“Di nuovo oggi, su treni fuori orario, o bici da montagna, mondariso emancipate, migrano la mattina presto, e colmano i luoghi di convergenza: agenzie di turismo, filiali di banche, assicurative, postelegrafoniche IVA ACI INPS.
Dattilografe vellutate e respingenti, le maniche arrotolate, i volti cotti dal sole ultravioletto, si immergono fino alla cintola nelle nuove paludi loro assegnate, per riemergerne soltanto al tramonto.
Sotto maschere di fondotinta, dopobarba, antirughe, eyeliner si rivelano residui di sofferenze arcaiche e patimenti. Artriti croniche, reumi endemici. Casalinghe, metallari, sportivi, lavoratori, non-garantiti: Giovanna Daffini, l’amata genitrice canta ai rovinati dell’oggi come a quelli di ieri. Voce e chitarra, mille volte più potenti del brusio di mille ruspe (automobili)(televisori).
Canzoni che affratellano e consolano, e liberano memorie. Questa non è musica per parassiti. Che, anzi ne proveran vergogna.” (Dalle note all’ LP L’amata genitrice: Giovanna Daffini, edizioni I Dischi del Mulo, 1991)
La forza della storia di Giovanna Daffini non è solo nel fatto di essere partita dal niente, dalle esibizioni nelle feste di paese o nelle osterie imbracciando la chitarra e il piattino per le monete in mano. O dai canti mondini imparati mentre ripuliva il riso dalle erbacce nelle risaie del Vercellese. Né per essere riuscita a salire su palcoscenici prestigiosi in Italia e all’estero, a cantare davanti a un pubblico colto. La forza sta nel fatto che su quel palcoscenico Giovanna ci ha portato il suo mondo: popolare, contadino, di lavoro e fatica. Con le parole, le musiche, la vocalità. Ha portato se stessa, le umili origini, la voce diversa. Il timbro aspro e corrosivo. La sua lotta: di donna, di lavoratrice, di emarginata. Che ha ragione ancora oggi.
Incoscienza o sfrontatezza? Tanta dignità.
Le vicende biografiche dicono di un’esistenza vissuta nella miseria, nella fatica di mestieri disumani, nell’età ancora dei giochi. Per questo c’è chi l’ha definita “diva delle risaie”. Perché trascorse anni e anni nelle risaie della Lomellina e del Piemonte, come molte, ancora bambine, che cercavano di portare a casa due lire. Ma soprattutto per l’impronta che ricevette la sua voce da quell’esperienza. Le mondine erano una comunità di donne, soprattutto, che nel canto collettivo esprimevano la loro voglia di riscossa e di rivalsa. “Giovanna Daffini – scrive Luigi Cinque nel libro Kunsertu sulla musica popolare in Italia – aveva un modo preciso di cantare con quella particolare impostazione della voce propria delle mondine, e anche quando cantava canzoni estranee e lontane dalla risaia […], le eseguiva in quella maniera aggressiva e vittoriosa che ne faceva qualcosa di diverso da canzonette di musica leggera”.
Giovanna con quella voce e il suo modo di porla ha insegnato che c’era un’altra strada, oltre a quella consueta, del canto impostato, costruito per la musica leggera o per l’aria d’opera. Una voce “diversa”, l’ha definita Marcello Conati. “Pungente, penetrante, desinata ad arrivare lontano” (Andrea Talmelli). Che è stato anche un modo diverso di essere donna: coraggiosa e fiera, nonostante tutto.
Nata a Villa Savoia, frazione di Motteggiana in provincia di Mantova il 22 aprile 1914 comincia a lavorare nelle risaie della zona Vercellese-Novarese-Pavese già dal 1927, a tredici anni. Da allora tutti gli anni per stagioni di quaranta giorni per la monda di inizio estate e per il taglio e la trebbiatura del riso ad inizio autunno. Fino al 1952. Una vita.
Ma Giovanna è anche figlia d’arte: il padre suona il violino come accompagnatore di film muti. Con la sincronizzazione, però, questo mestiere scompare, e a lui non resta che fare il violinista ambulante. La mamma, sarta, la sera canta per farla addormentare: è da lei che Giovanna imparerà le strofe di alcune canzoni. La musica non è un’estranea in casa Daffini e ben presto anche Giovanna impara a strimpellare la chitarra e a cantare. Si esibisce la prima volta nel 1931-32 in un pranzo per amici accompagnando il padre che da quel momento se la porterà sempre con sé.
Il contesto in cui cresce è quello della campagna padana, il mondo rurale con la sua ricca tradizione di musica da ballo, il liscio che si sostituisce ai balli saltati. E poi il folclore dei complessi strumentali come le bande e le feste paesane di Gualtieri dove, nel 1936, dopo il matrimonio con Vittorio Carpi, si trasferisce con la famiglia. Il paese del pittore Ligabue ha una fitta tradizione di feste di paese. Si partecipa tutti, si suona, si balla e si canta.
Lì vicino, poi, c’è Santa Vittoria, sulla strada che da Reggio Emilia porta a Gualtieri, l’unica zona della provincia di Reggio Emilia in cui il latifondo è ancora presente e impegna un gran numero di braccianti. Questi, nei mesi invernali, restano senza lavoro. Ecco, allora, che si organizzano feste da ballo con le musiche della banda locale o dei musicisti ambulanti che, soprattutto, suonano il violino. La tradizione dei violini di Santa Vittoria discende fin dall’Ottocento. Poi, dopo l’unità d’Italia è tutto un proliferare di orchestre e orchestrine che portano nelle campagne valzer, polke e mazurke. Santa Vittoria diventa la capitale dei violini. Chi vuole organizzare una festa deve andare a Santa Vittoria. Tra le famiglie che più contribuiscono alla diffusione di questo strumento c’è quella dei Carpi. Sulla casa di famiglia è dipinto un grande violino così chi arriva e vuole organizzare una festa sa dove dirigersi. Da questo mondo proviene Vittorio.
Vittorio in questa storia recita una parte secondaria, probabilmente anche malvolentieri. È Giovanna la protagonista, la sua voce, il suo canto, la sua personalità. Lei che non è nemmeno musicista professionista, ma una profana, come lei si definisce. Invece lui ha antiche tradizioni familiari alle spalle, tutti in famiglia conoscono la musica, da generazioni e generazioni sono musicisti certificati. Eppure, nessun attestato vale quanto la forza dell’originalità, dell’unicità di una voce come quella di Giovanna.
Si incontrano nel 1933. Vittorio, insieme al padre Giovanni e alle sorelle, fa parte di un complessino, il “concerto Carpi” che si esibisce perfino in Francia in estate, nei cafè concerto. Quando Giovanna lo sposa i due si trasferiscono a Gualtieri. Solo qui lei scopre che la nuova famiglia è composta oltre che dal figlio di lei, dai quattro di lui. Non due come Vittorio le ha raccontato. Mentendo, perché Giovanna non si spaventi. Invece Giovanna non tentenna neanche un po’ e tira su quei bambini tutti come figli suoi. Vittorio suona in orchestre sinfoniche per concerti, opere liriche, balletti. Ma questo non basta a mantenere la famiglia e allora la coppia diventa un duo, che suona nelle osterie, nelle feste di piazza, ai matrimoni un repertorio d’intrattenimento: l’Ave Maria di Schubert, Fischia il vento, Io tu e le rose, la Vedova allegra di Lehar. Nelle osterie girano con un piattino e non è raro che Giovanna si infili un pollo in tasca da portare ai bambini per cena.
Cesare Bermani rivela che Vittorio, benché ritenesse necessaria l’attività musicale di Giovanna per il sostentamento della famiglia, di lei non avesse una buona opinione in qualità di musicista. Considera se stesso quale autentico musicista professionista e la moglie, invece, qualitativamente inferiore e mediocre. Lui ci tiene così tanto alla qualifica professionale che in età avanzata si iscrive al Conservatorio per diplomarsi. Da quel momento bisognerà chiamarlo professore. Giovanna, invece?
“Le canzoni mi piacciono tutte purché le senta; […] che me la senta proprio di cantare, allora …butto fuori il meglio di me stessa, ecco. Altrimenti sono proprio l’ironia. […] Quello che faccio lo sento nell’orecchio, e cerco di fare il meglio di me stessa” (Conversazione con Cesare Bermani in Giovanna Daffini. Amore mio non piangere, Edizioni Bella Ciao).
Giovanna ha un approccio istintivo, diretto. Senza studio o formazione accademica, se una cosa la sente, la canta. Ma lei è così di carattere, estroversa, amichevole e a Gualtieri è ben integrata, ben voluta. A differenza di Vittorio, schivo, “bastian contrario” rispetto alle tradizioni e alla cultura del paese, finisce spesso isolato, risultando a molti superiore e superbo.
Nel 1962 i “signori di Milano”, Gianni Bosio e Roberto Leydi, fondatori di quel grande movimento di riscoperta del canto popolare che è il Nuovo Canzoniere Italiano, la incontrano nella sua abitazione, alcuni locali, ex aule scolastiche concesse dal Comune in Palazzo Bentivoglio a Gualtieri. Un edificio in rovina “dove i gatti facevano fatica a salire le scale e la notte, null’altro si udiva che la stridula voce dei pipistrelli” dice l’allora sindaco Serafino Prati. Ci abita con Vittorio in uno stato di nullatenenti. I figli già grandi se ne sono andati, hanno un lavoro, tutti sono riusciti a prendere la licenza media. Lei canterà Amore mio non piangere e Bella ciao e loro le proporranno di incidere dei dischi. Da quel momento comincia la sua avventura con il Nuovo Canzoniere Italiano, dove Giovanna avrà un ruolo fondamentale. Cesare Bermani conta la sua presenza in ben 273 spettacoli dei 569 tra il 1963 e il 1969, quasi la metà di quelli portati in giro. E poi, con lei si concretizza davvero l’incontro tra il movimento e il mondo popolare, contadino, proletario che lei incarna. Lei è la testimone-interprete di un repertorio di canti da risaia e di canti di lavoro riscoperti, ma rielaborati in maniera del tutto personale, ricontestualizzati e, così, resi celebri. Diversi, infatti, saranno presi a prestito anche da Milva, da Gigliola Cinquetti, da Anna Identici, dal Duo di Piàdena.
Nel Nuovo Canzoniere Italiano la rotta è segnata: cantare canzoni che siano al di fuori di schemi prestabiliti e che mettano al centro la cultura del mondo popolare in modo critico, come possibilità di cambiamento sociale, non come mera trasposizione di stili e linguaggi. Giovanna di tutto questo forse non sa, ma quando canta, la sua è una scelta musicale consapevole ogni volta, non è un canto improvvisato. Infatti, insiste e corregge le altre cantanti come Giovanna Marini quando sbagliano, quando non si soffermano sui melismi, come invece è importante che sia. E una professionista, che conosce lo strumento e la tecnica per suonarlo al meglio, con un potente vibrato e un timbro penetrante.
“Il suo serio professionismo – scrive, infatti, Cesare Bermani – Giovanna lo derivava dalla vita che aveva fatto, di cui il suo repertorio, il suo modo di cantarlo, la sua voce, il suo modo d’essere fisico – il sorriso largo e le rughe di sole agli occhi, le vene varicose, la camicia senza maniche e la gonna a fiori stampata, la sua grande vitalità – avevano già segno e valore di una scelta, dicevano da che parte della società stava”.
Il canto e la voce come specchi che riflettono una vita.
È sempre lei che coinvolge il marito in questa avventura, e lui accetta pur controvoglia: “Vittorio – scrive Bermani – doveva giudicare la nostra attività come un mondo alla rovescia, dove il professore era derubricato a fare da spalla a una che non era una vera musicista. A differenza di Giovanna, Vittorio Carpi rigettava violentemente quella tematica che Gianni Bosio avrebbe nel 1966 definito come dell’«intellettuale rovesciato»”.
Non lo prendono molto in considerazione il marito, al Nuovo Canzoniere Italiano, “perché quella che ci interessava – dice Sandra Mantovani – era lei, la straordinaria cantante era lei, la personalità era lei”. Una volta è proprio Giovanna a chiedere loro di trattarlo come trattano lei, con lo stesso rispetto e considerazione. Di ritenerlo, insomma, al suo livello. Certo lui non può che essere orgoglioso e fiero del consenso di cui gode la moglie, ma in fondo deve anche un po’ dispiacersi: lui, il vero musicista, in questa realtà rovesciata, non è nient’altro che serie B.
Lei dunque è la prima donna. Lei e la sua voce. Si riconoscono influenze diverse nel suo canto: lo stile padano popolare, ma anche quello della musica leggera degli anni Cinquanta (la sua ambizione era di cantare come Tonina Torrielli che a differenza di Nilla Pizza aveva uno stile un po’ più immediato e meno costruito), qualche reminiscenza lirica, il tutto reso straordinario da una personalità forte e decisa.
Ma la descrizione di Giovanna Marini, della voce di Giovanna, vale più di tante spiegazioni. “Quando va in testa – dice – è come se ci fosse un semaforo rosso che si accende di colpo e le schiaccia tutti gli acuti, glieli butta un po’ indietro e vengono queste «a» straordinarie, con questo vibrato che sembra lei applichi come con le chitarre elettriche si mette il pedale, tutto a un tratto. […]. Una libertà, che poi era una libertà signorile”.
Resta colpita la Marini, si sorprende e si meraviglia, la prima volta che la ascolta. Perché la Daffini è completamente al di fuori del mondo musicale da dove lei proviene, quello del Conservatorio, dell’impostazione classica. Non ha mai sentito una voce così, libera e fuori dagli schemi. Sarà il suo modello.
Anche Marcello Conati la ricorda come una delle voci più autentiche di quegli anni, anni in cui stava per esplodere il Sessantotto, anni delle lotte operaie e studentesche, anni in cui si poteva pensare che anche con il canto, e soprattutto con il canto popolare, si potesse fare la rivoluzione. Perché era la voce dal basso, era un rivoltare la società, i suoi schemi precostituiti, le sue convinzioni. Così la Daffini era “voce salda – scrive Conati – sicura, prorompente, perentoria, espressione sonora diretta e spontanea di una cultura altra, antagonista, non omologabile dalle classi dominanti”. Voce di protesta, di contestazione, perché vera, naturale, non artefatta. Voce eloquente, che crede in quello che dice. “Sentendola cantare la potevi immaginare alla testa di un corteo in marcia, decisa, proterva, come in certi quadri che raffigurano la protesta dei lavoratori”.
Tra i suoi brani più celebri resta la versione mondina di Bella ciao. Poco importa se per lungo tempo si credette che la canzone partigiana risalisse da un canto protestatario diffuso tra le mondine in pieno periodo fascista, come aveva raccontato la Daffini, che ricordava di averla cantata in risaia, prima nel 1932 e poi nel 1940, comunque prima della Resistenza. Si scoprì, invece che quella versione l’aveva scritta nel ’51 il bracciante e mondino, ma anche autore e cantore, Vasco Scansani per la festa della mondina nel paese di San Germano Vercellese. Ma per un po’ si mise tutto a tacere e quel pezzo andò in scena nel ’64 al festival dei Due Mondi di Spoleto nello spettacolo intitolato proprio Bella ciao, firmato da Filippo Crivelli, Franco Fortini e Roberto Leydi. In apertura e in chiusura le due versioni, quella partigiana e quella mondina. Nel ’65 si registrerà anche il disco e lo spettacolo andrà in tournée in tutta Italia. Allora, venne anche fuori che diverse delle canzoni del repertorio da mondina della Daffini gliele aveva ricordate proprio Scansani. Parte di quel repertorio doveva proprio averlo rimosso, le portava alla memoria un momento troppo duro della sua vita. La questione si risolse nel maggio ’66 in occasione dello spettacolo Altri vent’anni quando si ritenne di raccontare la verità sulla Bella ciao cantata dalla Daffini.
A Scansani andò il merito di averla scritta, alla Daffini venne riconosciuto il valore di aver interpretato il pezzo dandogli una forma e una voce.
Da quel momento lei si metterà d’impegno a ripescare canti appresi negli anni dei concerti con il padre, negli anni di lavoro nelle risaie, a sollecitare amici, conoscenti, ex mondine a dettarle i canti che ricordavano, i testi e le musiche.
Oltre a Bella ciao, parteciperà a spettacoli diventati celebri come Ci ragiono e canto del 1966, con la regia di Dario Fo, Pietà l’è morta, del 1964, di argomento resistenziale con il Nuovo Canzoniere Italiano.
Il suo primo LP Una voce e un paese, pubblicato dai Dischi del Sole nel 1967 con il marito al violino, contiene canzonette di successo o del repertorio popolare e altre più ricercate e sperimentali nelle quali la Daffini non ha esitato a cimentarsi. Brani come Questa è una storia, parole e musica di Ivan della Mea:
Certo il racconto non è perfetto
L’abbiam sentito per una sera
ma non è storia di nessun libro
è un’altra storia, è tutta vera.
O come La morte di Anita Garibaldi, musica di Sergio Liberovici e parole di Massimo Dursi, che si trova in Ogni giorno tutti i giorni. 13 canzoni di Sergio Liberovici, poi inserito in Amore mio non piangere, Lp del 1975. Canzone composta nel 1963, è dedicata ad Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, meglio conosciuta come Anita Garibaldi rivoluzionaria brasiliana, moglie di Giuseppe Garibaldi, nota anche come l’Eroina dei Due Mondi. Si racconta della sua morte, avvenuta il 4 agosto 1849, a 28 anni, incinta del quinto figlio. Ciò avviene a Mandriole di Ravenna, nel delta del Po, dove con il marito e il fedelissimo Leggero, cerca riparo, durante la fuga da Roma verso Venezia. Garibaldi piange stringendo la mano di lei e non vuole abbandonarla. “Generale, dovete farlo. Per i vostri figli, per l’Italia…” gli sussurra Leggero. Così, il corpo senza vita di Anita viene frettolosamente sepolto nella sabbia. Sei giorni più tardi, il 10 agosto 1849, la salma verrà casualmente scoperta e trasportata al cimitero di Mandriole.
È morta Anita all’Ave Maria
quando la rondine scende dal cielo.
Il Generale la bacia e piange. Deve lasciarla.
Deve salvarsi, per riportarci la libertà.
Nello stesso LP c’è anche Donna lombarda di Gualtieri, rielaborazione di una delle ballate italiane più antiche, tramandate in un’infinità di varianti regionali. Narra la storia di una giovane moglie che, pungolata dall’amante, progetta di avvelenare il marito. Ma un neonato miracolosamente comincia a parlare e rivela l’intrigo. In questa canzone “La sua voce è senza affetto – scriveva Gustavo Marchesi critico musicale de La Gazzetta di Parma, in un articolo del 1973 – […]. Se trema in punta è quasi per uno scatto di rabbia, che non potendo essere tale diventa quasi il modo di riderci su”. Una sorta di brechtiano straniamento.
Tu marito fallo morire,
t’insegnerò come devi far
vai nell’orto del tuo buon padre
taglia la testa d’ un serpentin
prima la tagli e poi la schiacci
e poi la metti dentro nel vin
ritorna a casa il marì dai campi
donna lombarda o che gran set
bevilo bianco bevilo nero bevilo pure come vuoi tu
cos’è ’sto vino così giallino, sarà l’avanzo di ieri ser
ma un bambino di pochi anni sta nella culla e vuole parlar
o caro padre non ber quel vino donna lombarda l’ avvelenò
bevilo tu o donna lombarda, tu lo berrai e poi morirai
e per l’amore del re di Spagna io lo berrò e poi morirò
la prima goccia che lei beveva lei malediva il suo bambin
seconda goccia che lei beveva lei malediva suo marì
Come non ricordare la versione riarrangiata di Francesco De Gregori e Giovanna Marini nell’album Il fischio del vapore del 2002?
Tra i canti del repertorio mondino, celebre il suo intervento in La Lega, canto popolarissimo nato, secondo Giuseppe Vettori, tra il 1900 e il 1914 nella valle padana e poi entrato stabilmente nel repertorio delle mondine. Tra le prime canzoni di lotta proletaria al femminile per quel “paura non abbiamo” che è il segno di una tenace volontà di rivalsa: donne e lavoratrici non intendono cedere e pretendono di avere il giusto compenso: “e voialtri signoroni che ci avete tanto orgoglio abbassate la superbia e aprite il portafoglio”. Solista è Sandra Mantovani, ma l’intervento di Giovanna è determinante a dare forza e trascinare il coro, una seconda voce probabilmente risalita a galla dalle esperienze corali che aveva fatto durante la sua vita.
Anche in Sciur padrun da li béli braghi bianchi, la richiesta è la stessa, come anche l’intensità:
Sciur padrun da li béli braghi bianchi, fora li palanchi, fora li palanchi,
sciur padrun da li béli braghi bianchi, fora li palanchi ch’anduma a cà.
Tu Venezia, altra canzone mutuata dal repertorio delle mondine, su una melodia da aria verdiana, canta dell’insurrezione del popolo veneziano contro l’impero austriaco (1848-49), poi sedata nel sangue. In alcune versioni compare la strofa inserita poi in O Gorizia, tu sei maledetta, causa di celebri scandali nei teatri in cui venne eseguita:
Traditori signori ufficiali
e voi la guerra l’avete voluta
scannatori di carne venduta
e voi rovina della gioventù
E la più delicata Amore mio non piangere, canzone sulla vita in risaia, gli amori che si lasciano e il ritorno a casa, bambine, dalla mamma.
O Ama chi ti ama, meglio conosciuta come La smortina canzone sullo sfruttamento e la fatica del lavoro in risaia.
Io son nata risaiola,
Risaiola di Reggio Emilia,
Ho lasciato la mia famiglia
Per venire a lavorar.
Per venire a lavorare
Ho lasciato la mia casa,
Quaranta giorni dovrò restare
Sempre curva sul lavor.
Ama chi ti ama,
Non amare chi ti vuol male,
Specialmente il caporale
E i padroni che sfruttano te.
In repertorio ci sono anche canzoni di vendemmia come la popolare L’uva fogarina.
Ma soprattutto Giovanna dà voce a canti politici e di protesta: Le ultime ore e la decapitazione di Sante Caserio narra la vicenda dell’anarchico italiano che assassinò, nel 1894, il presidente della Repubblica francese Marie François Sadi Carnot, per vendicare l’esecuzione dell’anarchico Auguste Vaillant. La canzone racconta della sua condanna alla ghigliottina e il dolore della madre, “amata genitrice”. Numerosi sono i canti anarchici ispirati alla memoria di Sante Caserio, tra questi quello interpretato dalla Daffini.
Sacco e Vanzetti, è un’altra canzone celebre nel repertorio del canto anarchico e di protesta. L’uno operaio e l’altro pescivendolo, i due anarchici italiani sono arrestati, processati e giustiziati sulla sedia elettrica il 23 agosto 1923 negli Stati Uniti, accusati dell’omicidio di un contabile e di una guardia del calzaturificio “Slater and Morrill” di South Braintree, nonostante i molti dubbi sulla loro colpevolezza. Solo a cinquant’anni dalla loro morte verranno scagionati e la loro memoria riabilitata. La versione della Daffini dialoga magnificamente con il violino di Vittorio Carpi.
In Vi ricordate quel diciotto aprile? canzone sulla sconfitta del Fronte popolare alle elezioni del 1948 e la vittoria della Democrazia Cristiana, la voce di Giovanna raggiunge tonalità altissime nella versione registrata in Ci ragiono e canto,
come anche in Stornelli d’esilio, altro canto anarchico con il testo di Pietro Gori, dove l’uso del falsetto nel ritornello dà ampiezza e risalto alla melodia.
Giovanna Daffini muore il 7 luglio 1969. Gualtieri ogni anno la celebra con un concorso canoro e un convegno dedicato al ricordo di un’interprete e di una donna che è diventata un esempio della lotta per l’emancipazione femminile. L’«amata genitrice», inoltre, rivive nel lavoro di divulgazione condotto dall’Archivio Nazionale “Giovanna Daffini” a Motteggiana, Mantova. La manifestazione “Il Giorno di Giovanna”, che si svolge ogni anno a Villa Saviola, premia i migliori testi inediti di cantastorie.
Perché Giovanna è stata esempio e modello per molti autori, cantautrici, cantastorie, ha generato eredi e figlie. Lei, mondina, donna del popolo, ha cantato la miseria, la guerra, l’emarginazione, il lavoro, la rivincita e la speranza. Lei, e la sfida di una vocalità contadina e popolare nell’alveo della cultura musicale alta. Lei, disinvolta cantastorie, spietata e sfrontata, eroica nella sua battaglia femminista e dalla parte dei più deboli. Ha infranto schemi, modelli, tecniche, stili. Lei, la voce di tutte.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato giovedì 8 Settembre 2016
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