Carpino, Italia, provincia di Foggia, la poesia cade dal cielo come la pioggia,
come la pioggia che si porta nel mare il segreto della musica popolare;
Carpino, Italia, terra del Gargano, quello che è vicino non cercare lontano,
non cercare lontano quello che è vicino, a due passi da Napoli, a Carpino.
Carpino, Italia di Eugenio Bennato
Carpino, “terra calcarea e argillosa, arsa e povera, avara di prodotti e spesso ricca di contrasti dettati dalla miseria, ha visto passare vite difficili, divorate da solitudini spese ad accudire le bestie, con poche occasioni di contatto con le altre persone”. Così il giornalista Valter Giuliano in Canti, poeti, pupi e tarante, una serie di interviste ai testimoni della cultura popolare, descrive Carpino, comune in provincia di Foggia, compreso nel parco nazionale del Gargano e nell’omonima comunità montana.
In questa terra desolata, in un Sud che appare immerso in una dimensione atemporale, per fuggire alla disperazione e alla solitudine si cantava: poesia e canto come rimedi al malessere di un destino già segnato.“Nel paese, nei campi, dappertutto si cantava, cantavamo i nostri sonetti: le donne, gli anziani, i giovani, vi era un’allegria da non credere malgrado la necessità”, ricorda il cantore Antonio Piccininno in un manoscritto pubblicato dall’etnomusicologo Salvatore Villani e raccolto nel saggio I cantori e musicisti di Carpino.
E qui, in questa terra arsa, il canto è espressione della partecipazione collettiva di una intera comunità. Cantavano i contadini e i pastori, i potatori, i muratori e gli imbianchini, i braccianti, gli ambulanti, le lavandaie, gli anziani, le donne e i bambini. Voci distintive che hanno lasciato la loro eco, per sempre.
Tra queste, Antonio Piccininno, nato in via Maestra n. 21 a Carpino, il 18 febbraio 1916, patriarca del canto alla carpinese. Pastore e agricoltore, ha incarnato il canto della sua terra, insieme ad Andrea Sacco e Antonio Maccarone, divenendo emblema di questo cantare antico: un urlo viscerale che racconta di povertà, di una vita fatta di stenti, di lavoro e fatica sin dall’infanzia, ma che non rinuncia alla dimensione poetica, intessuto com’è dei racconti della vita in campagna, tra il grano e gli ulivi. “Sono rimasto orfano dei genitori all’età di un anno e mi allevarono i nonni – racconta nell’intervista rilasciata a Giuliano –. Sono andato a scuola ma non sono passato e allora mio nonno mi mandò ad accudire gli agnelli. (…) Ho fatto il pastorello fino a 15-16 anni poi mi sono dedicato all’agricoltura e ho conosciuto i primi compagni. (…) Un tempo si stava tutti in campagna, anche le donne e i bambini, sennò non si mangiava. La persona nasceva nel paese e nel paese moriva”.
A Carpino, chi è nato in mezzo alla terra, solo la terra ha per campare. “Avevo freddo, fame – continua Antonio –; mangiavo pane cotto con le rape al mattino poi, spesso, non mangiavo sino a sera. Non avevamo scarpe, usavamo le zampitte, una specie di sandali fatti con il cuoio delle vaccine (…). Le scarpe erano solo per i benestanti. I soldi li avevano in pochi. Potavo gli ulivi per dieci giorni e dovevo attendere la fine dell’anno per avere il compenso”.
Antonio e la fatica del lavoro a giornata, è nel canto che trova il suo riscatto. La sua immagine, nei documenti video o nelle fotografie, non è mai cambiata. Coppola in testa, viso asciutto, figura filiforme come lo sono le sculture di Alberto Giacometti, una mantella scura addosso ad attribuirgli un atteggiamento ieratico e fiero. Sul modello, forse, dei cantori di una arcaica Magna Grecia, area anticamente colonizzata da popoli e culture elleniche che anche in Puglia hanno lasciato le orme del loro passaggio. Certamente riservato e schivo, lontano da ogni clamore. Detentore di un sapere appreso e trasmesso di bocca in bocca, esempio straordinario di quella cultura orale che è patrimonio di chi la crea, la pratica e poi la diffonde.
“Ho sempre cantato, fin da bambino (…). I canti li ho imparati a parole andando davanti agli agnelli e alle pecore, tenevo una bella voce (…). Nelle feste di San Rocco, a Natale e Capodanno si cantava in piazza, altrimenti i festeggiamenti erano in casa. I testi si passavano così. A voce, non erano scritti. Solo nel dopoguerra alcune persone sono arrivate e si sono interessate ai nostri canti”.
È a partire dagli anni Cinquanta che le ricerche degli etnomusicologi si indirizzano anche nelle zone della Puglia. Leggendario il viaggio dello studioso americano Alan Lomax che nel 1954 si sposta lungo la penisola italiana alla ricerca di cantori popolari e dei loro repertori legati alle tradizioni locali. Lo scopo è documentare quelle esibizioni, registrarle per conto della World library and primitive music e, con la collaborazione della Bbc, canale produttore della trasmissione sul folk “Terzo programma”, far conoscere e diffondere quel patrimonio antropologico, culturale, etnologico, oltre che musicale, per realizzare un atlante sonoro della musica folk italiana e del mondo.
Un’impresa titanica come quella di Lomax era pensata per preservare e rendere pubblica quell’immensa eredità che in Italia e in altre zone rischiava di restare sepolta dalle macerie della guerra o dal cemento di nuove costruzioni, edifici, strade, ponti che stavano cancellando il paesaggio rurale e tutte le manifestazioni più genuine di una cultura autentica, quella di chi stava ai margini della grande storia.
Il suo viaggio comincia a Roma, al Centro nazionale studi di musica popolare, dove l’etnomusicologo Giorgio Nataletti cura un archivio sonoro tra i meglio conservati in Europa. Ma ascoltare le registrazioni non gli basta, intende assaporare dal vivo il suono di quelle voci uniche di contadini, marinai, pescatori, minatori, braccianti e mondine disseminati lungo la penisola, incontrarli di persona e registrare i loro accenti, le melodie, le storie dietro a un canto. Là dove nessuno è ancora giunto. Raccogliere suoni con un microfono, appuntare parole su un taccuino, fissare ritratti con una macchina fotografica. Ad affiancarlo c’è un giovane studioso, allievo di Ernesto de Martino, Diego Carpitella. Il 23 e il 24 agosto del 1954 i due ricercatori sono nel borgo foggiano. Sono loro i primi a documentare i cantori di Carpino e sempre a loro va il merito di aver salvaguardato un repertorio vario e multiforme, nei ritmi e nelle melodie, che annovera la celebre Tarantella del Gargano.
Il materiale registrato viene raccolto in “Southern Italy and the Islands”, disco edito negli Stati Uniti nel 1957. Nel libretto allegato Lomax e Carpitella descrivono uno spaccato di vita nelle campagne italiane: “I pastori nativi del montuoso Gargano preferiscono una chitarra arcaica chiamata chitarra battente. D’estate essi scendono ogni giorno verso le rive del lago, spingendo innanzi le greggi. Mentre le donne lavano i panni e i ragazzi pascolano le pecore, gli uomini tirano le reti dalle acque del lago cannoso. A mezzogiorno, quando il sole invita al sonno, alcuni giovani innamorati prendono la loro piccola chitarra e cantano con un antico canto cavalleresco, in forma di lamento (strambót), modulando la voce in uno stile alto, sottile, agonizzante, tipico di questi pastori”.
Nel 1966 è la volta di Diego Carpitella che torna in questa regione con l’etnomusicologo Roberto Leydi. Lo scopo è di registrare una serie di canti da inserire nello spettacolo in programma a Milano, costruito su repertori popolari eseguiti non da cantanti di revival, ma da cantori originali. Sentite buona gente, prima rappresentazione di canti, balli e spettacoli italiani, curato da Roberto Leydi con la consulenza di Diego Carpitella, andrà in scena al Teatro Lirico di Milano con la partecipazione dei Cantori di Carpino, ovvero: Rocco Di Mauro, Andrea Sacco, Gaetano Basanisi, Giuseppe Conforte, Angela Gentile e Antonio Di Cosmo.
Nel programma del concerto si sottolinea come le voci vive dei contadini, dei pastori, degli operai di Carpino e di tutte le atre località italiane in cui sono stati rinvenuti e poi selezionati i canti originali, siano, insieme ai balli, agli strumenti tipici, alle manifestazioni della loro civiltà “testimonianza della presenza attiva della cultura popolare nel mondo moderno”.
Al sito dell’Archivio sonoro di Puglia un breve spezzone dello spettacolo.
Degli anni Settanta, riferisce Salvatore Villani, è un’antologia sulla musica tradizionale italiana curata da Roberto Leydi in cui sono inserite alcune delle registrazioni effettuate a Carpino nel 1966. Edita dalla casa discografica Albatros, con il titolo “Italia vol.1” e “Italia vol. 3”, comprende una canzone, ovvero Dë primë amorë të venë a salutajë e una tarantella, dal sonetto Pigghiëtë questa lettera che ijë t’ammannë.
A proposito della tarantella, le parole di Leydi che accompagnano il disco ne chiariscono l’aspetto di straordinarietà: “Documento di grade autenticità, questa tarantella cantata si colloca all’interno di uno stile musicale che si estende dal golfo Persico al Portogallo e ha le sue propagazioni nelle coplas sudamericane”.
Lo studioso fa inoltre osservare che la tarantella pastorale in questione “esprime, al di là d’ogni stilizzazione colta e d’ogni contaminazione, il carattere di danza di corteggiamento proprio di questo ballo, in forme dure, violente, cariche di aggressività e di represso furore panico”.
Qualche tempo dopo, anche il compositore partenopeo Roberto De Simone, insieme ai musicisti Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò, si avventura alla scoperta dei canti e delle musiche popolari di Carpino. Ne nasce l’album “Lo guarracino” (1971), realizzato con la Nuova compagnia di canto popolare.
Di nuovo Carlo D’Angiò ed Eugenio Bennato con Musicanova, esperienza di ricerca sul canto folk, incideranno l’album “Garofano d’ammore” (1976), rendendo i sonetti e gli stornelli carpinesi celebri in tutto il mondo. Ancora nel 2011 Piccininno si esibirà a Napoli con l’orchestra sinfonica e il coro del teatro San Carlo con direzione artistica di Eugenio Bennato, a suggellare un profondo legame artistico. Intero album:
https://www.youtube.com/watch?v=3vAgPDM07Xk
Anche Giovanna Marini svolge numerose campagne di ricerca nella zona del Gargano e del Salento. Resta colpita dai cantori, al primo incontro: “Sono lì, seduti, sorridenti – racconta nella sua autobiografia –.Una mattina mi son svegliata sotto un ulivo, in un’oasi di pace. E si mettono a cantare. E capiamo subito che ci troviamo di fronte a veri cantori in funzione. Cantano e suonano sui loro strumenti, costruiti da loro, Sacco ha la sua chitarra battente, e accompagna con una grazia unica le sue tarantelle (…). Siamo alle origini, ho un groppo in gola, dopo tanti anni che mi interrogavo su questo materiale così bello ma così evidentemente non vero, abbiamo toccato i veri, e ce ne siamo accorti immediatamente”.
Negli anni Ottanta si aggiunge l’indagine sul campo di Ettore de Carolis, del 1987, depositata nel Centro nazionale studi di musica popolare di Roma. Negli anni Novanta quella di Salvatore Villani, confluita nelle incisioni di “I cantatori e suonatori di Carpino”, pubblicato dalla casa discografica Nota di Udine.
Esplorazioni e approfondimenti si susseguono, facendo emergere anche la storia stratificata del gruppo. Si scopre, infatti, che i Cantori di Carpino si costituiscono attraverso un continuo avvicendarsi di più figure, musicisti e cantori, a partire dal 1924. Spicca il nome di Andrea Sacco, nato a Carpino il 10 ottobre 1911, rimasto nel gruppo per il maggior numero di anni. A lui si deve il merito, oltre ad aver reso celebre per lungo tempo il repertorio dei canti di Carpino, di aver reintegrato l’uso della chitarra battente, che verrà così realizzata artigianalmente nelle botteghe dei liutai carpinesi. Strumento nato nel Cinquecento, ha il pregio di produrre una grande quantità di armonici che si amalgamano con la voce umana diventandone uno straordinario accompagnamento nel canto.
Sacco, del resto, era nato in una famiglia di cantatori e suonatori di musica tradizionale: il padre Carmine era suonatore e cantore, e come lui gli zii Matteo, Michele, Vincenzo, ne segue le orme. Contadino fino alla Guerra d’Etiopia, tra il ’35 e il ’36, a causa della quale viene chiamato al fronte. Fatto prigioniero e trasferito in varie località, rimane lontano da Carpino per tredici anni. Rimpatriato, viene assunto come dipendente comunale con il ruolo di messo.
Il suo talento di cantatore e suonatore è ampiamente riconosciuto. Come anche la memoria prodigiosa, che gli ha consentito, fino alla sua scomparsa, di essere depositario di centinaia di sonetti. Il più noto di questi è Donnë che st’affacciatë a ’ssa finestrë, seguito da Vidë che bella lunë che belli stellë
conosciuto, grazie soprattutto alla versione della Nuova compagnia di canto popolare, come la Tarantella del Gargano.
Nel documento audiovisivo Andrea Sacco racconta a Eugenio Bennato la sua storia di suonatore e cantore.
Nella seconda parte sempre l’anziano cantore spiega a Eugenio Bennato, nel suo studio di registrazione, quali sono gli accordi dello stile carpinese. Anno 1998. Andrea Sacco, “la voce del Gargano”, si è spento il 17 marzo 2006, all’età di novantacinque anni.
Ma la memoria del canto alla carpinese è rimasta viva anche grazie all’immenso lavoro di Antonio Piccininno, autore della più completa collezione di sonetti – ben trecento – da lui raccolti, messi per iscritto e pubblicati nel volume Alla Carpinese. Il sonetto garganico nei canti popolari di Carpino. Un’operazione di grande rilevanza sociale di conservazione di un patrimonio orale, immateriale, labile e troppo sensibile per mantenersi nel tempo nel suo aspetto di autenticità.
“Ho cominciato la mia ricerca con tutte le persone anziane del paese (ben cinquantatré informatori) – racconta Antonio nell’intervista citata – e ho raccolto i sonetti. Trent’anni di lavoro il cui risultato è in questi quaderni (…); ci sono le parole e ho trascritto anche la musica”.
Nel 2007 i Cantori di Carpino si esibiscono con Antonio Piccininno, novantadue anni, ai Mercati di Traiano ai Fori Imperiali.
Antonio Piccininno è mancato il 9 dicembre 2016 all’età di cento anni.
Buon giorno Zì Antonio! – Antonio Piccininno è un incredibile film documentario in cui Piccininno il cantore racconta la sua vita e la sua avventura musicale.
Dunque, Antonio Piccininno, Andrea Sacco e poi Antonio Maccarone.
“Non avrei mai pensato che proprio noi ‘cafoni’ perseguitati arrivassimo a essere ossequiati, ricercati”, racconta incredulo Maccarone a Valter Giuliano che lo incontra nella sua abitazione in Contrada Rotonda. Perseguitati perché in diverse occasioni la polizia intervenne per gli schiamazzi delle loro serenate per le strade del paese.
Nato il 21 luglio del 1920, diversi anni li trascorre a Milano, in una fabbrica che lavora metalli preziosi, per poi mettersi in proprio in un’attività di importazione di prodotti alimentari provenienti dal Meridione. Ma il borgo di Carpino, con la sua musica, è sempre rimasto nei suoi pensieri, e vi è ritornato. È nel piccolo centro del Foggiano che Antonio Maccarone impara a cantare e suonare la chitarra a cinque anni, quando, sempre solo ad accudire capre e pecore nella masseria del padre, trova la compagnia di una chitarra. Negli anni le chitarre diventano due e con una tammorra a Carnevale si fa il giro delle case, la sera, a suonare stornelli, a ballare per le strade.
“Spesso si suonava e si cantava anche per dimenticare la pancia vuota, la fame. Un bicchiere di vino e un po’ di fagioli recuperati con la questua e la pancia si riempiva”, racconta.
E poi ci sono le serenate, un rito antico di seduzione legato alla riscoperta di canti tipici di un lontanissimo passato, spesso a ritmi vertiginosi tanto da far perdere il controllo e cedere all’abbandono di un abbraccio, della musica o dell’amato. “La serenata si faceva davanti alla casa della ragazza da conquistare – spiega Maccarone – e quando era gradita i genitori aprivano la porta, offrivano le sedie e vino per suonatori e cantori”.
A costituire il repertorio delle serenate carpinesi sono tipicamente i sonetti d’amore (sunèttë). Le serenate si svolgevano durante tutto l’anno tranne che nel periodo quaresimale. Era previsto l’uso degli strumenti della tradizione popolare e contadina come la chitarra battente, ma in alcune occasioni venivano suonati anche strumenti a fiato come il clarinetto e la trombetta. L’usanza sopravvive fino alla seconda guerra mondiale, e si perde con la diffusione delle radio che diffondono tra i giovani altre musiche. Tra i tanti canti d’amore: Non të l’È dittë ’na parola malë/ Lucë lu solë quannë jè bontempë.
Oppure J’ejë truvatë la stratë dëlla fatë/ Fënestrë fammë tu l’ambasciatorë.
e Donnë che va’ e vinë da Casertë/ Accomë j’eja fa’ p’amà ‘sta donnë.
Altri canti spesso eseguiti sono i “sonetti di sdegno” e di “strammurt”: i primi “si facevano per strada – racconta Maccarone –, non davanti all’uscio, altrimenti ci avrebbero presi a schioppettate (…). Era una sorta di minaccia preventiva nei confronti dell’amata di cui si temeva il tradimento”. In altri casi, invece, servivano a disonorare la donna determinando così violenti litigi tra famiglie, a cui seguiva inevitabilmente la rottura del rapporto amoroso.
Un esempio di Sunèttë d’amore e dë stramurtë: Che bellë ramajettë di vijolë/ Occhji nirë capillë
Lu sunèttë e la canzònë rappresentano le due principali forme poetico-musicali di Carpino. Le sunèttë, all’esecuzione, hanno un andamento sillabico e vengono eseguite durante le serenate o durante il lavoro nelle campagne, mentre la canzònë presenta un canto a distesa con lunghe note tenute in cui si distinguono due cantori a voci alternate o una voce solista. Come La canzonë dëlla Madonnë, canto tipico del venerdì Santo.
Il canto era una clessidra che scandiva i momenti della giornata della comunità carpinese. Se i sonetti di sdegno provocavano conflitti, non mancavano poi i canti di riappacificazione come Stamë ’n guerrë pë’ la bella mijë;
i canti di lagnanza o di scuse.
Ma anche i canti di partenza, di buonasera e di saluto; canti satirici, per il ballo, quelli di questua, religiosi, o narrativi. Ogni musica è accompagnata da un ballo, in alcuni casi con finalità di corteggiamento o di divertimento, in altri con scopi benefici, legati al rito del tarantismo: rappresentavano il momento della liberazione del tarantolato colpito dal morso del ragno, e con lui di tutta la comunità che partecipava all’evento.
Il ballo di combattimento, invece, denominato la sghermë, vedeva sfidarsi due uomini che, l’uno di fronte all’altro, dotati di bastoni o canne, con il dito indice dovevano colpire l’avversario sul petto. Chi veniva toccato lasciava il posto al successivo sfidante.
Tarantella per la sghemë:
Oltre alla varietà dei canti e dei balli, diversi sono anche gli stili della musica di Carpino: la Montanara, la Rodianella, la Vistesana i principali. La tarantella eseguita alla “Montanara” è in tonalità minore, come Lassatëlë abballà chistë zëtillë,
mentre più squillante è quella alla “Rodianella” che è in maggiore. Come la Rodianella in si bemolle
La tarantella alla “Vistesana” è, invece, una combinazione dei due stili precedenti.
Uno straordinario patrimonio al cui fascino non è stata insensibile la grande artista napoletana Teresa De Sio, protagonista di un’operazione di recupero, sia dei canti che delle voci che li hanno intonati, garantendo loro memoria. È lei a coinvolgere i Cantori di Carpino, insieme a Matteo Salvatore e Uccio Aloisi, nel suo musical Craj, scritto con la collaborazione di Giovanni Lindo Ferretti e diventato successivamente il film omonimo di Davide Marengo, sulla musica tradizionale pugliese, presentato nel 2005 alla 62° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
In un backstage Teresa De Sio e i Cantori di Carpino. “Loro sono stati i miei maestri – racconta De Sio –, se non ci fossero stati loro la mia strada nella musica sarebbe stata diversa”.
Dagli anni Novanta la tradizione carpinese risuona grazie a una formazione che fa convivere figure storiche insieme a giovani musicisti. Formazione che si è fatta promotrice di uno solido legame tra passato e futuro, vecchie e nuove generazioni in perfetto dialogo. La musica è rimasta la stessa, riproposta così come è nata.
E perché questa finalità resti intatta l’associazione culturale “Carpino in folk” organizza eventi di rilievo artistico e di forte richiamo per studiosi e appassionati, promuovendo e valorizzando il territorio proprio attraverso l’elemento culturale più tipico: la musica popolare.
“Sono contento che oggi ci sia una rivalutazione e soprattutto che la storia non si sia conclusa con noi – dice Maccarone – (…). Io sono ignorante di musica e suono a orecchio perché ho imparato da chi mi ha preceduto (…). Non conosco le note ma ho una cultura musicale. Noi abbiamo potuto trasmettere le sonorità originali, abbiamo insegnato queste note basse che sono la nostra caratteristica”.
Antonio Maccarone si racconta in una scena dal film Craj.
Un breve omaggio ad Antonio Maccarone.
Antonio Maccarone è mancato nel luglio 2009, maestro informatore della tradizione musicale carpinese. Oggi i Cantori di Carpino sono composti da: Nicola Gentile (tamorra e voce), Rocco Di Lorenzo (chitarra battente e voce), Gennaro Di Lella (chitarra acustica), Rosa Menonna (castagnole) e Antonio Rignanese (chitarra battente).
Nel 2000 è stato realizzato il film documentario di Maurizio Sciarra Chi ruba donne, prodotto da Fandango e Rai, in cui si racconta la storia dei tre vecchi cantanti: “Andrea ha 89 anni, Antonio 80 e il più giovane, Antonio, 78 – si legge nella presentazione –. Tre cantanti di Carpino in provincia di Foggia. Tutti e tre lavorano nei campi e pascolano il bestiame, ma si sono sempre considerati dei cantanti di serenate, hanno composto e cantato sonetti che, secondo loro, fanno innamorare. Il caso vuole che un giovane musicista di successo, Eugenio Bennato, senta un vecchio nastro registrato da un antropologo: ‘soltanto pochi secondi di una strana danza, e la voce di un vecchio, che spiccava col ritmo straordinario del suo dialetto. È stata la rivelazione di un mistero italiano: il paesaggio assolato e perduto del nostro Sud. Una tarantella solenne e disperata che non aveva niente a che fare con la solita oleografia del folklore del Sud e di Napoli. Erano i cantanti di Carpino quello che stavo ascoltando’”.
Tra i momenti più suggestivi l’incontro con Andrea Sacco. Si narra la storia dei suoi inizi, i gruppi di cui ha fatto parte e quelli che lui ha fondato. E poi si ascolta la serenata con la sua più famosa tarantella Donna che stai affacciata alla finestra, conosciuta anche come Garofano d’ammore, composta quando faceva la corte alla ragazza che sarebbe diventata sua moglie. Nel film è cantata davanti alla tomba della moglie. Lì di fianco è lui stesso a mostrare quello che sarebbe stato il loculo in cui voleva essere seppellito. Ma di Andrea Sacco resta anche il suo motto: “Io non morirò mai perché chi canta non muore mai”, e il suo saluto tipico, ironico e favolistico insieme: “Buona notte a tutti quanti. Pure al lupo!”.
Il trailer:
Il documento audiovisivo I protagonisti si raccontano venti anni dopo propone una riflessione sul medesimo film documentario a distanza di due decenni, alla presenza del regista Maurizio Sciarra, di Massimo Bray assessore alla Cultura, Tutela e Sviluppo delle imprese culturali Regione Puglia, di Luciano Toriello, direttore della casa di produzione Mad, di Domenico Procacci, produttore Fandango, del produttore esecutivo Carlo Cresto-Dina, di Nicola Gentile, musicista, di Eugenio Bennato, musicista e protagonista.
Eugenio Bennato, scopritore e promotore della musica carpinese, ai leggendari Cantori ha dedicato la sua Carpino, Italia.
Chiara Ferrari, autrice del libro appena uscito in libreria Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi. Edizioni Interno 4; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno4 e Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato sabato 11 Settembre 2021
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/ce-taranta-e-taranta-i-cantori-di-carpino/