Canterò le mie canzoni per la strada
e affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
A muso duro, Pierangelo Bertoli
Cantautore fino al midollo, Pierangelo Bertoli non ha mai smesso di raccontare e denunciare con parole crude e veritiere la realtà sociale che aveva davanti agli occhi, anche nel momento in cui “la ritirata dall’impegno di massa è stata pressoché collettiva”, come scrive Mario Bonanno nel saggio Rosso è il colore dell’amore. Ha tenuto fede a se stesso, soprattutto negli anni vuoti del riflusso, del disimpegno. Negli anni degli yuppie, delle discoteche, dei volti di plastica, del body building e dei vestiti firmati. Quelli in cui l’imperativo era far ballare, divertire con canzoni leggere e d’evasione come jingle pubblicitari. Al bando ogni preoccupazione. Pierangelo Bertoli, invece, ha continuato a cantare di amori veri, ideali, di uomini e donne alle prese con i problemi quotidiani, lavoro precario, diversità, emigrazione, dei mali del Paese, prefigurando un futuro in cui continuare a lottare. Per i diritti mai davvero garantiti, per l’uguaglianza sociale, per le libertà. Preannunciando il Paese di oggi.
Emilia, provincia di Modena, Sassuolo, 5 novembre 1942: l’Italia è schiantata dalla guerra, ma presto si avvierà, con il boom economico, alla fase della ricostruzione. Pierangelo Bertoli nasce in una famiglia operaia: operaia la madre Guglielmina, chiamata Imelde, e operaio il padre, Vittorio, detto anche Vittorino. Diversi fratelli e sorelle, una famiglia numerosa, semplice e felice, dove anche nonno Amleto non fa mancare una costante presenza.
A undici mesi il bambino viene colpito da poliomielite, malattia che lo segnerà per sempre. Dapprima in forma di febbri, bronchiti, broncopolmoniti, poi nella paralisi delle gambe, nonostante gli interventi ai nervi. Questi problemi di salute e il carattere volitivo e autonomo lo conducono alla decisione, in accordo con i genitori, del ritiro dalla scuola, frequentata fino alla terza elementare. Ne soffre, ma questo gli evita una lunga serie di problemi, a lui e alla famiglia, oltre che molteplici umiliazioni.
Ma fin da bambino Pierangelo è interessato alle cose: studia, si appassiona, legge e per il resto della sua vita saprà farsi una solida cultura da autodidatta. “Non avendo completato neanche la terza elementare – racconta a Mario Bonanno – mi sono fatto una cultura attraverso i libri. Ho letto di tutto: dai classici alle opere di Freud. Anche se la vita l’ho vissuta fino in fondo. Farsela raccontare dai libri è diverso. Certe esperienze vanno fatte in prima persona”.
Il periodo dell’infanzia spensierata a giocare con i bambini del quartiere finisce presto. Non tanto per la malattia – a undici anni è costretto per la prima volta sulla carrozzina, ma non si fa mancare nulla, a parte le partite di calcio –. Poi una serie di lutti o lo colpisce atrocemente: prima papà Vittorio, poi una zia e nonno Adolfo, padre di Vittorio, con i quali viveva nella palazzina di via Menotti.
Tutto ora è sulle spalle di sua madre che, nonostante il lavoro fisso in fabbrica, fatica a mantenere quattro bambini. Quella più grande andrà ad abitare con il nonno materno, e il resto della famiglia si troverà un altro alloggio in periferia, in via Radici in Piano, che non è per niente male: qui c’è l’oratorio don Bosco, dove si gioca a carte, a biliardino e si fanno nuove amicizie.
Verso la metà degli anni Sessanta gli amici sono un’occasione per uscire e divertirsi, ma anche e soprattutto la prima opportunità per entrare in contatto con la musica. È il fratello Gianni che lo introduce in questo mondo. Da batterista suona in un gruppo di coetanei, i Freeman, che spesso provano a casa sua, in cantina o in camera.
“Vedere le canzoni smontate, cioè c’è la batteria poi il basso che fa la sua parte, poi la chitarra che accompagna, i solisti, i controcanti, i cori, la trovavo cosa interessantissima, mi piaceva di più la musica a questo punto”, racconta Pierangelo nella lunga intervista di Domenico Mangiardi nel volume I Certi momenti.
Così si scopre che Sassuolo in quegli anni è tutta un fiorire di gruppi giovanili, di chitarristi che si danno da fare, di bassisti che rinunciano, di tastieristi, di cantanti che girano di band in band, di locali che offrono spazi per suonare dal vivo. E in questo clima Bertoli, che della musica si innamora subito, impara a suonare la chitarra, comincia a scrivere testi, qualcuno anche in dialetto.
Tra i primi a incoraggiarlo c’è Gino Paoli che una sera si esibisce nel locale dove lavora come cameriere un amico di Pierangelo: “Secondo me ci sono delle cose buone”, gli dice dopo averlo ascoltato per una notte intera.
Nel 1971 tiene un concerto in una grande sala da ballo a Modena e da qui comincia a girare per l’Emilia: canta a Capri, a Bologna, di nuovo a Modena dove c’è anche Francesco Guccini. Poi viene invitato ai Festival dell’Unità a Sassuolo, poi a Modena.
Inizialmente milita nell’Unione comunisti italiani e insieme ad altri musicisti costituisce il Canzoniere del vento rosso, pubblicando i primi dischi con la casa editrice del partito, Servire il popolo. I dischi sono stampati anche in Germania e ciò gli procura una tournée che tocca varie città tedesche tra cui Colonia, Monaco, Zurigo. L’album Rosso colore dell’amore, pubblicato dall’etichetta Lega del Vento Rosso nel 1974, contiene numerose tracce che saranno successivamente riprese in forma definitiva.
Scioltasi l’Unione comunisti italiani e così anche il Canzoniere del vento rosso, Bertoli decide di proseguire la sua strada da solo e incide il primo disco. Nel 1975, con i soldi prestati da un amico, esce Roca blues, dal nome del quartiere più antico di Sassuolo. Sono dodici brani, in italiano e in dialetto. I musicisti che lo accompagnano sono il fratello Gianni alla batteria, Gigi Cervi al basso, Marco Dieci al pianoforte, Francesco Coccapani alla chitarra.
Le canzoni girano, interessano, e nel 1976 a Milano Bertoli firma un contratto con il colosso discografico della Cgd. In autunno, dalla sala d’incisione esce il suo primo vero album, Eppure soffia, dodici canzoni in cui l’autore affronta argomenti crudi, come l’inquinamento ambientale. “L’inquinamento l’ho cominciato a inquadrare negli anni 50 – racconta a Domenico Mangiardi –. Vivevo tra due capannoni di una fabbrica, quindi eravamo talmente inquinati (…). La finestra di camera mia aveva i vetri corrosi, quindi diciamo che di inquinamento me ne intendo”.
Emergono temi che saranno ricorrenti nella sua opera: quello della guerra, in Cristalli di memoria, nel ricordo di un reduce dalla campagna di Russia. Guerra come sequela di morti: quelli condannati dal nemico, quelli che si difendono uccidendo, quelli che fuggono, quelli che restano.
Non vincono è invece ispirata al tragico golpe in Cile che si consuma nel 1973.
In canzoni come Prega Crest, anticlericale, si fa strada la sua visione di un mondo perennemente diviso in classi sociali. Un mondo in cui sui banchi della chiesa sono incisi i nomi delle famiglie ricche che, pagando, si sono riservate il posto, per sedersi e pregare e in paradiso per la vita celeste.
Se a maggio andavano alla novena per pregare/ si cercava un posto ad un banco per potersi inginocchiare./ Per tenere fede a Cristo che dice che siamo tutti uguali/ solo i signori in chiesa hanno i posti già riservati.
Intero album:
L’anno successivo incide Il centro del fiume con la neonata casa discografica di Caterina Caselli, la Ascolto, costola della Cgd.
Il 1977 è un anno duro, feroce. Un anno di disillusioni, di tradimenti della politica, di stragi, di terrore. Di accese contestazioni operaie e studentesche. La prima canzone, Rosso colore, sarà il simbolo di una classe sociale di cui Bertoli prenderà sempre le difese: quella dei poveri operai costretti a emigrare per trovare un lavoro; e di una scelta di campo a favore di chi, anche in politica, si batte a difesa delle persone più svantaggiate. “Sono partito dal passato – racconta il cantautore nella citata intervista a Mangiardi – e mi sono accorto di quanti sono emigrati da Sassuolo, di tutte le lotte per il lavoro, mia madre che lottava e così la scrissi”.
Il centro del fiume affronta il tema dell’omologazione, che spegne ogni possibile espressione alternativa, ogni idea che non sia alla moda; è il mondo di chi si comporta secondo i precetti televisivi, che compra tutto quello che viene pubblicizzato, “è il dar retta a tutte queste cose e vivere per quello che non sei”.
All’interno dell’album, una prefazione di Giancarlo Governi, autore e dirigente Rai, traccia un ritratto intenso e sincero di Pierangelo Bertoli. “Mi colpì subito la tua voce vera – scrive –, il tuo modo proletario di cantare”. Governi riconosce nella voce di Bertoli quella di un cantore “attento al mondo della gente”. Un cantore che alcuni definiscono con tono spregiativo “datato”, senza sapere che, invece, quella accezione è un complimento perché lo distingue dalla massa di tutti i “senza data, senza passato, e soprattutto senza avvenire”. A differenza loro, Pierangelo un avvenire ce l’ha: è il riflesso di un passato. Vissuto, rielaborato, ripensato, che nelle canzoni emerge come racconto di un’epoca di ingiustizie e miserie: di operai di “rosso colore” sfruttati, di emigrati costretti ad andarsene dal loro paese da un “governo spaventoso”, e partendo si lasciano dietro “tante cose da cambiare”. “Continua Pierangelo – scrive infine Governi –. Continua a essere datato e a inseguire l’utopia del tempo d’oro che forse un giorno uscirà fuori materializzandosi, dai tuoi e dai nostri sogni, se continueremo a crederci”.
Bertoli si convince della strada intrapresa. Nel 1978, sempre per la Ascolto, incide S’at ven in meint, album totalmente in dialetto sassolese con il quale esprime la sua volontà di restare attaccato alle radici, anche se la carriera lo porta spesso in giro, lontano dalla sua terra. Racconta, chiamandoli tutti per nome, dei personaggi semplici che popolano la sua Emilia operaia e contadina, intrisi dei valori del lavoro, e della loro fatica quotidiana. In El procesioun contesta una Chiesa corrotta, privata della propria missione, che favorisce raccomandati collocandoli in posti di potere.
A muso duro esce nel 1979, otto canzoni e un incredibile successo. Giovani e meno giovani lo seguono per i numerosi concerti organizzati quell’anno in tutta Italia. La canzone omonima è un manifesto identitario, nasce in reazione alle parole di un discografico milanese che aveva criticato il suo lessico ritenuto non più attuale, le sue canzoni ormai fuori moda. Invece Bertoli ha le idee molto chiare su cosa dire e da che parte stare.
Quella dei poveri derelitti. Come la quindicenne Anna, una vicina di casa di via Radici in Piano. Fuggita da un padre violento, si era rifugiata dallo zio che la faceva prostituire. In paese tutti sapevano e le maldicenze si sprecavano, ma Pierangelo l’aveva sempre difesa e compresa. Ispirandosi a quella storia scrive Non finirà.
Tra le canzoni più rivoluzionarie dell’album c’è L’autobus, metafora della società che avanza con i problemi di tutti i giorni, di uomini, donne, operai, anziani, giovani. Chi “si mette a parlare a voce alta” è anche chi non vuole più stare zitto e protesta contro governi incapaci di risolvere le questioni mai affrontate: del lavoro che manca, del misero salario, dei furti e degli abusi dei padroni; i guai di una società che se ne sta andando in pezzi.
Il quarto album che esce per la Cgd/Ascolto è Certi momenti. Contiene nove canzoni, alcune memorabili, tra cui Pescatore, tra le più cantate e suonate del repertorio di Bertoli. Testo scritto da Marco Negri, con aggiunte e modifiche di Pierangelo.
Questa canzone, come singolo pubblicato nel 1980 dalla Ascolto solo in versione promozionale per il circuito juke-box, diventerà uno dei più riusciti duetti con una allora sconosciuta Fiorella Mannoia, inserito poi nell’album Bertoli studio e Bertoli live.
Nell’album si parla di libertà (Canzoncina);
degli anni dell’edonismo e della leggerezza (Riflusso), in cui tutte le conquiste ottenute fino a quel momento sembrano sprofondare nel vuoto della dimenticanza, come trascinate in fondo al mare. Come se non fossero mai esistite, insieme a coloro che si sono sacrificati per ottenere quei diritti: Ma voglio almeno dire due parole/ in nome di chi lotta per la vita./ Potete forse farci rallentare/ però non vi crediate sia finita.
Certi momenti, che dà il titolo all’album, è scritta a favore della scelta dell’aborto: “Credo che l’educazione sia anche questo – dice Bertoli – stabilire che un figlio uno lo deve volere”. La canzone gli recherà una forte disapprovazione da parte del Vaticano: “Sono stato messo in disparte con le seguenti motivazioni: handicappato, comunista e perché scrivo canzoni contro il papa; messe tutte e tre insieme queste cose fanno di me un essere orribile”, dirà a Mangiardi. Ma questo è il suo stile, che non ha mai rinnegato: affermare principi in cui crede e sostenerli attraverso le canzoni, senza infingimenti o falsi pudori.
Adesso quando i medici di turno rifiuteranno di esserti d’aiuto/ Perché venne un polacco ad insegnargli/ Che è più cristiano imporsi col rifiuto/ Pretenderanno che tu torni indietro/ E ti costringeranno a partorire/ Per poi chiamarlo figlio della colpa/ E tu una Maddalena da pentire.
L’album peraltro ottiene un enorme successo e vola in classifica, consacrando Bertoli come uno dei maggiori esponenti della canzone d’autore italiana. Il successivo Album (1982), otto canzoni che ne rivelano il talento, è la conferma di una fase di grande creatività che trova largo seguito. Testi che si impreziosiscono di metafore e che arricchiscono la narrazione di storie sempre più di rilevanza politica e sociale. Come Nicolò, in cui si racconta di un giovane partigiano della zona del sassolese, che Bertoli definisce “triangolo della morte”. Qui tanti fascisti e partigiani hanno perso la vita per una speranza di cambiamento delusa.
Nicolò, ricordo di un giorno d’aprile/ La festa bussava alla porta/ Nicolò, in mano stringevi il fucile/ E la terra sembrava risorta/ Nicolò, la festa che deve venire/ Fantasma coi baffi in soffitta/ Nicolò, parole gettate a marcire/ La tua lotta mutata in sconfitta.
Bianchezza è un’altra invettiva contro papi e Vaticano che hanno giustificato i peggiori crimini con la fede.
Gli album successivi escono per la Cgd e si avvicendano rapidamente: in Frammenti (1983), ritorna il tema dell’emigrazione (Nuova emigrazione), ma con un diverso punto di vista; se prima erano i braccianti, gli operai precari a doversene andare in cerca di lavoro, ora sono coloro che hanno delle pendenze con il fisco a fuggire.
Una delle canzoni più autobiografiche è certamente A Bruna in cui il cantautore racconta dell’incontro, avvenuto a un suo concerto, con quella che diventerà moglie e madre dei suoi figli.
Campane richiama al diritto alla libertà, sempre più messo in discussione dai nuovi mezzi tecnologici che sembrano detenere un controllo pervasivo sulla vita delle persone. Una canzone decisamente profetica.
Leggenda antica affronta il problema delle donne che hanno tentato di emanciparsi e l’hanno pagata cara, bollate di “puttanesimo” come lo definisce Bertoli, per aver avuto il coraggio di ribellarsi alla violenza del potere maschilista. Tema attualissimo.
Dalla finestra (1984) è un album che racconta il nuovo decennio, osservandolo appunto a distanza. Le manifestazioni davanti alle fabbriche, nelle piazze, gli scontri, i sit-in, tutto sembra essere svanito.
E il futuro appare vuoto e senza idee, tutto uniformato, asettico, prevedibile (Nel 2000): E saremo più leggeri, liberati dai pensieri/ Incapaci di protesta, senza grilli per la testa/ Non più magri, non più grassi, niente alti, niente bassi/ Tutti seri ed impettiti, sei miliardi di partiti.
Emergono nuove istanze, quelle degli omosessuali che smettono di nascondersi e manifestano per la esprimere liberamente la propria identità (Maddalena).
Il treno, canzone fortemente antimilitarista, è imperniata sulla vicenda di una giovane recluta che sul treno sale per andare al servizio militare, controvoglia, costretta, come un condannato. Suo contraltare è un vecchio soldato che nella guerra ha trovato il senso della propria vita.
Altra canzone antimilitarista è Varsavia. Riferita ai fatti del golpe militare polacco del 1982, è in realtà una canzone atemporale che richiama a tutte le guerre e a tutte le giovani vittime sacrificate. Evoca, infatti, anche un episodio della seconda guerra mondiale, quando nel 1944 Varsavia si ribellò all’occupazione tedesca (1944) e per rappresaglia venne quasi completamente distrutta.
Nell’album successivo, Petra (1985), torna il tema della guerra con Fiume nero, canzone spettrale in cui i soldati, “il fiume lurido in cammino”, stanchi e sfiancati dai combattimenti, si avviano in una lenta e inesorabile marcia verso la morte, perché a questo conduce la guerra. Sullo sfondo l’eco di Lili Marlene, la canzone intonata dalle truppe tedesche nel secondo conflitto bellico che, come una guida infernale porta al loro destino quella truppa di soldati.
Del 1987 è Canzoni d’autore, un progetto che vede Bertoli alla prova con le canzoni di altri cantautori, riproposte nella sua personale versione. Tra queste: Vedrai, vedrai di Luigi Tenco, Bartali di Paolo Conte, Sfiorisci bel fiore di Enzo Jannacci e Un giudice di Fabrizio De Andrè.
Nel 1988 esce Tra me e me dove compare il nome di Luciano Ligabue, che comincia ora a far conoscere la sua musica e che esploderà come rivelazione negli anni Novanta. Suo è il controcanto in Sogni di rock & roll, canzone da lui scritta.
L’album documenta uno stato d’animo collettivo nel decennio che sta per chiudersi. Che lascia in eredità a quello successivo una grande incertezza, confusione di idee, perdita di punti di riferimento. Si veda Fiato corto e Tra me e me.
Sedia elettrica esce nel 1989. Titolo e copertina riprendono uno spot da poco uscito sul tema dell’eliminazione delle barriere architettoniche. Per la prima volta viene pubblicata una fotografia di Bertoli sulla sedia a rotelle: fino a quel momento nessuno aveva esposto la disabilità.
Anche grazie a lui e al suo atteggiamento mai pietistico, mai suscettibile di compatimento, la disabilità ha smesso di essere un limite. “Quello che davvero mi ferisce profondamente – spiega Pierangelo nel libro di Mario Bonanno – è l’insensibilità di certe persone. La superficialità di chi, guardandomi, si sente in dovere di provare compassione o, peggio, pietà. Io non ne ho bisogno, nessuno ne ha. Ciò di cui tutti abbiamo veramente bisogno è solidarietà”.
Quello spot, diventato una campagna di pubblicità progresso, vincerà il Telegatto 1989. L’impegno come testimonial farà di Bertoli un punto di riferimento fondamentale per le persone con disabilità, ora finalmente rappresentate.
Invitato a presenziare a diversi dibattiti sul tema, in uno di questi avviene il celebre scontro con Roberto Formigoni. Il politico milanese dice: “Le barriere architettoniche sono solo nella nostra mente” e Bertoli insorge facendo presente quanto la condizione delle persone disabili sia costantemente messa alla prova dalle inefficienze burocratiche. Mostrando la sua carta d’identità fa notare come alla voce “professione” l’impiegato dell’anagrafe abbia indicato “invalido”. Un mestiere dunque, ma quando si tratta di pagare le tasse magicamente l’invalidità sparisce e il contribuente Pierangelo Bertoli diventa un lavoratore come tutti gli altri.
Qualche tempo dopo anche Maurizio Costanzo lo invita al suo programma serale a mostrare la carta d’identità sollevando di nuovo il caso. La questione giunge alle orecchie del prefetto di Modena che, durante una cena dopo un concerto, prende da parte Bertoli e lo rassicura che avrebbe risolto il problema. Che anzi sarebbe bastata una telefonata per evitare tutto quel clamore. Ma la reazione del cantautore non è per niente accomodante: per un personaggio noto la politica risolve velocemente i guai, per la gente comune, è un servizio inesistente. Alla fine la carta d’identità alla voce professione viene corretta con cantautore: “Ho smesso di fare l’invalido”, dirà con non poca ironia.
Mio figlio è una considerazione amara sulla società alla deriva in cui nessuno si prende cura di ciò che realmente conta, di chi sta ai margini.
Questo suo impegno a favore delle persone fragili e delle minoranze lo porterà, insieme a tanti artisti della scena musicale italiana, a una collaborazione con il grande artista armeno Charles Aznavour, attraverso la partecipazione alla registrazione del 45 giri Per te, Armenia, a sostegno di quella popolazione.
Nel frattempo il cantautore sassolese cambia casa discografica e nel 1990 firma un contrato con la Ricordi. Il primo album che esce è Oracoli. Il tema della discriminazione sociale è ancora presente in diverse canzoni, tra cui Come eravamo, dove si racconta delle disparità tra chi dopo tante battaglie ha trovato un lavoro, si è arricchito ma si è dimenticato di quegli anni di lotte, e chi oggi non gode di nessuna tutela, frangia debole della società il cui grido di aiuto è inascoltato. I diritti vanno preservati, come i valori che li sottendono.
In quell’anno esce anche un 45 giri, Canto di vittoria – Song of victory, destinato alla sigla ufficiale dei Giochi F.i.s.h.a. (oggi F.i.s.h.: onlus Federazione italiana per il superamento dell’handicap).
Inimmaginabile, poco dopo, il successo di Spunta la luna dal monte, canzone presentata a Sanremo nel 1991 insieme al gruppo sardo Tazenda e poi inserita in un album omonimo, raccolta di grandi successi, il più venduto tra quelli incisi dal cantautore.
Nel festival del 1991, come in quello successivo a cui si presenta con Italia d’oro, ottiene standing ovation e importanti riconoscimenti da parte del pubblico. Dà il titolo all’album del 1992. Una sorta di inno nazionale al contrario, in cui si condannano tutte le nefandezze di uno Stato che si disinteressa dei cittadini onesti, che dà cittadinanza a boss malavitosi e mafiosi. Uno Stato costruito sulle tangenti e dove le bombe scoppiano nelle città, senza colpevoli. Uno Stato che non garantisce i diritti essenziali.
In Fantasmi troviamo una riflessione sui veri eroi, ovvero coloro che si sono battuti per una società più giusta e che per questo hanno sacrificato la vita.
L’ultimo album con la Ricordi, Gli anni miei, esce nel 1993. Da segnalare Ballata sul percorso, che celebra la generazione del ’68, quella che ha lottato per la libertà, per i diritti civili e sul lavoro, per l’indipendenza. “Avevano un difetto questi qua – dice l’autore –: erano degli onesti. È un difetto in questa società”.
Valzer lento è invece un canto popolare del sassolese, del dopoguerra, che Bertoli riscrive e incide.
Chiusa l’avventura discografica con la Ricordi, un nuovo capitolo si apre con l’etichetta di Romolo Ferri. Con la Crisler Music incide Angoli di vita (1998), album di grande qualità compositiva ma poco promosso. Si parla di potere, come forza contraria alla libertà (Potere);
di evasori fiscali, coloro che dopo Tangentopoli sono stati condannati (I lupi);
di leggende profane (Festa al castello)
di suicidi, fisici e mentali (Ancora tempo).
Nel 2002, per la Crisler esce anche 301 guerre fa, dieci ballate a suggellare l’ultimo disco della carriera di un musicista autentico, sempre in trincea, voce collettiva che ha combattuto per le libertà di tutti. Contro il militarismo, le repressioni di stato, contro un ceto politico impunito.
Intero album:
Pierangelo Bertoli muore il 7 ottobre 2002 al Policlinico di Modena. Le sue sono state canzoni dure, impegnate, ma soprattutto vere, nella crudezza oggettiva del racconto delle vicende politiche e sociali del Paese. Molte sono state motivo di scandalo, altre considerate eretiche, la gran parte testimonianza di un deciso impegno politico e della solidarietà di classe. Ma tutte, soprattutto, sono state inno alla libertà di ogni uomo e di ogni donna, manifesto contro discriminazioni di qualsiasi genere, monito contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Canzoni che parlano a tutti; canzoni che sono “la descrizione della vita che mi sta intorno fatta di azioni, di impressioni, di sentimenti, di gioie, di noie, di paura e di coraggio: le cose che sono state incise sulla tua pelle fin da bambino. Le donne sbagliate, la donna che amo, i fatti che odio, le persone che hanno vissuto una guerra quando io non c’ero, le stupidaggini che ti insegnano a crescere, la voglia di fare qualcosa nel cambiare, la volontà di dire ciò che penso, gli amici, le tristezze dell’obbligo, il bisogno di libertà da regalare a chi ne ha bisogno”, come raccontava lo stesso Pierangelo Bertoli nel comunicato stampa per l’uscita di Eppure Soffia.
Canzoni da ascoltare oggi e per i tempi a venire. Con la chitarra in mano, con gli accordi blues, con la rabbia del rock, con le parole essenziali della canzone popolare. A muso duro.
Chiara Ferrari, autrice del libro appena uscito in libreria Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi. Edizioni Interno 4; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato domenica 26 Settembre 2021
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/con-un-piede-nel-passato-e-lo-sguardo-dritto-al-futuro/