Uccio Aloisi

Chi ama la musica ama l’amore, chi non ama la musica non ama se stesso”
Uccio Aloisi

Secondo lo scrittore e viaggiatore britannico Bruce Chatwin, che all’argomento ha dedicato il saggio Le vie dei canti, gli aborigeni credevano che una terra non cantata diventasse una terra morta: “Se i canti vengono dimenticati – scriveva –, la terra ne morrà. Per questo motivo “gli uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando: avvolsero il mondo in una rete di canto”. Un labirinto di suoni, tracce dei loro antenati.

Immagine suggestiva quella che ci restituisce la riflessione di Chatwin. Pensare il mondo nelle forme di una immensa ragnatela in cui ogni filamento rappresenti l’eco di una testimonianza antica ed eterna: la memoria di un evento, tragico o gioioso, in una strofa; il ricordo di una vicenda amorosa, in una melodia; il momento della fatica del lavoro, sotto il sole, al buio di una grotta, sulla riva di un fiume, in un lamento. Tra le voci che intessono quei filamenti ci sono quelle di coloro che, cantando ininterrottamente, hanno tramandato la cultura popolare della loro terra. Come quelle del sud della nostra penisola, in particolare della Puglia.

Uccio Bandello (wikipedia)

Spiccano allora le personalità di Uccio Bandello, Uccio Melissano, Giovanni Avantaggiato e poi Uccio Aloisi. “Maestro senza cattedra”, quest’ultimo, come lo hanno definito l’etnomusicologo Luigi Chiriatti e il giornalista e ricercatore Sergio Torsello, “albero di canto” (così si chiamano – scrive Bela Bartòk – i contadini che secondo l’opinione generale del villaggio sanno a memoria un’infinità di melodie), che ha raccolto suoni, parole e suoni di una terra amara come il Salento e ne ha fatto un concerto di dialetti e musiche inestimabile. Composto da un repertorio che ha cominciato a intonare da ragazzo quando il Salento era ignorato dal resto del continente, abbandonato nell’arsura dei latifondi, immensi e poco redditizi, patria di braccianti agricoli in miseria. Un repertorio di inflessioni uniche, di accenti inimitabili, il frutto di un viaggio che affonda nel fondo scuro di un terreno crepato dal sole, fino alle radici.

“Durante il periodo più intenso e più proficuo della mia ricerca sulla musica popolare salentina sono arrivato a Cutrofiano – scrive Luigi Chiriatti, impegnato nella campagna di ricerca e documentazione della cultura orale salentina negli anni 70 –. Qui ho conosciuto diverse persone: Antonio Aloisi, Antonio Bandello. Con queste persone ho effettuato delle registrazioni uniche. Con loro si è stabilito un rapporto di amicizia e di affetto che ha travalicato il tempo e le vicissitudini personali, stabilendo, soprattutto con Antonio Bandello e Antonio Aloisi un rapporto costante e duraturo. Gli Ucci sono due dei cantori più attivi e presenti nel panorama della musica popolare salentina. Possiedono voci bellissime e intonate. Fino a qualche tempo fa era possibile ascoltarli cantare in qualche festa o ricorrenza pubblica”.

Cutrofiano è dunque il centro di questa storia. Piccolo borgo di quella che un tempo fu isola di cultura ellenofona in Salento, terra di contadini e di cavatori d’argilla. Qui nel 1928 nasce Uccio Aloisi, qui, in occasione delle feste dell’Unità si incontrano quei cantori di cui si è detto: improvvisano al ritmo del tamburello, mettono insieme le loro esperienze musicali e le loro voci. Da qui parte l’avventura del leggendario gruppo degli Ucci Nosci, poi modificato in Li Ucci, storica formazione salentina custode delle tradizioni popolari degli stornelli, dei canti di lavoro e d’amore. Ne fanno parte Antonio Aloisi che fa il controcanto e accompagna al tamburello, Antonio Castrano che suona l’organetto, Antonio Malerba alla fisarmonica. Più tardi si aggiungerà Giuseppe Migali, al tamburello. Voce solita Uccio Bandello. Nato da una famiglia contadina, classe 1917, nei suoi ricordi c’è la guerra d’Africa – racconta Luigi Chiriatti –. Fu fatto prigioniero e sopravvisse alla fame e alla disperazione cantando. Bandello, invece, impara l’arte da bambino insieme ai contadini e alla donne di Cutrofiano. Si racconta che durante la potatura, gli altri “mondadori” gli chiedessero di mettersi sotto un albero, all’ombra, e di cantare.

Ballerini di “pizzica” (wikipedia)

All’età di undici anni si scopre amante del belcanto, dopo aver ascoltato le romanze al cinema e le arie dalle bande nelle feste patronali, e nonostante le ristrettezze economiche inizia a prendere lezioni. Si sposta fino Lecce, che raggiunge in bicicletta. Il bambino è davvero dotato vocalmente e ottiene eccellenti risultati in quel poco tempo, ma deve presto abbandonare lo studio: in famiglia i soldi non bastano mai, serve guadagnarsi il pane con la fatica quotidiana nei campi.

Non smette, però, di cantare. Deposito di saggezza popolare, diventerà portatore della tradizione della sua terra, restando nella memoria come il più straordinario interprete dell’ultima generazione di cantori popolari salentini. “Bandello era la voce – scrive Sergio Torsello nel libro a lui dedicato, La voce della tradizione –. La sua presenza immateriale, pervasiva, che riempiva l’aria”.

Così straordinario da scatenare rivalità e tensioni nei confronti degli altri cantori. Come Uccio Aloisi, nato come seconda voce, controcanto all’incomparabile Bandello che, si racconta, acquistò addirittura un campo confinante a quello di Aloisi per dargli l’occasione di sfidarlo alla seconda voce. Lavorando la terra, inventavano insieme nuovi stornelli.

La Notte della Taranta nell’edizione del 2013 (wikipedia)

L’unicità per timbro, estensione, limpidezza faranno della voce di Bandello un unicum. Si dice che oscurasse chiunque altro gli fosse accanto. Aveva consapevolezza del proprio dono, tanto da maturare una notevole capacità di controllo delle diverse tecniche di emissione, oltre ad avere una cultura musicale sterminata.

È lo stesso Aloisi a confermarlo: “Io per esempio – racconta a Sergio Torsello – stornelli ne posso fare cento, uno diverso dall’altro. Bandello ne poteva fare centoventi. Se anche non li sapeva li andava a prendere a casa di Dio. Era uno di quegli uomini veramente saggi che dovevano sempre sapere quello che facevano”.

Stornelli, canti di lavoro, d’amore, pizziche, canti alla stisa, ninne nanne, canti di chiesa (è tra i maggiori esecutori di Santu Lazzaru, canto di questua che si eseguiva durante la Settimana Santa) canti narrativi, frammenti di folk urbano, sono la varietà delle espressioni che appartengono al repertorio di Bandello e che poi passeranno agli Ucci.

Come Stornelli: “Io canto li stornelli e me ne vanto/vi faccio mille auguri e son contento”.

O Femmane, racconto di un carcerato a San Vito che si è rovinato la vita per una donna sposata.

Giulia, invece, è la storia infelice di una promessa sposa che muore prima del ritorno dell’amato dal fronte dove è andato soldato.

Sul tema del lavoro è La tabaccara, mestiere mal pagato in cui si è solo sfruttati: “I soldi che ci danno non bastano per la colazione”.

L’esorcismo di una tarantata

Una miriade di manifestazioni che testimoniano come il canto accompagnasse momenti della vita delle persone, rispondendo a una utilità quotidiana: alleviare la fatica del lavoro, festeggiare un amore, addormentare i bambini. Ma si cantava anche e soprattutto per necessità interiore, per comunicare le proprie sensazioni e suscitare emozioni. Per affermare un proprio talento, per il piacere personale di essere riconosciuto attraverso la voce. “Una voce che accoglie e canta gli ultimi versi di una civiltà al tramonto”, scrive Flavia Gervasi, da cui dipartono nuovi percorsi culturali. Questo era Uccio Bandello.

Il 1998 è l’anno della sua morte, anno in cui viene tracciato il solco di un percorso sonoro e identitario, l’anno dell’esplosione del revival della pizzica che lo avrebbe consacrato come emblema della cultura salentina.

L’edizione 2007 della Notte della Taranta (wikipedia)

Il “Concerto notturno” di Melpignano o meglio “La notte della Taranta” nella sua prima edizione del 1999, diretto da Daniele Sepe con la direzione artistica di Maurizio Agamennone e Gianfranco Salvatore, sarà dedicato proprio a lui, definito come “indimenticato cantore”.

A lui e allo storico gruppo Li Ucci si deve dunque la nascita dell’evento che negli anni diventerà il festival di musica popolare più importante d’Europa. Si scioglieranno nel 1998, Gli Ucci, non prima di aver registrato l’album “Bonasera a quisa casa”, destinato a lasciare il segno nella musica popolare italiana. Dieci tracce tra cui i dialettali Lu Santu Lazzaru,

Aria de li trainieri,

Pizzica degli Ucci,

Mara l’acqua

e altri tradizionali come Truppe truppe e Le tre sorelle.

Eugenio Barba con i performer dell’Odin Teatret

Con la loro riscoperta della musica popolare legata al fenomeno della taranta si esibiranno anche al di fuori dei confini regionali, in Italia e all’estero. Tra le esperienze più leggendarie, Uccio Bandello e Uccio Aloisi ebbero modo di accompagnare musicalmente il regista di origine salentina Eugenio Barba e il suo gruppo di “stranieri che danzano”, l’Odin Teatret. Il documentario In cerca di teatro. L’Odin Teatret di Eugenio Barba nel Salento, mandato in onda dalla Rai, è tra i materiali più visti e studiati sulla storia del teatro, che narra appunto l’incontro dell’Odin Teatret con le tradizioni del Salento. Celebre la scena girata nel paese di Martano dove, durante una festa, si documenta la pratica del “baratto culturale”, invenzione di Barba. Uno scambio tra i teatranti danesi, che offrono i loro spettacoli, con i cantatori e danzatori del luogo, che si esibiscono in canti tradizionali. Tra essi si distingue il gruppo degli Ucci di Cutrofiano. Si tratta delle prime scene di danza della “pizzica-pizzica” salentina di cui si conserva documentazione video. Bandello e gli altri si sforzarono di ricordare le antiche melodie e le ballate locali, i rituali, le consuetudini, le filastrocche.

Si saprà poi che, una volta finita la serata con Eugenio Barba, li Ucci avrebbero iniziato a lavorare direttamente nel campo di tabacco, verso le tre di notte, “senza aver nemmeno salutato il letto”, dalle parole di Uccio Aloisi. (Al sito dell’Archivio sonoro della Puglia è reperibile parte del documento)

Nel servizio di Tv7 Rai Uno del febbraio 2013 sull’Odin Teatret, Eugenio Barba, allievo di Jerzy Grotowski, racconta il carattere innovativo e rivoluzionario del suo teatro antropologico, fondato a Oslo, in Norvegia, nel 1964, e in seguito insediato a Holstebro in Danimarca.

Altra storica registrazione è quella effettuata nel luglio 1997 in piazza Verdi a Bologna durante un live del gruppo che testimonia il legame stretto di Uccio Bandello con e Luigi Stifani, tra i più importanti violinisti terapeuti dei rituali legati al tarantismo salentino.

La voce tenorile di Bandello si ascolta anche nelle riprese di Pizzicata, film del 1996 diretto da Edoardo Winspeare interamente girato in provincia di Lecce. Un film che ha contribuito a diffondere la musica salentina nel mondo.

“Si è recentemente concluso Essential Salento: festival della cultura salentina, tenuto qui a Los Angeles (18-23 ottobre 1998) – scrive Luisa del Giudice, Università della California, Los Angeles –. È stato durante questa esperienza salentina in Los Angeles che per la prima volta ho visto e ho sentito Antonio Bandello, anche se in un film. La breve ma magnifica interpretazione di Bandello durante la scena di festa nel film Pizzicata, mi ha fatto accapponare la pelle. Ho immediatamente desiderato di poter ascoltare ancora questa voce potente e pulita”.

Alla scomparsa di Bandello, tocca ad Uccio Aloisi (che morirà poi nel suo paese natio, Cutrofiano, il 21 ottobre 2010) portare avanti quel lavoro di riscoperta della tradizione popolare, di divulgazione del patrimonio ricchissimo dei canti salentini e in particolare della zona di Cutrofiano.

“A casa mia si cantava sempre, eravamo una famiglia dove chi più cantava. Facevamo qualunque cosa accompagnandoci al canto, specialmente quando infilavamo tabacco. Mia sorella Maria, se la sentivi cantare…Era una cosa. Le canzoni le cacciava da sotto terra. Mio padre – noi stavamo di là a infilare tabacco – magari andava a coricarsi, ma dal letto ci faceva il controcanto. Mia madre finché non è morta, ha sempre cantato”. Così racconta di sé Aloisi in un’intervista raccolta in Uccio Aloisi. Il canto della terra.

A Valter Giuliano – nell’antologia Canti, poeti, pupi e tarante – sempre Aloisi, racconta del suo contesto familiare, fortemente connesso al canto e aggiunge: “Mio padre andò a letto cantando, poi fumò l’ultima mezza sigaretta e l’indomani mattina era morto […]. Mia mamma era una prefica e insieme a una comare era chiamata per i funerali a fare i canti del dolore”.

Si comprende come in famiglia, benché di umili origini, non sia mancato l’apporto duraturo e benefico del canto, come esperienza di aggregazione, di evasione dalla fatica quotidiana, di cura e salvezza dalla miseria e dalla fame. Molte delle canzoni più antiche Aloisi le impara proprio dalla madre, gli riesce facile tenerle a mente e intonarle, ma: “Devi essere portato se no non combinavi niente – racconta Aloisi a Luigi Chiriatti –. Non è che uno si mette e canta, devi trovare la rima, se allo stornello manca la rima non è più uno stornello, è una porcheria”.

Luigi Stifani, Salvatora Marzo e Pasquale Zizzani durante l’esorcismo di una tarantata (wikipedia)

Musica e canto sono la compagnia quotidiana per Aloisi come lo erano per Bandello. Inadatto allo studio, non per mancanza di intelligenza ma per la troppa fatica nell’apprendere esperienze poco pratiche, Aloisi campa dei mestieri a giornata: dal contadino, al bracciante agricolo nei campi di tabacco: “Ho cominciato a zappare a quattordici anni e non ho mai smesso – racconta nell’antologia di Valter Giuliano –. Ho conosciuto tutti i colori della terra: alle cave, ai pozzi d’acqua, alle fondamenta, al tabacco, al vigneto. Ho cercato il lavoro in piazza, a giornata, ma sempre fame ho avuto. Un morto di fame”. La musica è sempre presente nella sua vita di povero zappaterra di Cutrofiano: quando si lavora e anche nel tempo del riposo, c’è sempre qualcuno a intonare un canto. Perché la musica nella società rurale di allora era “l’espressione di un legame sociale, lo strumento di una comunità che (si) racconta e (si) tramanda”, scrive Sergio Torsello in Uccio Aloisi, il canto della terra.

Il concerto finale della Notte della Taranta dell’edizione 2011

“Una volta si cantava sempre – conferma Aloisi in Canti, poeti, pupi e tarante –. Cantavamo pompando la vigna, nei campi quando si raccoglieva il tabacco, poi in casa quando lo si infilava. Uno dava la voce, un altro rispondeva, altri si aggiungevano. Io ho sempre cantato, specialmente quando si andava a raccogliere il tabacco”.

Si canta durante il lavoro e si canta nelle feste. A Natale si canta La pastorale, mentre nel periodo di Pasqua, Lu Santu Lazzaru, e gli stornelli in tutte le occasioni buone per celebrare qualcosa.

Ha già cinquant’anni Uccio Aloisi quando diventa oggetto di studio da parte degli etnomusicologi che sulla scia del folk revival, iniziato con il “Bella Ciao” di Spoleto, conducono ricerche nelle varie zone d’Italia, portando alla luce un enorme patrimonio. Ha continuato per diverso tempo a cantare con un gruppo da lui costituito, l’Uccio Aloisi Gruppu, esibendosi in numerose manifestazioni, tra cui la Notte della taranta a Melpignano.

Nell’edizione del 2003 si ritrova sullo stesso palcoscenico con il batterista dei Police, Steward Copeland, e con il gruppo cubano dei Buena Vista Social Club, guadagnandosi l’appellativo di “Compay Segundo italiano”.

Dal 2001 il Gruppu si esibisce in concerti e feste popolari di cui si perde il conto. Nascono da quelle esibizioni gli album i CD “Robba de smuju” (2002), “Robba de smuju tour” (2004) e “Mara l’acqua” (2006). Robba de smuju significa “qualcosa che smuove”, un’energia che si irradia da un ritmo quasi ossessivo. Con questo ritmo la musica diventa strumento terapeutico che conduce a uno stato di trance: la stessa condizione che toccava i fedeli che partecipavano ai riti antichi del tarantismo, a Galatina durante la festa di San Rocco. Il ritmo e la danza assumevano la funzione di una pratica collettiva di liberazione e di guarigione.

Un documento audiovisivo, realizzato con la consulenza di Ernesto de Martino, antropologo tra i primi a occuparsi del tarantismo, e le musiche originali registrate da Diego Carpitella.

Tra le registrazioni dal vivo di Aloisi ci sono gli Stornelli,

l’intenso Triniere, in cui il canto, accompagnato da un tamburello che mima il galoppo del cavallo, si fa ricco di melismi e si intona seguendo le inflessioni di un canto arabo.

Altro stornello d’amore è Quandu te lavi la facce la matina

Aloisi è anche tra i personaggi principali del film documentario Craj di Davide Marengo, del 2005, nato dal progetto di Teresa De Sio, con la presenza di Matteo Salvatore, i Cantori di Carpino e Giovanni Lindo Ferretti.

Lo incontra di persona, De Sio, e fa di tutto per convincerlo a partecipare al suo spettacolo: “Per me, e per molti altri più giovani di me, la sua musica, la musica della terra salentina, è importante, trasporta un’intera visione del mondo, un’intera cultura che è stata a lungo repressa dalla nostra cultura nazional-popolare e che è arrivato il tempo di disseppellirla e farla esplodere in tutta la sua potenza guaritrice”. Avrà il suo bel daffare a convincerlo, ma alla fine l’avrà vinta.

Uccio Aloisi durante un concerto (www.videosalento.it)

“Ma la cosa più bella è stata cantare a Firenze – racconta Aloisi a Valter Giuliano – e cantare a Firenze, Firenze sogna”. Un sogno che si avverò.

Uccio Aloisi muore il 21 ottobre 2010, all’età di 82 anni. Di lui resta la grande dignità di artista, riconosciuto tale dopo una vita passata a tenere viva la musica e il canto popolare salentino. E di lavoratore infaticabile, legato indissolubilmente alla terra e ai riti della vita contadina, da cui ha tratto le storie che ha cantato, racchiuse in un incredibile repertorio. Ma anche la voce, cresciuta tra le zolle di terra, le foglie di tabacco, l’argilla.

Cantore di Cutrofiano, “principe degli stornelli”, ultimo depositario di quel mondo popolare scandito dal ritmo dei tamburelli e dalle parole di Vorrei volare. Oh quante stelle, oggi Uccio viene ricordato nel suo paese in un festival dedicato alla musica popolare salentina e non solo, “Li Ucci Festival”, in cui risuonano le voci dei cantori che hanno lasciato il segno nel mondo della musica popolare.

 

Una chiacchierata con Uccio Aloisi

L’intervista di Luigi Chiriatti: parte 1;

Parte 2:

Parte 3:

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli