Quando assassinano il nostro paese noi non abbiamo altro letto che quello della morte; ma prima bisogna battersi, battersi, battersi.
Goffredo Mameli
“Era un bel ragazzo – scrivono Maiorino, Marchetti, Giordana – apparteneva a una famiglia agiata, le coetanee gli tenevano gli occhi addosso. Non avrebbe avuto nemmeno tanto bisogno di esporsi, perché le leggi del tempo consentivano, pagando, alle classi ricche di mandare alla chiamata di leva un altro al posto del loro figlio. Goffredo Mameli si avvalse di questa facoltà, ma solo perché la guerra voleva farla di testa propria, gettandosi dove c’era davvero da combattere in prima linea” [Fratelli d’Italia. La vera storia dell’inno di Mameli, Mondadori editore, 2001, p. 14].
Goffredo Mameli, genovese, aveva una visione unitaria del Risorgimento: per lui tutti gli Stati dovevano insorgere per diventare un Paese solo. Così, Fratelli d’Italia, inno ufficiale della Repubblica Italiana, da lui scritto, e musicato da Michele Novaro nel 1847, alla prova dei centosettanta anni appena compiuti, ci ricorda i momenti più emozionanti in cui gli italiani hanno lottato per essere un popolo unito.
Da molti è ritenuta la canzone che riassume tutto il Risorgimento, infatti diverse strofe raccontano eventi significativi di lotta e di ribellione dal giogo straniero. Non tutte, però, risuonano durante le commemorazioni o le manifestazioni ufficiali e nel tempo ne è andata persa la memoria.
Fratelli d’Italia,/l’Italia s’è desta, /dell’elmo di Scipio/s’è cinta la testa./
La prima strofa menziona Scipio, ovvero Scipione l’Africano, il generale romano che nel 202 avanti Cristo sconfisse a Zama (attuale Algeria) il cartaginese Annibale Barca nella seconda guerra punica. Dunque l’Italia, scrive Mameli, che ha rimesso in testa il suo elmo, è tornata a combattere per scacciare un nuovo straniero.
Dov’è la Vittoria?/Le porga la chioma, /che schiava di Roma /Iddio la creò.
La Vittoria contro Cartagine sarà di Roma, cioè dell’Italia. Mameli, poi, rievoca un rituale in uso nell’antica Roma, secondo cui alle schiave venivano tagliati i capelli. La Vittoria, dunque, come una schiava, dovrà porgere la sua chioma perché le venga tagliata: la Vittoria è sottomessa a Roma che sarà appunto vincitrice.
Stringiamoci a coorte, /siam pronti alla morte. /Siam pronti alla morte, /l’Italia chiamò. /Stringiamoci a coorte, /siam pronti alla morte. /Siam pronti alla morte, /l’Italia chiamò, sì!
Mameli incoraggia gli italiani a essere uniti. Lo fa richiamando l’esempio dell’esercito romano diviso in molte coorti, cioè battaglioni. Stringiamoci a coorte significa quindi restiamo uniti fra noi combattenti, pronti a morire per il nostro ideale.
Noi fummo da secoli /calpesti, derisi, /perché non siam popolo, /perché siam divisi. /Raccolgaci un’unica/bandiera, una speme: /di fonderci insieme /già l’ora suonò./Stringiamoci a coorte, /siam pronti alla morte. /Siam pronti alla morte, /l’Italia chiamò, sì!
Negli anni di Goffredo Mameli l’Italia è ancora divisa in molti staterelli. Ma ora è il momento di fondersi, di raggiungere l’unità nazionale.
Uniamoci, uniamoci, /l’unione e l’amore /rivelano ai popoli /le vie del Signore. /Giuriamo far libero /il suolo natio: /uniti, per Dio, /chi vincer ci può?/Stringiamoci a coorte, /siam pronti alla morte. /Siam pronti alla morte, /l’Italia chiamò, sì!
Di nuovo, occorre stringersi. Per volere di Dio, nessuno potrà mai vincere un popolo unito. “Per Dio” è anche una imprecazione, una esclamazione e il giovane Mameli potrebbe aver giocato su questo doppio significato.
Dall’Alpe a Sicilia, /Dovunque è Legnano; /Ogn’uom di Ferruccio /Ha il core e la mano; /I bimbi d’Italia/Si chiaman Balilla; /Il suon d’ogni squilla /I Vespri suonò./Stringiamoci a coorte, /siam pronti alla morte. /Siam pronti alla morte, /l’Italia chiamò, sì!
Strofa chiave, in questi versi Mameli ricorda la battaglia di Legnano del 1176 in cui la Lega Lombarda sconfisse il Barbarossa. Impresa straordinaria messa in musica anche da Giuseppe Verdi nell’opera La battaglia di Legnano (1849), che così fa cantare il coro:
Viva Italia! un sacro patto/Tutti stringe i figli suoi:/Esso alfin di tanti ha fatto /Un sol popolo d’eroi!/Le bandiere in campo spiega, /O Lombarda invitta Lega, /E discorra un gel per l’ossa /Al feroce Barbarossa./Viva Italia forte ed una /Colla spada e col pensier! /Questo suol che a noi fu cuna, /Tomba fia dello stranier!
Poi si nomina l’estrema difesa di Firenze assediata nel 1530 da Carlo V, d’intesa con Clemente VII, per riportare sul trono i Medici. Ogni uomo, dice il testo, è come Francesco Ferrucci, colui che, nel 1530, difese Firenze dall’imperatore Carlo V. Nel terzo episodio risuonano le gesta di un ragazzo genovese, Giovanni Battista Perasso, soprannominato il Balilla. Nel 1746, da un quartiere di Genova, lanciò sassate e divenne il simbolo della rivolta antiaustriaca. Il regime fascista si approprierà poi di questo termine battezzando così tutti i ragazzi fino a quattordici anni inquadrati nel partito di Mussolini.
C’è poi il “suon d’ogni squilla” che è il suono delle campane che la sera del 30 marzo 1282 richiamarono all’insurrezione i palermitani contro i francesi di Carlo d’Angiò. È la rivolta dei Vespri siciliani, fatto rievocato ancora da Giuseppe Verdi nell’omonima opera del 1855.
Son giunchi che piegano /Le spade vendute;/Già l’Aquila d’Austria/Le penne ha perdute./Il sangue d’Italia/ E il sangue Polacco/Bevé col Cosacco,/Ma il cor le bruciò./Stringiamoci a coorte, /siam pronti alla morte. /Siam pronti alla morte, /l’Italia chiamò, sì!
In questa strofa finale si fa riferimento all’Austria, alleata con la Russia (il cosacco), che ha bevuto il sangue polacco, ovvero ha diviso e smembrato la Polonia. Ma quel sangue bevuto avvelena il cuore degli oppressori. Mameli ricorda che italiani e polacchi sono accomunati dalla stessa sofferenza, entrambi popoli appressi, dunque popoli fratelli.
L’inno verrà cantato per la prima volta sulle barricate di Milano e Venezia, nei giorni della Prima guerra d’indipendenza. Cantato sia dai volontari repubblicani che dai soldati regolari dell’esercito sabaudo. Poi si diffonderà come le foglie portate dal vento. In poco tempo Fratelli d’Italia o il Canto degli italiani, come lo chiama il suo autore, lo intonano tutti, nella versione che circola su alcuni foglietti volanti. Data di nascita ufficiale è, però, il 10 dicembre 1847 quando, in occasione del centenario della cacciata degli austro-piemontesi da Genova, il Canto degli italiani viene intonato e presentato così, ai tanti patrioti giunti nel capoluogo ligure per partecipare alla ricorrenza.
Poi risuonerà tra le barricate degli insorti durante le Cinque giornate di Milano (118-23 marzo 1848).
Di Mameli si dirà più avanti. Intanto, chi è l’autore delle musiche? Michele Novaro è un giovane di venticinque anni. Genovese come Mameli ha studiato canto e composizione nella sua città per poi trasferirsi a Torino con un contratto come maestro di cori al teatro È figlio d’arte: suo padre era macchinista al Teatro Carlo Felice, mentre la madre era sorella di un noto pittore scenografo teatrale.
Quando riceve l’incarico di musicare le parole scritte da Mameli, Michele è così ispirato che subito, a casa di amici, si mette al cembalo e tenta di tirare fuori una melodia. Ma quel primo risultato non lo soddisfa, così corre a casa e si mette d’impegno. In poco tempo la musica è pronta. Come è pronto lui a sposare gli ideali risorgimentali e mettere a disposizione della causa la sua professionalità: organizzerà concerti benefici con lo scopo di raccogliere fondi per Giuseppe Garibaldi, partecipando così all’acquisto dei mille fucili necessari per compiere l’impresa. “Fu un patriota con lo spartito, anziché col fucile, ma fece molto per la causa”, scrivono gli autori di Fratelli d’Italia. La vera storia dell’inno di Mameli [p. 22].
Morirà il 21 ottobre 1885, malato e senza un soldo. Saranno i suoi allievi, per riconoscenza, a far erigere il monumento funebre nel cimitero di Staglieno, vicino alla tomba di Giuseppe Mazzini. Arrigo Boito scriverà l’epigrafe: “Artefice di possenti armonie/onde ebbe Italia quel canto /che ridestando nel cuore degli oppressi/la coscienza dell’antico valore/preluse alla riscossa d’un popolo/ e ne accompagnò l’omeriche lotte/dall’Alpi alle terre dei Vespri” [Fratelli d’Italia, p.24].
Quando il canto viene scritto la situazione dell’Italia è estremamente caotica. Dopo il Congresso di Vienna il Paese è diviso tra pochi Stati di grandi dimensioni come il Regno di Sardegna con capitale Torino, il Regno delle due Sicilie, retto a Napoli dai Borbone. Ci sono poi tanti staterelli governati in vario modo: il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, retto da Maria Luigia d’Asburgo-Lorena; il Principato di Massa e Carrara retto da Beatrice d’Este, il Ducato di Modena, Reggio e Mirandola nelle mani di Francesco IV d’Asburgo-Este; il Granducato di Toscana e il Ducato di Lucca governato da Maria Luisa di Borbone. E poi lo Stato della Chiesa con papa Pio IX che ostacola l’unità d’Italia, interessato solo a difendere il potere temporale della Chiesa.
Nel Lombardo Veneto sventola bandiera austriaca. Con l’armistizio di Villafranca, un’intesa firmata tra Austria e Napoleone III alla fine della Seconda guerra d’indipendenza (1859), il Piemonte avrebbe dovuto accontentarsi dell’annessione della Lombardia, senza Mantova e il Veneto che restavano in mano austriaca. Ma i plebisciti e le sollevazioni popolari spingeranno Toscana, Parma, Modena ad annettersi al Regno di Piemonte che cominciava a trasformarsi in Regno d’Italia.
Goffredo Mameli già tempo prima, col suo canto, incoraggiava gli italiani a sollevarsi dalle sorti di popolo diviso e nemico per diventare un’unica voce. Il suo canto, infatti, non smetterà di risuonare.
Ancora nel 1860 alla vigilia della grande impresa garibaldina e dello sbarco al sud, si canta Fratelli d’Italia.
Si racconta che Garibaldi, ospite dell’amico Augusto Vecchi a Villa Spinola, la sera prima dello sbarco cantasse insieme al figlio e ad alcuni amici proprio quell’inno, con voci festose accompagnate da un pianoforte. L’impresa garibaldina si rivelerà poi grandiosa, con le camicie rosse che passeranno da una vittoria all’altra portando alla resa il Regno delle Due Sicilie e costringendo i sovrani borbonici a rinchiudersi prima nella fortezza di Gaeta e poi a fuggire verso Roma chiedendo asilo a Pio IX. Così, con l’annessione del Regno delle Due Sicilie, il processo di unificazione giungeva a buon punto. Restava il Nordest, con le terre irredente del Veneto e lo Stato Pontificio in centro Italia che perdeva parte delle sue legazioni in Emilia Romagna, Umbria e Marche. Ma il 18 settembre 1860 con la battaglia di Castelfidardo tra esercito pontificio e truppe piemontesi, queste ebbero la meglio.
Il nascente Stato italiano, però, ancora era orfano di un inno nazionale ufficiale e riconosciuto. Tanti i canti che celebravano le imprese dei garibaldini o la figura di Giuseppe Garibaldi, che nominavano battaglie, vittorie e sconfitte, ma nessuno di questi era un canto ufficialmente riconosciuto. Ancora esisteva il problema dello Stato monarchico, per esempio, e Vittorio Emanuele II esigeva che l’inno nominasse il sigillo della sua casa dinastica. L’inno di Mameli, invece, era evidentemente di orientamento repubblicano. Così, si pensò di bandire un concorso per compositori, ma troppo costoso, si abbandonò presto l’impresa. Si ripiegò sulla Marcia reale d’ordinanza come inno del Regno d’Italia. Scritta nel 1831 per il Regno di Sardegna da Giuseppe Gabetti con una musica cadenzata e vivace, buona per far muovere le truppe, concepita proprio per le gesta dei soldati.
Evviva il Re! Evviva il Re! Evviva il Re! /Chinate o Reggimenti le Bandiere al nostro Re /La gloria e la fortuna dell’Italia con Lui è /Bei Fanti di Savoia gridate evviva il Re! /Chinate o Reggimenti le Bandiere al nostro Re!/Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!
Il testo era una celebrazione della figura reale, ormai fuori luogo in un’Italia risorgimentale che si avviava ad affrontare un processo di trasformazione complesso e non privo di difficoltà.
Così i patrioti continuarono a intonare canti più spontanei, canti vissuti e sofferti come Fratelli d’Italia che ricordava loro tutto il processo lungo e tormentato dell’affrancamento dallo straniero.
Perfino Giuseppe Verdi, quando sarà chiamato a comporre l’Inno delle Nazioni per l’esposizione Universale di Londra del 1862, nel richiamare i vari inni d’Europa per l’Italia sceglierà Fratelli d’Italia non certo la Marcia reale.
Intanto le sorti d’Italia si complicano al sud con una vera e propria guerriglia scatenata dal brigantaggio che dura per l’intero decennio dal 1861 al 1870, con imboscate e repressioni, morti e feriti. Un numero impressionante di briganti-guerriglieri contro cui viene impiegato un esercito di bersaglieri e carabinieri. Grandi conflitti sorgono in seguito alla decisione di spostare la capitale del Regno d’Italia da Torino a Firenze. C’è infine la Terza guerra d’indipendenza contro l’Austria.
La presa di Roma, il 20 settembre 1870, con l’annessione di Roma al Regno d’Italia è un’occasione per rispolverare il repertorio delle canzoni patriottiche e l’inno di Mameli viene intonato da più parti, da più cori, con l’accompagnamento di ottoni e fanfare dei bersaglieri. In questo ultimo conflitto Goffredo troverà la morte.
Mazzini disse di Mameli che maneggiava con la stessa disinvoltura la lira del poeta e la sciabola del guerriero [Fratelli d’Italia, p.75]. Qualcuno però lo riteneva un “testacalda”, un agitatore spericolato, un invasato da cui prendere le distanze. Un tipo pericoloso, insomma.
I ritratti che ci sono giunti lo rappresentano con baffi e barba da cospiratore che lo fanno apparire più vecchio di quello che era. Nient’altro che un giovane studente, quando comincia a impegnarsi per la causa dell’Italia.
Genova gli dà i natali e non è un dettaglio da poco. Perché Genova è una città in fermento, dove le agitazioni e la voglia di cambiamento sono all’ordine del giorno.
Quando viene al mondo, lo battezzano “Gotifredo” in omaggio a un antenato materno che era stato governatore della Corsica. Trascorre la sua infanzia con i due fratelli e le due sorelle. Queste moriranno precocemente, la più longeva a soli venti anni.
Suo padre Giorgio è di origine cagliaritana. Uomo impavido, entra come ufficiale nella marina mercantile del Regno sardo. È uno che non si tira indietro di fronte al pericolo, partecipa a diverse operazioni brillanti, qualcuno addirittura lo chiama “Ammiraglio”.
La madre di Goffredo, Adelaide Zoagli, è invece, una rampolla di famiglia aristocratica. I suoi antenati furono dogi e consoli di Genova. In casa circolano idee liberali, avverse alla monarchia. Dello stesso parere sono gli ospiti, gli amici che frequentano casa Mameli, da molti definita come uno dei cenacoli del Risorgimento. La stessa Adelaide pare che in gioventù avesse conosciuto Mazzini. Sarà proprio lui, tempo dopo, a scriverle per consolarla della morte del figlio. Lei aveva risposto che avrebbe dato senza esitare “tutti i figli che avrebbe potuto avere per la causa dell’Italia” [Fratelli d’Italia, p. 78].
Goffredo studia alla scuola Calasanzio e prosegue all’Istituto dei padri scolopi. Progressisti, da loro si leggono testi di Schiller, Byron, Goethe banditi in altri istituti con indirizzo cattolico.
Negli studi si rivela preparato e diligente, non altrettanto nella disciplina, risultando spesso irrequieto. Più volte viene ripreso e dopo diverbi con alunni e docenti incappa in provvedimenti disciplinari. A diciassette anni, quando è già seriamente appassionato alla causa patriottica, prende la decisione di arruolarsi in marina, ma riceve un rifiuto.
Si iscrive all’università con obiettivo di laurearsi in filosofia. E intanto scrive inni, poesie, rime. La passione per l’attività letteraria gli fa perdere di vista anche gli studi. Scrive componimenti come La battaglia di Marengo, La buona novella, Gli apostoli, Dante e l’Italia, Ai fratelli Bandiera.
Entra a far parte della società Entelema in cui si discute di poesia, ma la presenza di molti discepoli mazziniani tra cui Nino Bixio, fa sì che presto gli argomenti virino verso la politica. Così, intorno a Goffredo si costruisce l’immagine del fomentatore, dell’agitatore di sommosse di piazza.
Il 18 marzo 1848 c’è l’insurrezione di Milano contro gli austriaci. Goffredo accorre guidando una schiera di trecento uomini, suo luogotenente è Nino Bixio. Si assomigliano, stessa carica rivoluzionaria, stesso ardore per l’avventura, stesso carattere irruento e focoso. Sono combattenti volontari che affiancano l’esercito ufficiale e agiscono con mezzi di fortuna, oltre che con passione e tenacia. Mameli aveva infatti rinunciato alla chiamata alle armi nell’esercito ufficiale, secondo una legge che permetteva alle famiglie ricche di poter evitare ai loro figli la tragedia della guerra. Così al suo posto, nel reggimento di fanteria della brigata Savona, era andato un altro giovane. Lui aveva fatto la sua scelta: avrebbe combattuto la guerra a modo suo.
A Milano incontra per la prima volta Mazzini, ma è deluso per le incertezze nella gestione delle strategie militari.
Un felice incontro con Giuseppe Garibaldi, poco dopo, lo incoraggia, invece, a continuare nella sua missione di liberazione dell’Italia. L’eroe dei due mondi è appena rientrato dall’America per mettersi a disposizione di Carlo Alberto e procedere alla volta del sud Italia. Goffredo resta colpito e ammirato dal carisma di Garibaldi. Lo seguirà in Toscana, a Faenza, Rimini. Poi accetterà di far parte di un nuovo corpo di volontari da poco creato, pronti all’imminente chiamata della patria.
Roma era l’obiettivo. Il suo ricongiungimento all’Italia era un tassello fondamentale verso l’unità nazionale.
Verso la fine del 1848 la città è sconvolta da moti libertari, rivolte, scontri politici con il papa che non ha nessuna intenzione di sminuire la sua autorità a semplice potere spirituale. Ma tumulti e assalti al Quirinale convincono Pio IX a risolvere per una fuga presso Gaeta, ospite dei Borbone. E così a Roma comincia l’esaltante esperienza della Repubblica romana, affidata a un triumvirato di cui fa parte lo stesso Mazzini. Mameli si precipita a Roma con Nino Bixio. Il sogno desiderato e cantato in Fratelli d’Italia di un’Italia unita sembra concretizzarsi e Goffredo non sta più nella pelle. Ma mentre Goffredo giunge nell’Urbe, Pio IX, dal suo rifugio, prepara una violenta riscossa: l’invio delle truppe napoletane messe a disposizione dai Borbone.
Così si combatte corpo a corpo, all’arma bianca, spada e sciabola, baionette. Goffredo perde il cavallo e una notte gli rubano il mantello. È febbricitante e debilitato, dorme poco, si riempie di freddo e umidità. Nino Bixio, che lo va a trovare poco dopo, lo trova in pessime condizioni: “Era appena capace di tenersi in piedi – racconta – ma voleva trovarsi al posto che in quello stato non doveva esser suo. A me che lo supplicavo piangente di rimanersi almeno a letto per quella mattina, rispondeva: mi parli sempre di me; quando assassinano il nostro paese noi non abbiamo altro letto che quello della morte; ma prima bisogna battersi, battersi, battersi” [Fratelli d’Italia, p. 91].
Quel giorno Goffredo rimane ferito mentre vuole introdursi nella villa Corsini sul Gianicolo. Chi dice che sia stato raggiunto da una pallottola amica, chi dalla baionetta di un suo bersagliere poco pratico dell’arma, in ogni modo viene colpito. Sembra però una ferita di poco conto e nessuno se ne preoccupa. Al termine di quella battaglia Goffredo saluta Garibaldi, è stata una vittoria: i francesi hanno abbandonato Villa Corsini e loro, soddisfatti, si stringono le mani. Non si vedranno più.
Goffredo viene portato all’ospedale della Trinità dei Pellegrini per una veloce medicazione. Ma in breve tempo si capisce che è in atto un processo di cancrena. Lui deve intuire che qualcosa di grave gli sta per accadere, infatti scrive una delle poesie più tristi e sfiduciate: “Come l’astro morente arde e balena/ ferve l’anima mia rinvigorita/ nel bacio della morte./Addio, per sempre addio/, sogni d’amor di gloria/. Addio mio sul natio./Addio diletta all’anima/del giovane cantor” [Fratelli d’Italia, p. 92]. All’ospedale una donna, la giovane Adele, va a trovarlo e si prende cura di lui. Non è la sola, c’è anche un’amica, la principessa Cristina di Belgioioso. Sono loro, a rinfrancare l’anima di Goffredo.
Ma non c’è più nulla da fare, poco dopo la situazione precipita e si deve intervenire amputando la gamba. I medici cercano di convincere Goffredo ad affrontare l’intervento, gli si dice che la gamba sarà tagliata al di sotto del ginocchio. Lui non ha nessuna intenzione di rinunciare a montare a cavallo per continuare a combattere.
Invece la gamba sarà amputata ben al di sopra. Neanche questo basterà a salvarlo. La sua agonia coincide con la fine della Repubblica romana. La città viene riconquistata dai francesi che riportano Pio IX, mentre Mazzini se ne fugge in tutta fretta. Goffredo trascorre notti strazianti di dolore e tormento. Muore in quel letto d’ospedale all’età di ventidue anni.
Il suo corpo sarà più volte sepolto ed esumato. Le sue spoglie oggi sono conservate al Gianicolo all’interno di un mausoleo che riunisce i corpi dei caduti per la difesa della città. Nell’occasione della celebrazione di quest’opera monumentale, il 3 novembre 1941, risuonò l’inno da lui scritto.
Cosa ne era stato, poi, del Canto degli italiani?
Venticinque anni dopo la presa di Roma, il 20 settembre 1895, durante la cerimonia della ricorrenza, Fratelli d’Italia venne intonato riscuotendo grande popolarità. Certo, sul finire del secolo si erano diffusi nuovi canti, ispirati alle diverse situazioni politiche e urgenze che l’Italia doveva affrontare: c’era l’Inno dei lavoratori di Filippo Turati, i canti ispirati all’Internazionale francese, le canzoni anarchiche nate dalle iniziative di Pietro Gori, canti come Addio Lugano. Ma il Canto degli Italiani continuava a mantenere grande notorietà. La canzone patriottica avrà grande eco anche successivamente. Fratelli d’Italia sarà in prima linea durante i conflitti della Grande guerra e le parole di Mameli risuoneranno ovunque: negli ospedali miliari, nelle trincee, nelle stazioni, dei centri di arruolamento. Arturo Toscanini lo eseguirà in una grande manifestazione interventista, il 25 luglio 1915.
Durante il fascismo un canto come Fratelli d’Italia venne dal principio tollerato, ma poco dopo alcune disposizioni diramate dal segretario del Partito Fascista Achille Starace, non lasciavano dubbi sul divieto di esecuzione: “Vieto in modo assoluto – si leggeva – che si cantino canzoni o ritornelli che non siano quelli della Rivoluzione o che contengano riferimenti a chiunque non sia il DUCE” [Fratelli d’Italia, p. 65]. La Rivoluzione naturalmente era quella fascista. Così nella gran parte delle manifestazioni durante il fascismo Fratelli d’Italia verrà bandito, mentre spesso verrà eseguito all’estero dove il canto diventerà il simbolo di opposizione alla dittatura [Fratelli d’Italia, p. 65].
Così bisognerà aspettare l’armistizio dell’8 settembre 1943 per veder tornare in auge i canti patriottici e risorgimentali con Fratelli d’Italia in testa. Radio Londra, Radio Bari, Radio Firenze non esitarono a rilanciare le note e le parole dell’inno che tanta storia aveva ormai sulle spalle: guerre d’indipendenza, spedizione dei Mille, l’impresa libica, la Grande guerra e ora il secondo conflitto mondiale. Una storia che, infatti, sarà ricordata alla fine della guerra. A Londra il maestro Arturo Toscanini con l’Orchestra della NBC eseguiva L’Inno delle Nazioni di Giuseppe Verdi, facendo vibrare con orgoglio la sua bacchetta al tempo di Fratelli d’Italia.
Ancora, però, il canto non era ufficialmente inno nazionale. Con Vittorio Emanuele III e suo figlio Umberto II in trono, la monarchia era ancora presente. Il referendum del 2 giugno 1946 ne avrebbe sancito la fine.
Il Canto degli italiani diventerà inno nazionale in seguito alla decisione del Consiglio dei ministri del 14 ottobre 1946. Scelta non scontata, poiché tra le proposte figuravano il Va’ pensiero dal Nabucco di Verdi, canto di liberazione di un popolo oppresso
e La leggenda del Piave che venne usato per alcuni tempi dopo l’armistizio del 1943.
II Piave mormorava/calmo a placido al passaggio/dei primi fanti, il ventiquattro maggio:/l’esercito marciava/per raggiunger la frontiera,/per far contro il nemico una barriera
Così, all’elezione del primo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, risuonarono le note dell’inno ufficiale.
Da quel momento entrerà in vigore anche un cerimoniale che regolamenta i comportamenti dei militari durante le esecuzioni dell’inno. I reparti, per esempio, devono restare fermi presentando le armi. I comandanti e gli ufficiali non schierati, invece, assumono la posizione di attenti, offrendo il proprio saluto. I civili che intendono manifestare la propria partecipazione all’inno possono ascoltarlo portando la mano al cuore [Cfr. Fratelli d’Italia, p. 73].
Oggi l’inno risuona ovunque: nelle scuole, nelle piazze, nei teatri, negli stadi. Difficilmente viene eseguito per intero, ma solo la prima strofa.
Come nel 2000, nell’esecuzione di Riccardo Muti alla Scala che, per omaggiare la presenza dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, chiese a tutto il pubblico di cantare.
La canta Emma Marrone con tutto lo Stadio Olimpico a Roma per la finale di Coppa Italia nel 2011
Roberto Benigni ne dà la sua esegesi:
La canta Mario del Monaco a ricordarci le affinità di questo inno con le contemporanee arie d’opera.
Recentemente lo ha intonato Loretta Grace, cantante e attrice afroamericana, ma nata e cresciuta in Italia, portavoce di una campagna a favore della legge sullo ius soli. Così, l’inno di Mameli è tornato a far riflettere sull’importanza di un popolo unito davanti alle nuove sfide, ai tanti cambiamenti sociali a culturali che il Paese, di epoca in epoca, è chiamato ad affrontare.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato giovedì 21 Dicembre 2017
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/fratelli-ditalia/