luciano Straniero col quale ebbi una grande amicizia. Con loro c’era anche Sergio Liberovici, che poi sposai. Io sapevo cantare e suonare le canzoni che mi aveva insegnato mia madre, così incominciai. Poi presi a cantare le loro: mi piaceva fare la pasionaria del gruppo, l’unica femmina tra tanti maschi, mi piaceva moltissimo».

E lo slancio rivoluzionario l’ha sempre contraddistinta: «Quando ammazzarono Juliàn Grimau feci uno spettacolo con Michele Straniero. Quella era la vera lotta per me: cantare canzoni». Margot, infatti, canterà Canciòn de Grimau, tradotta da Sergio Liberovici:

Julián Grimau, hermano, te asesinaron, te asesinaron./Ya no nace en la tierra ni un pensamiento/que no lleve esta pena dentro del cuerpo/del dolor de mi pueblo nace mi canto/cuerda de mi guitarra sois compañeras de nuestro llanto

Juliàn Grimau, fratello, ti assassinarono, ti assassinarono!/Da questa terra non potrà più crescere un fiore/che non porti il segno di questo dolore./Dal dolore del popolo nasce il mio canto:/corde della chitarra, siate compagne del nostro pianto!

L’idea della canzone come strumento di lotta era comunque insito in quel progetto culturale del 1958-62. «Erano anni terribili politicamente – dice – erano gli anni di Tambroni. Le canzoni di Cantacronache nascevano anche per contestare quella situazione, un governo che si costituiva grazie all’appoggio dei voti del Msi».

Non a caso diversi scrittori, intellettuali e poeti accettarono di dare un loro contributo all’idea di quest’arte totale. Un’arte che unisse poesia, musica, letteratura, a servizio di una rivoluzione culturale, sociale, politica capace di trascinare le masse nelle piazze. Educarle ai valori democratici così a rischio.

«C’era una grande amicizia con Italo Calvino, Mario Pogliotti, Franco Fortini, intellettuali che avevano dato l’assenso a partecipare a questa esperienza – dice –. Calvino era una persona che frequentava molto la nostra casa: una persona di pochissime parole, che aveva delle battutine al fulmicotone. Lui non parlava, scriveva. Fortini? parlava di più».

Numerose sono le canzoni nate dalle poesie dell’intellettuale toscano. Margot interpreta I mesi:

e Lontano lontano, di cui scrive la musica e che incide nell’album Margot del 2011. Canzone cinica sulla guerra e sull’ipocrisia di chi tanto si dispiace ma poco se ne importa:

Lontano lontano si fanno la guerra./Il sangue degli altri si sparge per terra.

Fillette fillette, scritta per i suoi diciotto anni:

Ma cosa ti credi ragazzina bella/ Ma cosa t’illudi/ che la duri sempre/ la stagione dell’A” la stagione dell’A/la stagione dell’amore in fiore.

Di Fortini Margot metterà in musica anche il Canto degli ultimi partigiani, testo crudissimo sugli antifascisti fucilati a Piazzale Loreto:

Mordere l’aria mordere i sassi/La nostra carne non è più d’uomini/Mordere l’aria mordere i sassi/Il nostro cuore non è più d’uomini./Ma noi s’è letta negli occhi dei morti/E sulla terra faremo libertà/Ma l’hanno stretta i pugni dei morti/La giustizia che si farà.

Ma soprattutto Fratelli d’Italia una caricatura dell’inno nazionale. Una canzone che celebrava un’Italia piccola e mediocre, in cui assurgevano a mitouna piccola casa, una piccola moglie, un piccolo lavoro, una piccola messa la domenica”. Oppure: una piccola fiat per la domenica”. I fratelli cui si rivolgeva Fortini erano individui ormai adattati a sopravvivere in un paese in cui “tirare a campare” più che vivere con dignità. Fratelli vittime dell’individualismo, in un’Italia serva di logiche consumistiche.

Sarà invece Calvino a scrivere per lei Canzone triste. Una canzone innovativa per quegli anni, attualissima oggi, che raccontava di un amore reale e quasi impossibile ai tempi del miracolo economico. Distante dalle contemporanee canzoni che raccontavano l’amore con parole astratte e immaginari idealizzati.

«Mi ricordo che non mi piacevano tanto i versi che Calvino aveva scelto – dice Margot –. Che pure era bravissimo. C’erano delle rime un po’ troppo ricercate, come trovate su un rimario. Ma cantarla mi piaceva, perché la musica era davvero bella. Certo, il testo era importante, però la musica mi piaceva molto di più».

La canzone nasceva come trasposizione del racconto neorealista L’avventura di due sposi scritto da Calvino poco prima: L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide. [Calvino, I., Gli amori difficili, 1958, p. 123].

Di fondo vi era una critica ai ritmi di vita imposti dalla neonata società capitalistica. La manodopera che si impiegava nelle fabbriche o negli uffici a pieno ritmo, per mantenere alta la produzione di beni di consumo, viveva un’esistenza precaria sul piano delle relazioni affettive: gli uomini, le donne, faticavano a trovare tempo da dedicare a loro stessi e alla vita di coppia. I turni lavorativi creavano esistenze parallele che mai si incrociavano: chi tornava la sera e ripartiva il mattino, chi tornava il mattino per essere di nuovo al lavoro la sera. Solo un istante rimaneva ai due sposi protagonisti per un bacio di sfuggita o per un caffè. Così, la canzone:

Erano sposi. Lei s’alzava all’alba/prendeva il tram, correva al suo lavoro./Lui aveva il turno che finisce all’alba,/entrava in letto e lei n’era già fuori./Soltanto un bacio in fretta posso darti;/bere un caffè tenendoti per mano./Il tuo cappotto è umido di nebbia./Il nostro letto serba il tuo tepor.

Una fotografia della condizione esistenziale di quegli anni che mostra come il miracolo economico fu per molti la condanna a una vita scandita da turni lavorativi e scarso tempo per gli spazi di libertà. Il lavoro adesso ingoiava, annullava le identità, intorpidiva:

Mattina e sera i tram degli operai/portano gente dagli sguardi tetri;/di fissar la nebbia non si stancan mai/cercando invano il sol, fuori dai vetri.

Anche le donne, impiegate nelle fabbriche o negli uffici, subivano lo stato di appiattimento che l’immagine degli “sguardi tetri” riesce a evocare. Ed è proprio la voce decisa di Margot a entrare nell’intimità della coppia di sposi che faticano a incontrarsi. Niente amore esotico, idealizzato, sentimentale. Ma concreto, incentrato sull’osservazione del vero.

La stessa realtà emergerà, qualche anno dopo, nel 1962, da Lucio Mastronardi nel romanzo Il maestro di Vigevano. Anche qui una coppia di sposi si vedeva eroso il tempo dell’intimità dopo che Ada, la moglie del protagonista, cominciava a lavorare in fabbrica come operaia:

Prima, quando la svegliavo nel pieno della notte, ella si concedeva volentieri. Sembrava contenta di quel brusco risveglio. L’ultima volta si è arrabbiata. – E lasciami dormire, cavolo! – disse. – Cambia orario che fra qualche ora mi alzo! [Mastronardi, L. Il maestro di Vigevano, 1994, p. 33].

Lui aveva il turno che finisce all’alba /entrava in letto e lei n’era già fuori

cantava Margot, e anche:

Il nostro letto serba il tuo tepor.

Il riferimento al letto, cioè alla relazione sessuale dei due protagonisti, rendeva la canzone particolarmente eversiva. Sfidava le regole censorie di un conformismo culturale che vietava la rappresentazione di momenti legati alla sfera intima. Questo elemento di contestazione e il rifiuto ad adattarsi ai dettami della società perbenista e conservatrice di quel finire degli anni Cinquanta segnava il carattere ribelle di Cantacronache e di Margot, qui voce solista. L’incisione originale:

e l’interpretazione dal vivo, dall’unica puntata rimasta di Canzoniere Minimo di Giorgio Gaber, Teche Rai:

La fatica del lavoro operaio, i turni nelle fabbriche, le donne che perdevano gli spazi un tempo dedicati all’intimità dei rapporti, alla cura della casa, alla famiglia, la disoccupazione, le morti bianche, le ingiustizie e le sperequazioni, i primi scioperi. Questi gli argomenti che affiorano dalle canzoni di Cantacronache e di Margot.

Non solo. C’è il racconto dell’Italia e dei suoi drammi, come l’alluvione del Polesine nel novembre del 1951, evento catastrofico che mandò in rovina gran parte della provincia Rovigo e di Venezia. Polesine, musica di Sergio Liberovici e parole in veneto del poeta Gigi Fossati, è soprattutto il canto disperato e straziante di Margot:

Tera e aqua! A mezogiorno/quel paneto che se magna/no gh’è aqua che lo bagna/e ghè aqua tuto intorno/tuto intorno

C’è lo sguardo malinconico sul paesaggio e sul vivere quotidiano, che scorre dal finestrino di un treno in Canzone di viaggio, parole di Emilio Jona:

Io traverso nell’estate /greti bianchi ed acque scarse /siamo tutti scamiciati /ed il verde è impallidito. /C’è chi spera nella pace /c’è chi vuole ancora guerra /c’è chi solo guarda e tace /mentre corre cielo e terra.

E poi c’è la poesia, vivace e geniale di Gianni Rodari, che Cantacronache mette in musica. Ne esce Il Cantafavole, un disco che raccoglie brani come Il trionfo dello zero, Il pane, Pesci!Pesci!, Guerra alla guerra, L’accento sulla A, Girotondo di tutto il mondo, cantati da Margot:

Non mancano naturalmente le tante canzoni di impegno politico, in parte riprese dal repertorio dei canti di lotta e di protesta di un passato sia lontano che recente.

Così Margot canta La morte di Anita Garibaldi incisa in Cantacronache 2:

È morta Anita all’Ave Maria/quando la rondine scende dal cielo./Il Generale la bacia e piange. Deve lasciarla./Deve salvarsi, per riportarci la libertà

e i canti partigiani come Pietà l’è morta in Cantacronache 4 canti di protesta del popolo italiano registrata con il coro del teatro comunale di Bologna:

o Dai monti di Sarzana

Canta la Badoglieide

e Festa d’aprile, di Sergio Liberovici e Franco Antonicelli:

Forza che è giunta l’ora, infuria la battaglia/per conquistare la pace, per liberare l’Italia;/scendiamo giù dai monti a colpi di fucile;/evviva i partigiani! È festa d’Aprile.

Margot dà voce anche ai testi di Pietro Gori, sulla figura del giovane anarchico Sante Caserio:

Tremarono i potenti all’atto fiero/e nuove insidie tesero al pensiero/ma il popolo a cui l’anima donasti/non ti comprese, eppur tu non piegasti./E i tuoi vent’anni una feral mattina/gettasti al vento dalla ghigliottina/e al mondo vil la tua grand’alma pia/alto gridando: Viva l’anarchia!

o Stornelli d’esilio

E poi interpreta Eran trecento, ovvero La spigolatrice di Sapri, poesia di Luigi Mercantini sulla sfortunata spedizione di Carlo Pisacane nel Regno delle due Sicilie, dove in trecento furono massacrati dalle truppe borboniche:

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!

Ma l’impegno si fa anche molto concreto, sul campo. Margot sarà in Spagna durante il regime del generale Francisco Franco. La missione è di documentare, raccogliere i canti della nuova resistenza spagnola e diffonderli.

«Fu un viaggio clandestino – dice –. Noi eravamo dei clandestini, lì. Avevamo una scatola di fiammiferi con lamette da barba, dentro ogni fiammifero c’era l’indirizzo di una persona che poteva dirci qualcosa sulla nuova resistenza spagnola. Era pronta ad essere incendiata e gettata fuori dal finestrino della macchina se fosse successo qualcosa. Io avevo vent’anni, ero incinta di Andrea [Andrea Liberovici], ma ero proprio scatenata. Mi sentivo la pasionaria del gruppo. E questo viaggio in Spagna fu fondamentale perché intanto racogliemmo tutte le canzoni della nuova resistenza spagnola, quelle della resistenza del ’36 le conoscevamo, le avevamo anche già incise, ma queste nuove no. Ricordo che facevamo delle cose pazzesche: andavamo in un cabaret a mangiare e io cantavo Bella ciao, cantavo le canzoni partigiane, con la milizia sempre intorno che ci puntava. Una volta andammo in una chiesa, lì davanti facevano una parata militare. Mi misi a fotografare quel corteo, ma subito mi presero il rullino e lo buttarono via. Furono due mesi della mia vita tremendi. Una notte andammo in un campo profughi dove c’era un mucchio di gente buttata per terra. Era terribile andare con i riflettori a fotografarli, ma una di queste donne si alzò e ci disse: fotografate, fotografate, bisogna che il mondo sappia cos’è la Spagna di oggi. Questo ci liberò dall’imbarazzo di dover immortalare queste cose: bambini abbandonati su materassi sporchi e rotti».

Da questo viaggio nacque un libro, Canti della Nuova Resistenza spagnola e ci fu un processo per vilipendio di Capo di Stato estero (si menzionava la figura di Franco, definito come cabrón ma anche maricon, hijo de puta) e per oscenità. [Di questa storia ci racconta anche un articolo di Patria. «Un processo che fu anche contro di me – continua Margot –. Ero l’unica donna che aveva partecipato alla realizzazione del libro. Ci fu un interrogatorio: era la prima volta che entravo in tribunale da accusata con Straniero, Liberovici e l’editore Einaudi. Il giudice mi chiese: “Ma lei, come donna, non si sente a disagio a dire le parolacce che dice in quel libro?” E io risposi: “Scusi, ma lei, che differenza fa tra uomo e donna?”. Era il 1961-62, io giravo in pantaloni a Torino, anche se mia suocera mi avrebbe ammazzato. Ma non me ne fregava niente. “Lei, che ha vent’anni, dice queste cose?”, disse il giudice. “Perché? cosa c’è di strano?” avevo risposto io. Mi dissero: “Si metta un vestito per bene”. Io mi sono divertita da morire in questo processo. E poi ci hanno anche assolti».

Certo, sia lei che gli altri accusati, furono banditi dalla Spagna per diverso tempo. Ma non per questo smisero di viaggiare.

Con Cantacronache Margot andrà anche in Ungheria: «Avevo cantato alla radio di Praga – spiega –. In quegli anni, lì, il comunismo era rigido, eravamo controllati a vista, non c’era grande differenza con la Spagna». Si cantava nelle piazze, durante i comizi e le manifestazioni. Anche in teatro, anche con il Nuovo canzoniere italiano.

«Quando il gruppo si sciolse e io me ne andai, la presi comunque bene. Forse perché non mi piaceva così tanto cantare le canzoni degli altri, mi piaceva fare le cose mie. Sentivo che erano importanti quelle canzoni, e importante cantarle, però mi piaceva fare le cose mie. Decisi di cominciare a scrivere. E imparai a suonare il violoncello. Mi trasferii a Venezia, non smisi più di scrivere e di incidere».

Poco dopo, nel 1964, sarà la prima a cantare in Italia Le déserteur, ballata scritta a Parigi dal jazzman, discografico e romanziere Boris Vian ai tempi della guerra di Indocina, in breve divenuta un inno pacifista universale, oltre che manifesto contro la presenza coloniale in Algeria che, in quegli anni, lottava per la libertà.

Poi arriverà il primo disco da compositrice Canzoni di una coppia (1961), dedicato a George Brassens.

Brassens sarà un riferimento decisivo. Infatti, lei lo canta già a diciotto anni:

Le sue canzoni, nella loro leggera ironia, sapevano sbeffeggiare i ricchi e i potenti e perdonare gli ultimi. Coloro sui quali si accaniva il giudizio torvo della buona società, la morale bigotta, l’ingiustizia sociale. Canzoni come racconti in versi che nulla avevano a che fare con la retorica della canzonetta e che anzi la detestavano. I suoi dischi, in chi li ascoltava, non potevano che sortire l’effetto di far scaturire idee in musica nuove e provocatorie.

In quel primo album Margot canta, in largo anticipo sui tempi, l’intensa ballata protofemminista Le nostre domande, testo di Franco Fortini:

Forse una donna vuol sapere troppo/ma anche tu vuoi sapere e non lo chiedi che cosa pensi quando non mi vedi/ che cosa vedi quando guardi me/

“Se queste canzoni possono far pensare a Brassens – scriveva lei in copertina – è perché il mondo di entrambi è molto simile; c’è in me, come in lui, il sentimento degli affetti semplici, delle cose di tutti i giorni; e poiché queste cose, che parlano di giornate un po’ tristi, di amici che se ne vanno, di amori che non sanno più leggersi dentro (e forse non lo vogliono neppure) non possono venire urlate, scandite, piegate a un ritmo violento, forse per questo il mio stile può ricordare quello di Georges Brassens”.

Lo stesso Calvino nelle note dell’album scriverà: “Margot ha due anime: quella barricadera, che l’ha portata, dai suoi esordi col gruppo di Cantacronache, a riprendere la tradizione dei canti di protesta di tutti i tempi e di tutti i paesi; e quella intimista, attenta a tutte le sfaccettature e gli spigoli della quotidiana psicologia coniugale. E, forse, è proprio da questa Margot degli interni casalinghi, delle finestre cittadine, delle stanze d’albergo, con tutta la sua sensibilità per l’insoddisfazione nascosta sotto le ore apparentemente più tranquille e contente dei nostri tranquilli e contenti contemporanei, è proprio da questa Margot che matura ed esplode l’altra, quella delle canzoni di ribellione” [Calvino, I. 1961].

Una definizione dell’autrice forse tra le più calzanti. Lei che la ribellione e le rivoluzioni le farà sempre a modo suo. «Il ’68 – dice – non è stato un momento di grande rivoluzione per me, mi sentivo isolata, non mi sentivo di fare delle cose pubblicamente. Poi risentii il bisogno di un’equipe, ma mi trovavo più a mio agio con le donne. A volte prendevo mia sorella e andavamo in giro ai festival dell’Unità perché ci piaceva fare le cose femminili. Femministe a nostro modo».

E il mondo femminile ritorna in Pènèlope, sempre di Georges Brassens:

e nella meravigliosa Ballata delle donne, da una poesia di Edoardo Sanguineti:

Quando ci penso, che il tempo è venuto,/la partigiana che qui ha combattuto,/quella colpita, ferita una volta,/e quella morta, che abbiamo sepolta,/femmina penso, se penso la pace:/pensarci il maschio, pensare non piace

Continuerà a scrivere canzoni Margot: per la Divergo incide Sul cammino dell’ineguaglianza (1975), La follia (1977), La Messa dei Villani nella Cattedrale degli Ingegneri (1979). Registra Re Orso, una fiaba su testo di Arrigo Boito e Il vespero vermiglio, sedici poeti messi in musica da Margot (Nota, 2012). Ma si dedica anche alla regia d’opera per il Teatro alla Fenice e fonda un gruppo, La Fede delle Femmine, con cui realizza spettacoli di teatro musicale per marionette. Lavori di successo che lei stessa descrive nella sua autobiografia in rima: “Son stati e sono spettacoli densi/Che in ogni ambiente ricevon consensi:/Musiche tratte da assai rari dischi:/Hindemith e Malipiero e Stravischi,/Kurt Weill, Rameau, e anche Purcell e Berio,/Kagel,/Berlioz, Boccherini  e con serio/Spirito i testi (che han messo alla prova/La Stein, Calasso, Balzac, Casanova)”.

È eclettica e creativa in tutto ciò che decide di realizzare: «Io penso, invento, mi diverto» è la sua battuta finale, a conclusione dell’intervista.

Un percorso, quello di Margot, segnato dall’esordio torinese e poi proseguito con una carriera solista che l’ha condotta a scrivere, interpretare, incidere dischi fino all’ultimo, quando è mancata nell’agosto 2017. Con il sogno e anche il progetto già avviato di rifondare un nuovo Cantacronache, per tornare a raccontare fatti scomodi della politica italiana e della società di oggi: «Perché c’è carenza – diceva – di questa musica e di impegno. Manca l’impegno politico di cui si faceva carico la canzone».

Un impegno e un tono battagliero che Margot ha sempre saputo coniugare con una forte dose di ironia e di fine intelligenza, come si coglie nella canzone Sfogo:

o in Gli stornelli di Margot:

e in tanti altri brani recenti in cui non ha mai smesso di criticare e condannare, sferzandoli, uomini e movimenti politici, l’ipocrisia, la corruzione e le insensatezze dei giorni d’oggi.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli