Queste ricerche mi fecero prendere coscienza del fatto che i libri con narrazioni storiche (…) sembravano non avere come protagonisti uomini in carne ed ossa. Anzi gli uomini reali sembravano dissolti come in un bagno di acido solforico.
Cesare Bermani, “L’alba intravista. Militanti politici del Biennio rosso tra Piemonte e Lombardia”.
“Il vero inizio della storia orale in Italia sta in un saggio di Cesare Bermani pubblicato su Primo Maggio a metà anni Settanta, intitolato «Dieci anni di lavoro con le fonti orali». Fino allora c’erano state esperienze sporadiche (Rocco Scotellaro, Danilo Montaldi), riflessioni anticipatrici (Gianni Bosio), ma è solo con Bermani che il lavoro con le fonti orali comincia ad assumere una sua riconoscibile dimensione metodologica, conoscitiva e politica. E forse, a posteriori, l’indicazione più importante in quel titolo sta nell’indicazione di durata: “dieci anni di lavoro”. “La storia orale è sempre una lunga fatica, non una scorreria di breve respiro, un sondaggio accademico a scadenza ma un impegno costante e sempre rinnovato” scrive Alessandro Portelli, uno dei maggiori esperti.
Parole che introducono magistralmente la figura dello storico e antropologo novarese, precursore del metodo storiografico fondato sulla validità delle testimonianze orali, raccolte quali fonti attendibili per fare storia, in particolare nell’ambito degli studi sul movimento operaio e popolare. Autore di molti saggi sui temi della Resistenza e dell’antifascismo, sulla cultura delle classi subalterne, sulla musica popolare, sociale, di protesta (tra cui Pane, rose e libertà. Le canzoni che hanno fatto l’Italia: 150 anni di musica popolare, sociale e di protesta, Bur, 2020 e il più recente Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenze, Interlinea edizioni, 2020), sulle leggende metropolitane e il “mondo magico” nell’Abruzzo teramano, Cesare Bermani (classe 1937) è anche la memoria di un’epoca. Un’epoca segnata dalle prime e pionieristiche ricerche sul campo del canto popolare, sociale e politico, un’epoca di scoperte, di tesori sommersi che raccontavano di un’Italia “altra” che parlava con la voce delle mondine, dei braccianti, dei militanti politici, degli operai delle fabbriche, dei partigiani, uomini e donne le cui vicende non trovavano posto nei racconti ufficiali, nelle pagine dei manuali e nelle accademie. Ma che invece rivelavano verità oscurate, sentimenti mai sopiti di rivalsa contro potenti e invasori, segreti, leggende, sogni e speranze di chi lottava per una vita migliore. Cesare Bermani è tra quanti hanno permesso che questa storia sotterranea giungesse a noi. E che ora è diventata fruibile attraverso l’“Archivio Cesare Bermani per lo studio dell’oralità proletaria e della musica popolare” nato dal suo infaticabile lavoro.
Ne abbiamo parlato – dell’archivio ma anche della sua personale vicenda di studioso, tra i più attivi all’interno del Nuovo Canzoniere Italiano e tra i fondatori dell’Istituto Ernesto De Martino, redattore e direttore di riviste, collaboratore per importanti testate giornalistiche, autore di testi teatrali, tra cui con Franco Coggiola Ci ragiono e canto, regia di Dario Fo, curatore discografico, al fianco di grandi intellettuali come Gianni Bosio (suo il saggio Gianni Bosio. L’intellettuale rovesciato. Interventi e ricerche sulla emergenza d’interesse verso le forme di espressione e di organizzazione spontanee nel mondo popolare e proletario, Jaca Book, 1998) – in un incontro avvenuto nella sua casa biblioteca archivio a Orta San Giulio, una cittadina di cui si è molto occupato, del suo lago, della Valsesia in generale, anche in qualità di presidente dell’Associazione Ernesto Ragazzoni per la difesa del patrimonio artistico e paesaggistico del Lago d’Orta.
Lei è stato un pioniere nella ricerca sul campo, è stato forse il primo o comunque uno dei primi a occuparsene e soprattutto nel settore che si svelava in quel momento, quello del canto popolare, dunque le curiosità sono tante, a partire da come ha iniziato e che cosa serviva in quel momento per fare quel mestiere che era tutto da inventare.
Le cose sono andate così: Roberto Leydi abitava d’estate in una casa a fianco la mia. Lo conoscevo da molti anni, direi dal ’53-’54 perché lui aveva fatto una rivista che si chiamava Jazz Time molto importante e io ero un appassionato di jazz. Però avevamo gusti diversi: lui è andato nella direzione di Jelly Roll Morton e di Alan Lomax, cioè decisamente verso il canto popolare e quindi gli interessava il jazz come parte della musica popolare, mentre io ero molto vicino al bebop, a figure come Dizzy Gillespie, Charlie Parker e mi interessavo di più di jazz moderno, un tipo di musica che Leydi curiosamente non amava, tanto che quando faceva conferenze sul jazz le chiudeva facendo ascoltare un disco di Miles Davis, dicendo: ‘poi ci sono questi qui che suonano questa musica’ e se ne andava via lasciando su il disco, proprio non sopportava il jazz moderno. Successivamente lui fu incaricato dalle edizioni Avanti! di realizzare un libro sui canti sociali italiani e mi convinse a fare delle ricerche nel novarese. Lui aveva un modo di lavorare diverso dal mio, perché io registravo tutto, lui invece tornava dove io ero stato e registrava solo le cose che gli piacevano, per cui io andavo avanti e raccoglievo ogni contributo e poi lui tornava a registrare le canzoni che gli sembravano più importanti. Leydi registrava benissimo, aveva un bellissimo magnetofono mentre io mi muovevo con un pessimo magnetofono. Io spesso venivo accusato di registrare delle canzoni brutte, ma era perché io ritenevo fosse giusto registrare tutto.
Come funzionava la vostra ricerca, si andava in giro nelle campagne come ha raccontato Caterina Bueno?
Quando Leydi mi fornì un apparecchio degno del nome, mi aggiravo con un registratore che pesava trentacinque chili a piedi e me lo portavo appresso, salivo e scendevo dalle corriere. Si andava in un paese e si chiedeva chi valesse la pena di fare cantare, di solito ti indicavano chi era il più bravo, poi magari non era il più bravo ma comunque ti facevi una rete di cantanti popolari e potevi cominciare a registrare. Poi veniva tutto il lavoro successivo, cioè di andare a capire che cos’era quel canto, perché era stato tramandato, cioè tutto il lavoro di storicizzazione e razionalizzazione. Per alcuni anni ho registrato canti come parte fondamentale di questo progetto editoriale, dovevano essere quattro libri ma ne uscì uno solo (Canti sociali italiani, Edizioni Avanti! 1963). La pubblicazione prevedeva un migliaio di canti, ma poi al posto del libro si decise di passare a fare dischi che vennero realizzati con l’etichetta I dischi del sole, la cui attività era già cominciata ma che divenne in poco tempo estremamente prolifica. Molto presto mi sono accorto che le canzoni erano importanti, ma molto più importante era il fatto che chi le cantava voleva raccontare la sua storia e allora ho cominciato a raccogliere soprattutto storie di vita e infatti nel mio archivio c’è una parte dedicata al canto popolare e sociale, però minore rispetto a quella dedicata alle storie di vita.
Come L’Alba intravista che per Biblioteca di prospettiva marxista avete scritto lei, Bermani, e Marcello Ingrao sul Biennio rosso, una quarantina di persone, militanti politici di base, che si raccontano e raccontano cosa facevano in quegli anni.
La partenza è stata la ricerca sui militanti politici di base negli anni attorno alla prima guerra mondiale. Successivamente ho realizzato un libro sulla Resistenza in Valsesia (Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia edito da Storia Resistenza e della Società Contemporanea nel Biellese, Vercellese e Valsesia). Ho raccolto storie di partigiani per decenni, e diversi li ho ascoltati per ore, e nell’archivio conservo più di centoventi storie di partigiani.
Però lei è stato anche molto attivo nel movimento del Nuovo Canzoniere Italiano (fondamentale sul tema il suo saggio Una storia cantata. 1962-1997: trentacinque anni di attività del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto De Martino – Jaca Book). Che esperienza è stata?
Con le canzoni che noi raccoglievamo, come Il feroce monarchico Bava, per esempio, che sono l’unico ad aver registrato, si creava un corpus di canti sociali che altrimenti sarebbero stati destinati a perdersi. Noi li ricuperavamo e le rimettevamo in circolazione tramite i dischi e gli spettacoli.
Versione di Sandra Mantovani incisa nell’album Avanti Popolo Alla Riscossa – Antologia della canzone socialista in Italia (I Dischi del Sole, 1969).
Quel movimento è stato proprio rivoluzionario per questo, perché salvare un patrimonio che sarebbe andato perso è stata davvero un’impresa straordinaria, grandiosa e anche assolutamente controcorrente perché in quegli anni c’era tutta un’altra musica, c’era tutto un altro mondo più interessato al nuovo invece che a ciò che veniva da una tradizione passata. Allora le chiedo com’era sentita in quel momento l’attività che voi facevate e se secondo lei ha lasciato qualcosa ancora oggi?
In realtà le ragioni per cui noi abbiamo fatto queste ricerche non sono mai state accettate, soprattutto dai funzionari del Pci. A loro interessavano solo le canzoni perché ai Festival dell’Unità funzionavano, portavano gente, ma per esempio persone come la Daffini venivano appellate come ‘ruspanti’, con tono spregiativo. Il Pci era un partito cosiddetto di classe, i cui funzionari però odiavano la cultura di classe, sostenendo che l’unica cultura esistente era quella egemone, della borghesia. Questo era il Pci dei funzionari. Poi per fortuna c’era un altro Pci dentro il Pci, formato da comunisti di base. Ne ho registrati tantissimi e ho registrato negli anni Sessanta anche i verbali della mia sezione di partito, proprio per far vedere cos’era una sezione di partito di cui oggi non si ha più un’idea neanche lontanamente, per comprendere la differenza enorme che c’era tra registrare la gente a casa sua o al circolo operaio e registrarla invece in sezione. All’ascolto si capisce come in realtà la sezione di partito invece di insegnarti cos’era il mondo popolare, la classe operaia, faceva da filtro. Allora lì è iniziata una lunga battaglia legata, per esempio, alla contestazione delle storie ufficiali di sindacato e partito, che erano cose ben diverse della storia che raccontavano i militanti di base. Non solo, allora c’era anche il problema che gli archivi erano difficilmente consultabili mentre invece registrando i testimoni dal vivo avevi la possibilità di fare della storia. Quindi per tutta una serie di anni siamo andati avanti così, contestati e contestando. Fu una battaglia continua, io facevo i verbali della sezione con il registratore, vissuto dai funzionari come uno strumento del diavolo. Per questo motivo ho avuto grane con la Commissione federale di controllo del partito. Poi in realtà è anche vero che scavando raccoglievo delle storie che erano imbarazzanti per l’apparato di partito. Per esempio io ho ricostruito la storia del primo segretario della Federazione Giovanile Comunista nel novarese che era stato fucilato in Unione Sovietica dalla polizia segreta staliniana nel 1938, perché aveva dei residui di anarchismo, come del resto buona parte dei comunisti di base di quegli anni, almeno nel novarese. Queste mie ricerche non facevano molto piacere all’apparato di partito, perché questo segretario dei giovani era considerato dai vecchi militanti di base come un importantissimo dirigente, sicché si vociferava che fosse diventato un pezzo grosso dell’Armata Rossa, mentre invece era stato una vittima delle purghe staliniane”.
Non siete mai stati ben accolti per il vostro lavoro di ricerca, per quanto riguarda le canzoni, però, a un certo punto c’è stato molto seguito, interpreti, musicisti che hanno saputo valorizzare il materiale popolare, penso a Giovanna Marini, ma anche agli intellettuali che si univano alle vostre ricerche. Poi ci fu lo scalpore suscitato dallo spettacolo Bella Ciao che rese il repertorio, gli interpreti e l’attività del Nuovo Canzoniere Italiano noti a un più vasto pubblico. Come incise tutto questo nella società di quegli anni?
Incidere ha inciso e parecchio, secondo me, perché c’è stato anche un forte interessamento ai dischi che a un certo punto si sono prodotti in gran numero. Però ribadisco che non eravamo ben visti. Noi abbiamo avuto due nemici: i funzionari di partito e gli insegnanti universitari di storia che non accettavano una nuova storia, erano conservatori al massimo e c’è ancora oggi chi sostiene che le fonti orali non sono valide, invece io penso che siano un ottimo strumento, anzi sono convinto che non sia possibile fare storia contemporanea se non anche e spesso soprattutto con le fonti orali. Sono anche convinto che abbiamo scoperchiato un vaso di Pandora. Uno storico non può che fare storia, scontrandosi continuamente con chi pensa che da una parte tutto sia bene e dell’altra tutto male. Così non la racconti giusta e va a finire che prima o poi la paghi, perché la verità viene a galla.
Pensando ai numerosi interpreti che hanno fatto parte del Nuovo Canzoniere Italiano, Giovanna Daffini è tra quelle che lei ha seguito di più, scrivendone e curando le sue incisioni. Giovanna Daffini è stata la scommessa vinta, una donna che veniva dal basso da cui si è affrancata attraverso il canto ed è stata studiata dagli intellettuali e si è esibita sui palcoscenici importanti, è diventata un simbolo, rappresentando il sovvertimento delle regole sociali. Si può leggere anche così l’epopea di Giovanna Daffini?
Giovanna Daffini mi piaceva molto, era una bella persona. Era molto accogliente, quindi quando andavo a registrarla a Gualtieri mi riceveva nel castello bellissimo ma freddissimo, dove lei soffriva l’ira di dio perché faceva proprio freddo, d’altra parte non aveva altra casa che quella datale del Comune di Gualtieri. E poi aveva un marito che l’accompagnava quando andavano a suonare ai funerali e ai matrimoni o alle feste popolari, che però la considerava pochissimo, mentre noi avevamo capito che Giovanna era straordinaria e Vincenzo Carpi era un violinista di livello medio. Per lui la musica era solo quella cosiddetta colta. Quando è morta Giovanna lui si è risposato con una pianista e la prima cosa che mi ha detto è stata ‘mia moglie è una pianista’, questo era il suo modo di vedere la musica.
Lei aveva consapevolezza di avere un ruolo importante all’interno del movimento?
Sì, ma lei aveva bisogno di guadagnare e di fare spettacoli. In realtà Giovanna era molto diversa da come è stata presentata. Per prima cosa era una ex mondariso giustamente polemica verso il lavoro di risaia che non amava proprio per niente, e per esempio le canzoni di risaia le aveva dimenticate. Però quando ha capito che noi cercavamo quelle canzoni e in particolare quelle che erano state cantate durante il fascismo ha cominciato a fare confusione retrodatando per esempio il Bella ciao delle mondine, ma siccome le date che ci diceva non coincidevano da una volta all’altra abbiamo capito che la colpa era un po’ nostra che le avevamo acriticamente creduto. Questo comunque non è importante, quello che conta è che lei era una grande cantante, aveva una voce da prima mondariso, però non era una mondariso, era un’altra cosa.
Era una cantante girovaga che aveva esperienza come cantastorie che aveva imparato il mestiere lavorando insieme al padre e al marito…
Il repertorio glielo abbiamo in larga misura fornito noi del Nuovo Canzoniere Italiano, lei era una bravissima cantastorie e quindi prendeva le canzoni che le passavamo, le studiava e le interpretava. Per esempio il lamento di Sante Caserio (Le ultime ore e la decapitazione di Sante Caserio) che lei interpreta in modo eccezionale non lo conosceva inizialmente. Sacco e Vanzetti l’ho registrata io a Suno, in questa zona qui del Novarese, e poi l’abbiamo data a lei che l’ha suonata e interpretata. Il suo repertorio sociale di prima comprendeva la Brigata Garibaldi che suonava insieme al marito e altri canti della Resistenza reggiana, poi con noi ha arricchito molto il suo repertorio. Certamente è stata fondamentale nel movimento perché era una cantante straordinaria e dalla voce inimitabile.
Le ultime ore e la decapitazione di Sante Caserio (Giovanna Daffini e Vittorio Carpi, Amore mio non piangere, I Dischi del sole, 1975).
Ricordo di aver letto che Sandra Mantovani al suo funerale o nell’ occasione del ricordo di Giovanna Daffini si era rifiutata di intonare un canto del suo repertorio dicendo che le canzoni della Daffini le sapeva cantare solo lei…
È possibile, Sandra Mantovani era un altro tipo di cantante, più una studiosa, lei credeva nel folk revival a differenza di molti degli altri cantanti del gruppo.
Il folk revival era la restituzione filologica, l’idea di ricostruire in maniera imitativa i canti. Invece poi si è aperta un’altra strada, quella della canzone d’autore…
La Linea Rossa, perché dentro il gruppo c’era stata un’insurrezione contro Leydi perché in parte esagerava pretendendo che tutti cantassero in quel modo, che la gola si aprisse in un certo modo… ma non era possibile rifare il verso a Teresa Viarengo, o a tanti altri cantanti, che a volte stonavano, e così ti trovavi a fare il verso a uno che stonava. Però nei primi tempi questo era il cosiddetto ricalco, che solo col tempo smise di essere pedissequo. Comunque l’insurrezione fece sì che Silvia Malagugini e Cati Mattea che erano quelle che chiamavamo le bambine del gruppo, e altri a un certo momento si rifiutarono di cantare. Inoltre c’era Ivan Della Mea che era un’altra cosa e non c’entrava niente col ricalco.
Cominciò una nuova stagione della canzone popolare, con nomi come Paolo Pietrangeli, Gualtiero Bertelli, Della Mea, appunto, autori di una canzone che voleva raccontare anche la realtà di quegli anni…
Questo ha aperto una strada importantissima.
Come è iniziato il suo impegno più direttamente nella musica?
Cominciai a lavorare nelle Edizioni Avanti! nel ’63, erano edizioni cartacee e discografiche e poi ho continuato, mi sono occupato di parecchi dischi, ho cantato poco perché preferivo scrivere, fare altre cose, fare ricerche ma ho anche cantato. L’elemento interessante del gruppo è che è stato un gruppo assolutamente eterogeneo sotto il profilo politico, di sinistra ma eterogeneo perché c’erano comunisti, socialisti, anarchici, persone che non avevano una posizione, però eravamo tutti convinti che fosse importante questo lavoro che stavamo facendo, questo era il collante che ci teneva uniti. Giovanna Marini che era l’unica musicista del gruppo, diceva che non capivamo niente di musica ma che stava meglio con noi che con i colleghi del conservatorio.
A Giovanna Marini e a uno dei suoi canti più noti, il Lamento per la morte di Pasolini, è legata una delle sue scoperte più interessanti, la canzone funeraria abruzzese L’orazione di San Donato, registrata nel 1965 a Zaccheo, frazione di Castellalto a Teramo. Come avvenne?
È nata così: la mia prima moglie era abruzzese ed era radicata dentro la cultura popolare del paese. Io ho cominciato con lei a fare delle ricerche non solo sulla canzone ma anche sulla magia popolare, sulla stregoneria, e mentre facevo queste ricerche a un certo momento mi imbattei in questo lamento religioso. Lo passai poi a Giovanna. Le prime canzoni popolari sono state trascritte musicalmente da lei che ha inventato una trascrizione perché non si prestavano ad essere trascritte come la scrittura della musica classica, erano un’altra cosa. Curiosamente vennero fatte a Boston dove lei si era temporaneamente trasferita col marito. Allora le spedimmo delle canzoni, in parte Cirese (l’antropologo Alberto Mario Cirese), le canzoni molisane di suo padre, in parte io e lei fece la trascrizione musicale. Ho ancora le lettere che mi mandò allora. Giovanna è un’altra che andava per la sua strada, era una musicista, in quel momento cominciava a comporre le ballate che erano la novità del suo repertorio. Quel canto che le avevo mandato lo riprese qualche tempo dopo e lo trasformò nel Lamento per la morte di Pasolini.
Persi le forze mie, inciso nella ballata I treni per Reggio Calabria (I Dischi del Sole, 1976).
Tornando a lei, che ha sempre ricercato le voci sotto traccia, dalla gente di campagna, delle mondine. Una scelta dettata da cosa?
Io sono nato a Novara e le mondine le sentivo cantare fin da bambino, poi a un certo momento ci fu il film Riso amaro (1949), Elsa Martinelli che venne a girare un altro film sulla risaia (La risaia, 1956). Sapevano farsi rispettare le mondariso, e poi cantavano molto bene. Quel canto di risaia oggi è sparito completamente, si sono modificati i modi di raccogliere il riso, di fare la monda, è tutto cambiato. Fu naturale incontrarsi con le mondariso, c’erano gruppi bravissimi, quelli di Trino Vercellese per esempio, così abbiamo imparato cos’era il canto di risaia, cioè questa combinazione di prima e seconda voce con quello che veniva chiamato il bassur che creava queste sonorità che oggi non ci sono più. Purtroppo ci sono ancora delle presunte mondariso che girano per il paese e che cantano quelle canzoni come se fossero canzonette di Sanremo.
Oggi esistono ancora aree dove è sopravvissuta la musica di tradizione?
Sì, in Abruzzo a Cocullo con la Sagra dei Serpari, per esempio, lì trovi molta continuità rispetto al passato. Al Nord il problema vero è che il capitalismo ammazza tutto e appiattisce. Oggi fare ricerca credo sia difficile, è diverso il mondo, devi inventarti delle tecniche per riuscire a registrare le persone che possono rappresentare qualcosa, come noi le abbiamo inventate sulla base di un mondo di allora, dove c’era la classe operaia, c’erano ancora i partiti di sinistra, era un mondo completamente diverso. Oggi c’è da far ricerca sulla Lega, non so cosa cantino i leghisti ma oggi ci sono loro. Tu le sai le canzoni della Lega? Spariti i mestieri sui quali si cantava – la filanda, la risaia, la fabbrica, anche se si cantava poco dentro, si cantava fuori nelle manifestazioni e quello ancora può succedere, ma poco – per il resto è cambiato tutto. Il canto sociale muore insieme alla classe operaia degli anni Settanta. Oggi la classe operaia è una cosa completamente diversa, è fatta di marocchini, senegalesi, cinesi, questi sicuramente cantano ma bisogna andarli a sentire, capire che cosa cantano e cosa raccontano. Con quelli di lingua francese ancora me la cavo, il cinese non lo so.
A proposito dell’archivio, quali progetti sono attualmente in corso?
Pensiamo di fare un disco su uno degli ultimi spettacoli di Luisa Ronchini, qui abbiamo registrazioni inedite, Antonella ne ha parecchie.
Antonella De Palma, che si aggiunge alla chiacchierata, è con Bermani impegnata nella salvaguardia e valorizzazione dell’archivio, di cui si occupa la Società di mutuo soccorso Ernesto de Martino di Venezia, di cui è il presidente. Allieva del musicologo Giovanni Morelli, si è dedicata ad alcuni progetti discografici legati alla figura di Luisa Ronchini, ma anche di Margot.
Morelli è stato mio professore all’università e relatore di tesi, infatti fu lui a dirmi, quando stavamo lavorando alla Ronchini, che Margot aveva composto un’opera, Re Orso, con la Ronchini come protagonista. Dunque con Margot ci siamo frequentate a lungo lavorando alla realizzazione del cd di quest’operina. Margot aveva in casa alcune audiocassette con le musiche che aveva composto e che erano state usate per lo spettacolo. Insieme le abbiamo digitalizzate, sistemate, tagliate qua e là perché l’opera originaria era molto più lunga, abbiamo tagliato non nelle parti cantate ma in quelle musicate e poi Cesare ed io abbiamo realizzato il cd che è poi stato pubblicato da Nota. In quel periodo l’ho frequentata spesso, perché veniva a casa mia e abbiamo condiviso questo progetto. Un personaggio fantastico, lei e il suo compagno Giovanni Morelli. Una bella persona, geniale.
Riguardo a Luisa Ronchini invece?
Le carte della Ronchini sono qui in archivio: testi delle canzoni, materiali sugli spettacoli che lei ha realizzato, quasi tutto pubblicato. Ci sono i testi delle canzoni che lei ha raccolto, alcune sono andate sul suo libro (Sentime bona zente. Canti, conte e cante del popolo veneto), altri no. C’è una parte grossa sulla tournée che avevano fatto in Giappone con Alberto d’Amico e Emanuela Magro. Si tratta di documentazione cartacea, registrazioni della tournée in Giappone non ce ne sono, i nastri esistenti in archivio riguardano il periodo precedente, fino al ’76-’77. C’è poi un nastro con canti popolari svedesi, lei era stata in Svezia con il suo compagno Romano Perusini nel ’65 per una mostra collettiva, c’era andata come ceramista, ma già cantava e dunque raccolse questi canti popolari svedesi. Doveva essere una persona particolare anche lei. Non era simpatica, mi fece rifare un fascicolo dello spettacolo L’Altra Italia perché avevo scritto che lei era un’operaia ceramista e lei si offese moltissimo. Mi fece scrivere artista.
Ronchini, Margot, e poi si possono aggiungere Straniero, Liberovici, Leydi. Quel momento ha permesso a questi artisti e intellettuali di poter emergere. Oggi?
Oggi il sistema culturale è abbastanza piatto. Immagina se con la Meloni puoi fare… terribile, è tutto il contesto che è spaventoso, essere qui e non sapere se gli esseri umani continueranno a vivere a lungo o tra cinquant’anni non ci sarà più niente. Non è simpatico, d’altra parte è così. Abbiamo perso la scommessa perché non siamo riusciti a eliminare il capitalismo. Il capitalismo sta distruggendo il mondo, non so quanta gente riflette sul fatto che per esempio le bombe che vengono puntate su Gaza non sono solo bombe che ammazzano persone ma sono anche amianto, radiazioni, che si sparpagliano in ogni dove.
C’è un insegnamento che si può trarre dal vostro lavoro valido ancora oggi?
Per la ricerca ho l’impressione che al di là di alcuni consigli che valgono anche per altre ricerche, quello che abbiamo fatto noi non ha più senso per l’oggi. Io al bar non sento mai parlare dei pericoli che ci sono al mondo, si parla di cibo, di sport… Io ho questa raccolta sterminata di partigiani che mi raccontano le loro esperienze degli anni dal ’43 al ’45, mai nessuno è venuto a chiedere di ascoltarle, eppure un conto è ascoltare la voce dei partigiani quando hanno novant’anni, un conto quando ne avevano quaranta. La gente cambia, la testa cambia. Sono registrazioni sul campo fatte nel ’63 in Valsesia, poi ho continuato con i partigiani del Verbano Cusio-Ossola. Sono particolarmente interessanti perché non puoi fare la storia del movimento della Resistenza se non con quelle voci. Queste registrazioni andrebbero tutte sbobinate, ascoltate e trascritte. Ci sono anche canzoni. Se qualche ricercatore venisse qui a visionare questo materiale sarebbe una cosa importante. L’archivio è a disposizione, c’è anche materiale molto ricco sugli italiani che sono andati in Germania durante il nazismo, su cui ho scritto un libro che oggi viene riscoperto (Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione economica italiana 1937-1945, Bollati Boringhieri, 1998).
La documentazione in archivio è vastissima ed eterogenea e Bermani ribatte sul fatto che sia a disposizione per studiosi e ricercatori. Si tratta di una collezione impressionante di materiali raccolti nell’arco di una vita. Una biblioteca con sessantamila volumi, una emeroteca con oltre millecinquecento riviste, una discoteca soprattutto di jazz e musica popolare con diverse migliaia di dischi (dai 78 giri ai 33 e ai CD), un archivio sonoro con oltre tremila ore di registrazioni sul campo, molti album di fotografie e video, circa cinquemila cartelle con documenti cartacei. L’archivio è permanentemente in lavorazione, riordinato grazie a un contributo della Direzione Generale degli Archivi, nel 2019, e soprattutto, dal 2021, grazie alla Fondazione Comunità Novarese /Fondo Giovanni Pagani.
Ora si è giunti alla schedatura quasi definitiva delle cartelle con documenti cartacei, alla descrizione parziale dell’emeroteca, alla digitalizzazione e schedatura, mentre si è solo a una prima fase di schedature dei libri e la digitalizzazione delle registrazioni sul campo supera di poco la metà di quanto è registrato sui nastri. Si sono inoltre realizzati alcuni documentari e sottoscritto accordi di collaborazione con importanti istituzioni nazionali (l’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, le sezioni Anpi di Novara e Omegna e Zona Cusio, l’Archivio Primo Moroni e l’Associazione Il Cantastorie di Milano, l’Associazione Culturale Circolo Gianni Bosio di Roma, l’Istituto di Studi Storici Gaetano Salvemini di Torino) e con le Università degli Studi di Torino e del Piemonte Orientale.
Il materiale è di immane entità e basta scorrere l’indice presente all’indirizzo digitale dell’archivio Cesare Bermani a cui si rimanda per realizzare la consistenza di questa impresa. Un pensiero al futuro chiude l’intervista: “Bisogna avere fiducia, per esempio leggevo oggi un articolo di Luciana Castellina che dice che ci sono legioni di giovani interessati all’opera di Marx, questo mi ha stupito molto”.
Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato venerdì 3 Gennaio 2025
Stampato il 06/01/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/cesare-bermani-cacciatore-di-voci-e-suoni-sottotraccia/