“Ombre di facce, facce di marinai / da dove venite dov’è che andate”, scriveva Fabrizio de André in Crêuza de mä. Perché Genova, nell’immaginario dei poeti, è terra di viandanti, di anime di passaggio, di identità che svaniscono.
Ma Genova, come Torino, come Milano, negli anni del dopoguerra, è anche città del triangolo industriale. La piazza in cui, quotidianamente, la realtà si mostra in tutta la sua evidenza, con la disumanizzazione del lavoro, l’emigrazione forsennata, le condizioni intollerabili degli alloggi e della qualità della vita, le attese, le frustrazioni, i fallimenti. Una città sofferente, in balìa tra il progresso e il degrado.
Così, nelle canzoni di quegli anni, Genova esprime una natura esistenzialista, ispirata allo stile degli chansonnier francesi. I suoi interpreti, che qui hanno radici biografiche o musicali, sono i “cantautori del malessere”, come li chiama Felice Liperi. Osservano una realtà perennemente offuscata da venature malinconiche, ombre incombenti del mal di vivere quotidiano, i fallimenti personali, “gli amori perdenti e disperati” che si celano dietro i bagliori del boom economico e anche dopo, scrive Paolo Jachia. Lungo questa strada prende forma una canzone introversa e dai risvolti intimistici, in taluni casi di opposizione al patinato mondo piccolo-borghese, con autori come Luigi Tenco, Umberto Bindi o Piero Ciampi, con il suo mondo dei vinti, degli emarginati, dei deboli e la sua critica sarcastica all’italietta del miracolo economico e dei suoi falsi miti. O come Sergio Endrigo che, anche se non nato o cresciuto musicalmente a Genova, per affinità viene collocato tra i cantautori della cosiddetta “Scuola genovese”. E poi c’è l’irruenza, la poetica metaforica e allusiva di Fabrizio De André.
Le loro canzoni, quelle della “Scuola genovese”, appunto, sono il frutto di una “rivoluzione etica e linguistica, l’aver cercato parole vere e adeguate per raccontare la vita di tutti i giorni e i sentimenti e gli incontri dell’esistenza quotidiana”, dice Paolo Jachia; con loro è “la vita che irrompe, una volta tanto, sul palcoscenico”, ricorda Gianni Borgna.
Ma in questo mondo dei sentimenti, in questa canzone di voci ruvide e vere, c’è anche il racconto della guerra partigiana, cantata con toni dimessi, ironici, per nulla celebrativi. Come nella “Ballata dell’ex” di Sergio Endrigo. Quanta distanza tra i sogni, i progetti, le aspettative della fine della guerra e le delusioni, i fallimenti di un sistema politico che ben poco seppe rispondere alle richieste di rinnovamento degli italiani. Di chi aveva intravisto negli esiti del conflitto e della Resistenza la nascita di un nuovo ordine morale e materiale oltre che politico, e invece si trovò deluso.
Ancora prima, Carlo Cassola nel suo La ragazza di Bube, raccontava la storia di un partigiano toscano accusato e poi condannato per l’uccisione di fascisti, a guerra finita. Ne verrà tratto un film di successo con la regia di Luigi Comencini, nel 1963. La storia partigiana, in qualche modo, era da mettere a processo. Da che parte stava la verità? C’erano delle responsabilità condivise, e quindi colpe da entrambe le parti, sia dalla destra che dalla sinistra? Chi erano davvero i partigiani?
Bube, nel romanzo, si distingue per essere tra i partigiani più valorosi, combatte con onore trovando negli ideali della Resistenza saldi valori in cui rispecchiarsi. A fine guerra, come il Danilo della canzone di Endrigo, torna dalle montagne a testa alta, per l’orgoglio di aver lottato in nome della libertà e dell’uguaglianza. Chi lo conosce lo chiama il “Vendicatore” per il rispetto che ha saputo conquistarsi in battaglia.
Ma un giorno, durante un litigio tra alcuni comunisti e un maresciallo dei carabinieri, viene accusato di essere fascista. Sono istanti concitati e in un lampo avviene una sparatoria. Vi restano uccisi un compagno di Bube e il maresciallo stesso. Bube, preso nel vortice degli eventi, insegue e uccide a sua volta il figlio del militare.
Questo episodio segnerà per sempre la sua vita: il partito non prenderà le sue difese e la sua fede negli ideali politici in cui tanto credeva non potrà salvarlo da un processo e da una condanna per omicidio.
Nel confessare alla sua donna Mara l’orrendo delitto, Bube cercherà di trovarne una giustificazione nella miseria vissuta, nei torti subiti in passato, nella violenza a lungo patita:
“Sì, ma vedi… a volte uno si trova in una situazione che non può agire diversamente.
Prendi quello che è successo a San Donato…
– Anche lì, hai fatto male – disse Mara decisa.
– Ma come? Dovevo lasciare che il mio compagno rimanesse invendicato? Perché il primo a sparare è stato lui: quel delinquente del maresciallo…
– Ma il maresciallo l’avevate ammazzato; perché, allora, hai voluto ammazzare il figliolo?
Bube la guardò smarrito: – Sai, in quei momenti lì… uno mica ci riflette sulle cose. Però da te non me l’aspettavo – esclamò irato. – Che m’abbia dato contro Memmo, lo posso anche capire: perché lui dice di essere dei nostri, ma mica è vero. Lui non ha sofferto. Lui non l’ha conosciuta, la miseria! Ma tu, sì; tuo padre, l’hanno perseguitato; e tuo fratello, l’hanno assassinato, questi vigliacchi!
Era scattato in piedi, e ora tremava tutto; gli occhi gli s’erano intorbidati; sembrava che cercasse qualcosa o qualcuno su cui sfogare la propria ira.
– Io li ammazzo tutti, hai capito? Tutti!”.
L’aver sofferto una vita di miseria, però, non basta a giustificare il grave danno, e gli ideali non salvano. Il romanzo di Carlo Cassola, così, diventa un’occasione per ripensare con occhio critico il dopoguerra italiano, con i contrasti tra le speranze e la realtà dei fatti che seguirono la Liberazione.
Sebbene lo sguardo dell’autore resti qui più rivolto al privato, al racconto dei sentimenti, la storia della separazione tra i due amanti, sullo sfondo degli eventi politici compare la tematica della “memoria della Resistenza” che troverà espressione in diversi testi e canzoni del dopoguerra. Una memoria ambigua e contrastata.
La Ballata dell’ex di Sergio Endrigo riprende questo tema caldo e racconta il senso di fallimento e di amarezza di chi visse quel “clima di trasformismo e disillusione in cui gli ideali si rovesciano”, come ben ricorda Gioachino Lanotte. Con i partigiani che vengono messi a processo e gli altri che, invece, restano impuniti e fanno carriera.
È la storia di un partigiano che ha combattuto a suon di mitra e bombe per liberare l’Italia dall’oppressione nazifascista. Sogna il nuovo mondo che verrà, di pace, di libertà e uguaglianza. Così, a guerra finita, consegna le sue armi e torna al paese natio: “È rimasto sempre quello, con qualche casa in meno ed un campanile in più”. In quel paese un vecchio maresciallo lo vuole interrogare su un fatto d’armi del passato mai risolto: la morte di un podestà. La Resistenza va a processo, la si guarda con occhi sospettosi, come un’ombra che cela misteri e insidie. I partigiani di quali reati si sono macchiati? Chi ha ragione e chi ha torto? E la Resistenza, è stata un bene o è stata un male per l’Italia? Forse c’è anche chi pensa che si debbano pareggiare le colpe tra le due parti, che le condanne e le assoluzioni si debbano distribuite in modo equo, tra la destra e la sinistra.
Trascorrono vent’anni e non sembrano essersi ancora risolte quelle antiche questioni, di responsabilità, di colpe da attribuire o da condannare. Ma l’Italia è cambiata radicalmente adesso, compagni non ce ne sono più e se come diceva Cesare Pavese: “Un paese vuol dire non essere soli”, l’Italia si è fatta per pochi. Ci fosse ancora qualcuno a ricordare chi sono stati i partigiani.
Sergio Endrigo, così la canta, con parole semplici e una melodia da canzonetta allegra e festosa, che tanto stride con la storia del fallimento di tante speranze.
Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano
Di notte solo il vento gli faceva compagnia
Laggiù nella vallata è già pronta l’imboscata
Nell’alba senza sole eccoci qua
Qualcuno il conto oggi pagherà.
Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano
Il mondo è un mondo cane ma stavolta cambierà
Per tutti finiranno i giorni neri di paura
Un mondo tutto nuovo sorgerà
Per tutti l’uguaglianza e la libertà.
A soli cinque anni questa guerra è già finita
È libera l’Italia, l’oppressore non c’è più
Si canta per i campi dove il grano ride al sole
La gente è ritornata giù in città
Ci son nell’aria grandi novità.
E scese giù dai monti fino ai boschi fino al piano
Passava fra la gente che applaudiva gli alleati
Andava a consegnare mitra barba e bombe a mano
Ormai l’artiglieria non serve più
Un mondo tutto nuovo sorgerà:
Per tutti l’uguaglianza e la libertà.
E torna al suo paese che è rimasto sempre quello
Con qualche casa in meno ed un campanile in più
C’è il vecchio maresciallo che lo vuole interrogare
Così per niente per formalità
Mi chiamano Danilo e sono qua.
E vogliono sapere il perché il quando e il come
E tanto per vedere se ho diritto alla pensione
Mi chiede come è andata quella sera un anno fa
Che son partiti il conte e il podestà
E chi li ha fatti fuori non si sa.
Se il tempo è galantuomo io son figlio di nessuno
Vent’anni son passati ma il nemico è ancora là
Ma i tuoi compagni ormai non ci son più
Son tutti al ministero o alla tivvù
Ci fosse un cane a ricordare che
Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano.
Tra il 1961 e il 1965 si celebrerà il ventesimo anniversario della Liberazione, sia attraverso i programmi televisivi che le manifestazioni. La Resistenza diventava parte ufficiale della storia d’Italia, ma la costruzione di questa “memoria pubblica”, come spiega Guido Crainz, non risolveva le “molteplici e differenti – talora opposte – memorie private”. Storie soggettive, di punti di vista, d’interpretazioni, di sguardi parziali. Di conti ancora in sospeso e di rivoluzioni mancate.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato martedì 2 Febbraio 2016
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