“Jannacci Vincenzo. Professione: diverso”.
Enzo Jannacci
Anni Sessanta, primi passi della canzone d’autore: una voce, un pianoforte, una interpretazione strampalata, un testo con mille invenzioni e tanti nonsense. Ecco Enzo Jannacci, o il cantautore con gli occhiali – bizzarro, pazzoide, stralunato, ma anche lucido, irrefrenabile, innovativo. Bazzica negli spazi per la canzone dal vivo e del cabaret che nascono nella operosa Milano del boom: bar Jamaica, Cab 64, Intra’s Derby Club, Santa Tecla, Taverna Messicana.
Il suo esordio è di quelli memorabili: nel ’61 si presenta davanti a una commissione Rai per un provino. Canta una canzone improponibile, Il cane con i capelli. Testo assurdo ma che in realtà esprime un tema caro a Enzo, quello della discriminazione e dell’esclusione sociale. L’essere diversi.
Verrà dichiarato inadatto come interprete di canzoni per un programma televisivo: “Non idoneo”.
Non dimenticherà quel giudizio e il rifiuto sarà tema di tante canzoni. Del resto Enzo è l’eterno escluso, il sempre fuori posto, il perennemente estraneo.
Così, la poetica del diverso permea tutta l’opera del cantautore milanese che, insieme a De André e a Brassens, appoggia uno sguardo indulgente e affettuoso sugli ultimi, gli emarginati verso cui prova una naturale empatia. Una dote riservata a pochi, ai grandi. “Il mondo delle canzoni di Enzo Jannacci è un mondo decisamente ribaltato, dove l’umanità sta in basso, in fondo, negli inferi della povertà e delle periferie, e manca nei piani alti.” [Mainardi, “L’importante è esagerare”, p. 90].
Già a scuola Enzo si sente diverso. In un’Italia in trasformazione – sono gli anni del boom economico, in cui l’economia svetta e il paesaggio rurale svanisce con l’avanzare del cemento e delle industrie – lui, con il nonno di Bisceglie, è di origini pugliesi. Meridionale. Benché nato a Milano come il padre Giuseppe, quella tara dell’essere un terùn, un non milanese “al cent per cento”, fa di lui, di nuovo un diverso.
Nasce il 3 giugno 1935. In tempo per gli orrori della guerra, per provare la paura, il senso di precarietà, l’essere sempre in bilico tra la fuga e un bombardamento. Poi ci sono gli anni della ricostruzione che arricchiscono taluni, impoveriscono altri. La sua, sarà “la generazione di chi è troppo giovane per fare la Resistenza, e poi si ritroverà troppo vecchio quando salterà fuori il Sessantotto. La generazione di quelli rassegnati all’Italia povera e neanche tanto bella degli anni Cinquanta” [Mainardi, p. 14].
I genitori gli trasmettono principi fondamentali. Il padre Giuseppe, aviatore, lavora all’aeroporto Forlanini, nei pressi del quale abita tutta la famiglia fin dagli anni Trenta. Profondamente antifascista, inculca al ragazzo i valori della Resistenza. Lo indirizzerà verso la professione medica – Enzo si laurea in medicina all’Università di Milano e si specializza in chirurgia generale in Sud Africa e negli Stati Uniti, lavorando poi al Policlinico di Milano e all’Ospedale Sacco. La madre Maria Mussi, brianzola, ama la musica. Gli comprerà una fisarmonica. Lui la suona sorprendentemente a orecchio. Poi sarà la volta di un pianoforte e dei dieci anni di studio al Conservatorio Giuseppe Verdi. Studente scostante, insofferente, ribelle, ma istintivo e prodigioso. Naturalmente portato per il jazz che in quegli anni circola nei locali del nord, la sua prima esibizione è datata 1953 in un club della provincia di Varese. Poco dopo suona con mostri sacri del genere, incide dischi, si esibisce nei Festival e nei locali blasonati di Milano. E poi viaggia in tournée, a Zurigo e Parigi. È un pianista talentuoso, ma non è questa la sua strada.
Sono gli anni in cui la musica sta esprimendo grandi novità. Del ’58 è l’esordio di Cantacronache, gruppo di intellettuali che concepisce la canzone come strumento educativo. Una svolta che trasforma un prodotto di evasione in veicolo per contestare la realtà politica e sociale del dopoguerra. E poi c’è Modugno che sul “palcoscenico della smemoratezza italiana” porta Nel blu dipinto di blu, di cui ha scritto musica e testo, una canzone che interpreta con la voce, con il corpo. Un’altra svolta. Le canzoni sono strumenti di espressione artistica totale. [Pivato, “Bella ciao”, p. 205]. Poco prima gli chansonniers francesi avevano mostrato come trasformare i loro brani in piccoli racconti teatrali. Come rendere una canzone espressione di sé. Sono i cantautori, che prendono possesso della scena musicale e attraverso le canzoni parlano dei loro tormenti, della vita quotidiana, degli amori veri, della condizione sociale e politica in un momento storico caratterizzato da conflitti e profonde disuguaglianze.
Ribellione e voglia di libertà non si manifestano solo attraverso la canzone d’autore o la musica jazz. Siamo nel ’55 e il rock arriva in Italia grazie al film “Il seme della violenza. Rock around the clock” è la colonna sonora che risveglia nei giovani teenager o teddy boy di estrazione proletaria la voglia rabbiosa di scoprire chi sono e il mondo intorno. In Italia questo spirito ribelle viene incarnato da Adriano Celentano. E trova massima espressione nel primo “Festival nazionale del rock and roll” che va in scena al Palazzo del Ghiaccio, nel ’57.
In quell’occasione si esibiscono, tra gli altri, Mina, Tony Dallara, Little Tony. Enzo è ad accompagnare Celentano, con Luigi Tenco e Giorgio Gaber.
Gaber e Jannacci, i “Due corsari”, cominceranno di lì a poco a cantare in coppia. Registrano per la Ricordi la canzone 24 ore. È un rock all’italiana che al momento non riscuote molto successo. Qualche altro pezzo insieme e poi, nel ’60, le strade si separano.
Sono tante, quante le voci dei cantautori agli esordi i questi primi Sessanta: Bindi, Paoli, Tenco, Gaber. Ribelli e anticonformisti, il mercato che smercia canzonette, per i balli di gruppo, per la spensieratezza degli italiani, non riesce a intercettare un pubblico a cui indirizzare questi esperimenti.
Tra tutti, il più invendibile, imprevedibile, improponibile è proprio Enzo. La prima canzone da lui scritta è L’ombrello di mio fratello (’59), testo bizzarro che però mette in luce un personaggio che sarà tipico della sua poetica: l’escluso, lo sfigato che si scontra con il prepotente di turno e spesso ha la peggio.
È Milano la città in cui ciondolano questi perdenti. Figurine sfilacciate accantonate ai margini di un miracolo economico che non li ha minimamente toccati, se non per gettarli da parte, per terra, in un angolo.
Occorre ritrovare un’altra Milano. Quella delle tradizioni popolari da preservare, dei luoghi storici come le osterie, dei canti in dialetto, della povera gente non ancora deprivata di umanità. Milanin Milanon, spettacolo di Roberto Leydi (’62) nasce dall’idea di riunire canzoni e poesie della Milano di un tempo, la Milanin, accostate a testi e racconti della Milano moderna, la Milanonon frenetica e arrivista.
Enzo, per questo spettacolo, scrive canzoni memorabili, in dialetto, che diverrà poi sua chiave distintiva. Come Andava a Rogoredo, storia di un poveretto che cerca la morosa e soprattutto i soldi che lei non gli ha più restituito. I personaggi sono incarnazioni reali, calati nella realtà di quella Milanin in via di sparizione.
Nasce da questo spettacolo la collaborazione con Dario Fo, attore, regista, artefice di una rivisitazione satirica del teatro di rivista. Ma anche autore di testi come La luna è una lampadina scritta per lo spettacolo su Milano.
Insieme i due scrivono T’ho compraa i calzett de seda, storia di papponi e di prostitute.
Il mondo poetico di Enzo prende sempre più forma e sostanza: ci sono gli irrimediabili perdenti che vivono ai margini di una Milano caotica e rissosa, la Milano agra di Bianciardi, in cui si salva solo chi si omologa. C’è lo sguardo stralunato che trasfigura quella realtà cruda svelandone gli aspetti comici, o assurdi, o beffardi, o surreali. Il suo primo 33 giri esce per la Jolly nel ’64: La Milano di Enzo Jannacci. Il brano El portava i scarp del tennis diventerà la sua canzone feticcio. Storia di un barbone innamorato – di una donna in carne e ossa, o forse solo sognata – che si imbatte nel tipico professionista milanese sempre di corsa, che chiede informazioni stradali: Milanin contro Milanon. Alla fine al barbone toccherà morire di freddo e fame tra i cartoni e l’indifferenza dei tanti passanti presi dall’unico pensiero del lavoro, della carriera, del denaro. Che non sanno vedere chi, accanto a loro, muore.
Enzo emoziona, diverte, sorprende, fa riflettere. In Ti te se no racconta di un altro sconfitto della società: un operaio osserva le vetrine illuminate con le merci in bella vista e sogna di poter acquistare una vestina per sua figlia. Non potrà, quel mondo è solo per chi se lo può permettere.
Sono canzoni che lasciano il segno. Come il suo modo unico di interpretarle. Non si può che rimanere folgorati.
Il 30 settembre ’64 Enzo esordisce al Teatro Gerolamo con uno spettacolo scritto per lui da Dario Fo. Un recital come quelli degli chansonniers francesi, Ventidue canzoni. È una consacrazione. Il Corriere della Sera scriverà: “Demistifica sia la canzone sentimentale che la canzone intellettuale; presenta gente ai margini della vita o della società, barboni o sfruttatori o innamorati tristi e senza avvenire. Ma lo fa con uno stile tutto personale” [Mainardi, p. 72].
In Il primo furto non si scorda mai Enzo dissacra le canzoni della mala raccontando le gesta di un ladruncolo.
In L’Armando, il protagonista confessa l’omicidio del gemello che per tutta la vita lo ha maltrattato.
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In La forza dell’amore demistifica anche questo sentimento tramutato nell’appetito sessuale di un anziano.
Il pezzo scritto con Fo, La mia morosa la va alla fonte, spacciato come canto tradizionale risalente a secoli passati, fornirà lo spunto a Fabrizio De André per il capolavoro Via del campo. Il brano resterà ufficialmente registrato come opera di De André-Jannacci.
Ma Enzo non è solo cantautore, sarà anche direttore artistico, talent scout, capocomico di compagnie di giovani, pronti a scuotere e ravvivare con il cabaret le serate milanesi. Gianni Bongiovanni, proprietario del Derby gli affida la direzione artistica del locale. Lui si mette al lavoro e crea una compagnia stabile, il Gruppo Motore. Ci sono tra gli altri Cochi e Renato, Lauzi, Toffolo. Con loro allestisce lo spettacolo Giovanni Telegrafista, dall’omonima canzone.
Nel ’66 esce il 33 giri Sei minuti all’alba prodotto da Nanni Ricordi. La canzone che dà il titolo all’album racconta gli ultimi minuti di vita di un partigiano prima della fucilazione. Non è un eroe, vorrebbe fuggire, essere altrove. Ha combattuto solo per la paura dei fascisti. Non vuole essere confessato da nessun prete. Va bene un’ultima sigaretta mentre il buio schiarisce. La fucilazione arriverà. Una Resistenza senza retorica.
Soldato Nencini, giovane alla leva, analfabeta e terrone, viene lasciato dalla fidanzata attraverso una lettera che non è in grado di leggere. Simbolo di un’Italia malandata, retrograda, invisibile ma ancora esistente nonostante il miracoloso progresso.
Ancora perdenti, ancora poveri disgraziati fregati dalla vita, i perennemente vinti. Enzo sarà sempre la loro voce. Ma la seconda metà degli anni Sessanta è una battuta d’arresto per i cantautori. I giovani gli preferiscono il rock, il beat, il folk americano o britannico.
Lo scontro tra canzone d’autore e mercato si materializza sul palcoscenico di Sanremo quando, nel ’67, Luigi Tenco si suicida dopo l’esclusione della sua Ciao amore ciao. Sarà difficile trovare una motivazione per andare avanti. Ma poco dopo, lo sconquasso del ’68 con i violenti scontri per i diritti sociali, porterà nelle piazze masse di giovani che ora cercano una colonna sonora delle loro battaglie e conquiste. Così Enzo è tra i primi a intercettare quel pubblico di studenti, di universitari, di operai che, scesi per le strade, protestano per cambiare la società.
Vengo anch’io. No, tu, no esce negli ultimi giorni del ’67. Un rifiuto che non ha una valenza politica perché Enzo non riesce a chiudersi in nessuna ideologia. È la storia dell’ennesimo escluso, che viene evitato da tutti, neppure invitato al suo funerale. È la condizione tipica dei personaggi di Enzo, sfigati perché diversi, perché incompresi. Una condizione che tocca da vicino quanti in quel momento facevano i conti con il rifiuto, con il permanere delle differenze, con la distinzione tra classi sociali, con le disparità tra uomini e donne. Un senso collettivo di esclusione, di rabbia, era quello che animava la generazione toccata da quel No, tu, no. Sarà un successo. Amaro, perché la popolarità di Enzo nel mondo dello spettacolo gli renderà sempre più complicato essere credibile come medico chirurgo, con i colleghi, i dirigenti, i pazienti stessi.
Vengo anch’io diventa un 33 giri, con gli arrangiamenti di Luis Enríquez Bacalov. Tra i pezzi memorabili: Ho visto un re, scritta da Fo per lo spettacolo Ci ragione e canto, con lo scopo di smascherare le criticità di un sistema sociale iniquo: ai poveri non resta che ridere, tutto il resto è proprietà di re, nobili, ricchi, vescovi, cardinali. La commistione di comicità, satira, sarcasmo veicola contenuti politici, di rivolta sociale, ma con tono ridanciano e spensierato, rendendo il messaggio accessibile a tutti.
L’album contiene diversi riferimenti al Brasile. Ci sono brani ispirati ad autori e poeti carioca come Pedro Pedreiro di Chico Buarque de Hollanda, canzone di taglio politico che dà voce allo spirito di rinnovamento del Paese sudamericano, sottomesso da un regime militare.
Oppure La disperazione della pietà, del poeta Vinìcius Moraes, una sorta di preghiera perché si ponga fine alle violenze e alle ingiustizie che devastano il presente.
Enzo sembra sempre di più accogliere nella sua poetica una visione di mondo che è anche una dichiarazione politica. Un dare voce alle minoranze, ai popoli sottomessi. Non a caso nell’edizione di Canzonissima del ’68 si presenta con una canzone inedita, Gli zingari, storia di un popolo da sempre in cammino, scacciato da ogni luogo. La immagina, questa gente, ferma davanti a un mare che, invece di ingoiarli, parla con loro, consola quelle donne e quegli uomini da sempre condannati alla fuga e perseguitati dall’odio. La canzone si piazzerà agli ultimi posti della classifica. Ma per Enzo era importante dare visibilità a degli invisibili.
Il mondo del cinema offre diverse possibilità a questo sconclusionato artista che biascica le parole ma riesce a comunicare i suoi stati d’animo. È il regista Marco Ferreri a richiedere la sua presenza per “L’udienza”. Film anticlericale che contesta la Chiesa e l’ipocrisia del suo potere. Provocatorio e di qualità artistica, ma che resterà confinato nel circuito dei cinema dell’essai. Enzo anche qui esprime il suo talento surreale, il suo innato senso del grottesco, la sua natura di malinconico matto istrione.
Nell’album Jannacci Enzo del ’72, alcuni inediti spiccano tra i brani dell’album riorchestrati. Una tristezza che si chiamasse Maddalena è probabilmente ispirato alla strage di Piazza Fontana in cui la ragazza citata avrebbe perso la vita.
Ragazzo padre è la storia di un giovane, l’ennesimo sventurato, abbandonato dalla fidanzata e lasciato senza un soldo in tasca, a crescere un bambino.
La metà degli anni Settanta è segnata da nuovi scontri sociali e politici e dal rinvigorirsi dei movimenti di piazza: la riforme mancate, l’instabilità economica, la precarietà si fanno sentire tra i giovani che stanno perdendo le speranze per un futuro diverso. Mario Monicelli scrive “Romanzo popolare”, film sulle incrinature della classe operaia che sembra aver dimenticato le tante lotte per i diritti sul lavoro. Nel finale suggerisce però una possibilità di rinnovamento nell’emancipazione del personaggio femminile, Vincenzina. A lei è dedicato uno dei brani della colonna sonora, scritta da Enzo, Vincenzina e la fabbrica. Canzone che esprime l’estraneità verso la metropoli e la fabbrica di una giovane donna arrivata dal sud.
La ritrovata notorietà e l’ambiente discografico più fervido, in quegli anni Settanta che vedono la nascita delle etichette indipendenti, riportano Enzo in campo, con il disco Quelli che… edito da l’Ultima Spiaggia. È un disco che contiene diversi riferimenti all’attualità e alla situazione politico sociale di quegli anni. La canzone stessa che dà il titolo al disco è una sorta di elenco dei luoghi comuni, delle frasi fatte, delle ipocrisie che dipingono il quadro di generale impoverimento del Paese. Con La televisiun Enzo ammonisce sugli effetti del mezzo di comunicazione: “La televisiun le te indurmenta me un cuiun”.
L’album, grazie anche alle radio libere che vivacizzano il sistema della diffusione musicale, troverà un pubblico di giovani.
La fine dei Settanta è, invece, segnata da un generale rifiuto dell’impegno politico e militante. Sia nella società che nel mondo musicale. Il nuovo 33 giri, Foto ricordo (’79), sulla copertina presenta il cantautore, la moglie e il figlio in abiti da cerimonia e con i pattini a rotelle. Enzo vuole tornare a mostrarsi, riconquistare visibilità. Ma le canzoni raccontano di un’Italia per niente rinnovata. Io e te è la storia delle disillusioni di un uomo e di un Paese che ha fallito ogni possibilità e che non ha più prospettive, se non aspettare la morte. È un’amara riflessione politica che ha a che fare con le promesse tradite, con le riforme inattuate. Ma è anche una riflessione esistenziale dell’autore che dopo tanti alti e bassi si chiede come proseguire.
Nell’Italia disillusa di quegli anni con Natalia affronta anche il tema delle inefficienze del sistema sanitario.
Con l’album Ci vuole orecchio (’80) Enzo rinnova il linguaggio musicale, che si fa più moderno, grazie all’intervento dell’elettronica. Ci vuole orecchio è una canzone dai molteplici significati: ci vuole orecchio per costruire buoni prodotti musicali; ci vuole orecchio per armonizzarsi alle difficoltà quotidiane.
Ma nel 1981 il nuovo 33 giri E allora …concerto mostra il lato in ombra di questo secondo boom che sembra invadere l’Italia del nuovo decennio. I giovani, privi di prospettiva, vedono inasprirsi disuguaglianze e possibilità. Vince il più furbo, il più scaltro, l’egoista. Gli anni Ottanta si rivelano quelli dell’indifferenza verso il più debole. Sono anni di solitudine, nascosta dallo sballo, dall’evasione spinta al massimo, dall’euforia. In Cosa importa, infatti, viene affrontato il tema della droga. Naturalmente la poetica di Enzo, degli ultimi e degli emarginati, non si accorda al generale ottimismo che pervade il decennio.
Seguiranno altri lavori, tra cui Discogreve (’83), album che torna a parlare delle disillusioni, dei tempi cambiati in peggio, della perdita di valori spazzati via dalla futilità del disimpegno. Dei nuovi panorami: Milano è diventata la “Milano degli architetti, degli stilisti, degli agenti di Borsa, degli autori televisivi, delle modelle, degli assessori, dei paninari […] È la Milano del garofano, di Bettino Craxi, dei nuovi socialisti; di quelli che ti spiegano che la sinistra non deve star più lì a inseguire una classe operaia che è sparita, ma deve innovarsi, sorridere, divertirsi” [Mainardi, p. 198].
La Milano della fine di un’epoca, con la chiusura irrevocabile del Derby.
È la Milano dei vincenti. Quelli per i quali Enzo non ha mai imparato a parteggiare.
Nel successivo album L’importante (’85), Enzo racconta di questi tempi anaffettivi e superficiali. Son scioppàa torna allo scontro tra poveri disperati e giovani rampanti che hanno sempre la meglio.
Ma la canzone L’importante è esagerare è anche un invito ad andare fuori dagli schemi, uscire da ciò che è preconfezionato, essere liberi di seguire il proprio istinto.
Spregiudicatezza, edonismo, narcisismo connotano il decennio. Ma anche incomunicabilità. Così Enzo pubblica il 33 giri Parlare con i limoni il cui tema di fondo è: dialogare con oggetti inanimati non è molto diverso che parlare con individui che comunque non ascoltano.
Anche i cantautori ormai in crisi, sono senza un pubblico, senza più nulla da raccontare: Poveri cantautori.
Inconsueto e fuori moda, Enzo decide di sfidare il palcoscenico di Sanremo e ci sale cantando Se me lo dicevi prima, sul tema della tossicodipendenza (’89). Riceve la Targa Tenco come migliore canzone (già nel ’75 aveva ricevuto un Premio Tenco alla carriera).
Ci ritorna nel ’91 con La fotografia e racconta di un padre disperato per la morte del figlio ucciso in una sparatoria nell’ambito della criminalità organizzata. Vincerà il Premio della Critica.
Sarà di nuovo su quel palco nel ’98 con Quando un musicista ride, vincendo il Premio Volare per il miglior testo.
Gli anni Novanta vedono la sparizione del sistema dei partiti, il riacutizzarsi delle rivolte di piazza, la ricomparsa delle bombe con gli attentati a Falcone e Borsellino, e poi a Milano, Firenze. Lo spettacolo realizzato con il figlio Paolo, Pensione Italia, mette alla berlina gli scandali, la corruzione di questi anni.
Nell’album I soliti accordi Enzo squaderna i mali del Paese, mette in contrapposizione la classe politica corrotta con la gente comune che fatica ad arrivare a fine mese. È una critica che emerge in canzoni come Il bonzo.
Lo spettacolo È stato tutto inutile è una riflessione sofferta sull’Italia devastata dalla politica di Berlusconi e di Bossi e sulla sua condizione di artista, fuori dal mercato, ignorato dalle case discografiche.
Nel 2000 ritorna alla popolarità con il brano Nebbia in Val Padana, scritto per l’omonima fiction Rai con Cochi e Renato. Così ottiene un contratto con Ala Bianca con cui incide Come gli aquiloni. Con la sua versione di Via del campo, insieme al figlio Paolo.
Soprattutto c’è di nuovo la pungente critica alla società di un terzo millennio ancora presa dall’arrivismo, dal carrierismo, dall’incuranza del prossimo. Ripropone Brutta gente.
Ma è con Lettera da lontano che Enzo rivede il film della propria vita, con gli alti e bassi, le persone importanti, quelle inutili.
La canzone Sono timido affronta, invece, il tema dell’immigrazione: storia di un nuovo disperato che attraversa il mare per trovare un lavoro e una condizione di dignità.
Nel 2003 esce L’uomo a metà, in cui Enzo ricorda l’amico Gaber scomparso poco prima. L’uomo a metà è la condizione di chi vive in una realtà che rifiuta la sofferenza dell’altro, in cui sopravvive chi si volta dall’altra parte, chi si priva delle emozioni. Chi è indifferente. Il brano ottiene il Premio Tenco per la migliore canzone.
Per i settant’anni Enzo incide 3.6.2005, album in cui riprende tanti capolavori del passato. Ottiene la Targa Tenco per il miglior album dialettale.
La trasmissione Che tempo che fa nel 2011 gli dedica uno speciale, ultima esibizione prima della sua morte, il 29 marzo 2013.
Enzo Jannacci è stato un artista dall’intensità poetica straziante, che ha dato voce agli emarginati, ai barboni, alle prostitute, ai lavoratori sfruttati, agli immigrati, alle persone sole, ai senza terra. È stato un genio, visionario e profetico che ha illuminato tante strade. Mostrandoci sempre la parte giusta su cui camminare.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato sabato 5 Settembre 2020
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