“Centrale è, nell’esperienza del gruppo torinese, il recupero della memoria della Resistenza […] contro i tentativi di restaurazione e di oblio che la cultura conservatrice degli anni Cinquanta opera nei confronti dell’esperienza partigiana”, scrive Stefano Pivato.
Da qui parte questo viaggio che attraversa decenni, aree geografiche, autori. Parte da chi la Resistenza l’ha attualizzata, resa presente. Nel 1960. Parte dal “gruppo torinese”, da Cantacronache.
Chi sono? Musicisti, poeti, letterati della Torino di fine anni Cinquanta. Dal 1958 al 1962 scrivono canzoni, cantano, incidono dischi, creano un pubblico di giovani, di intellettuali, collaborano con una vastissima schiera di artisti: poeti, scrittori, registi, cantanti, pittori. Capiscono che anche in Italia, come in Francia o in Germania, la canzone deve guardare alla realtà. Smettere di essere uno strumento di evasione e raccontare, invece, i fatti di cronaca: le stragi, le morti ingiuste, la disoccupazione, le disparità.
Michele Luciano Straniero, Sergio Liberovici, Emilio Jona, Fausto Amodei, Margherita Galante Garrone (Margot) sono i protagonisti, a cui si aggiungono, con le loro collaborazioni, scrittori e poeti come Mario Pogliotti, Franco Fortini, Italo Calvino, Umberto Eco e Gianni Rodari. Giovani che descrivono il Paese da una prospettiva critica e anticonformista, denunciando, protestando e riconsegnando alla memoria collettiva fatti e momenti di storia sociale e politica. Disegnano un’immagine alternativa a quella di un’Italia smagliante e spensierata proposta, per esempio, dalla canzone leggera in voga in quegli anni di pieno “miracolo economico”. È nel recente documentario CANTACRONACHE 1958-1962: politica e protesta in musica (nel video qui sopra) che emerge il racconto inedito del contesto culturale, politico e sociale dell’Italia di fine anni Cinquanta, ricostruito attraverso le canzoni e le biografie degli autori torinesi. Un racconto che annoda fili interrotti, memorie, trame che hanno il loro fulcro nell’esperienza resistenziale, i cui valori diventano così necessari negli anni della ripresa di un governo filofascista come quello di Ferdinando Tambroni.
Illuminanti le parole di Ferruccio Parri, stampate sulla copertina del disco Cantacronache 3, che inquadra i torinesi come giovani “spiriti spregiudicati e insieme sorvegliati”, mossi dal desiderio di innovare, uscire dalla norme convenzionali della scrittura musicale, “neoeroi della Resistenza”, che sentono viva alle loro spalle la lotta di Liberazione e possono cercarle una voce nuova: “L’interesse grande del loro nuovo canzoniere partigiano – scrive – nasce innanzitutto dalla dimostrazione che una lotta popolare e nazionale di liberazione è diventato fatto fondamentale della storia del popolo quando se ne impadroniscono i giovani”.
E i giovani Cantacronache nei loro testi, in modo innovativo, mettono in primo piano proprio l’aspetto della memoria, la volontà di riaffermare quell’esperienza di lotta e riattualizzarla nel presente. Farsene carico, e non senza rischi. “Bisogna dire”, scriveva infatti Straniero, “che in quei tardi anni Cinquanta parlare di Resistenza era (…) quasi un delitto”.
Giusto per entrare in quel contesto si può rilevare come, per esempio, solo dopo la caduta del governo Tambroni (luglio 1960) una circolare del nuovo ministro della Pubblica istruzione, Giacinto Bosco, disponeva che l’insegnamento della storia alle superiori non si fermasse alla prima guerra mondiale ma che giungesse fino alla Costituzione. Mentre per quanto riguarda lo strumento più diretto della comunicazione di massa, la televisione, sempre solo dopo la fine del governo Tambroni, la Rai propose le prime trasmissioni sulla Resistenza. Tra il 1961 e il 1965, invece, anno del ventesimo anniversario della Liberazione, attraverso i programmi televisivi, avvenne il passaggio dalla rimozione a un’ufficializzazione della Resistenza che ne banalizzava, però, i contenuti. Si passò, cioè, “dall’oblio alla costruzione di una memoria pubblica astrattamente apologetica”, una memoria che si sovrapponeva “alle molteplici e differenti – talora opposte – memorie private senza riuscire a risolverle in sé, senza aiutarle a riconoscersi come parte di un processo”, scrive Guido Crainz. Una celebrazione retorica sui temi del riscatto nazionale e del sacrificio che tendeva a tradursi “in sermoni pedagogici e di scarsa efficacia”. Infatti, questa impostazione del racconto storico lasciava ai margini problemi cruciali come “l’identità nazionale: o meglio i differenti modelli d’identità nazionale che allora si vennero a scontrare”.
In questo contesto offrono un valido commento le riflessioni di Jona sull’approccio utilizzato da Cantacronache per raccontare la Resistenza. Essa, dice, “cominciava a essere guardata con un occhio diverso. Non serviva una celebrazione mitologica, ma concreta: i partigiani erano i nostri fratelli maggiori”.
Partigiani Fratelli Maggiori infatti, è una delle canzoni che esplicita chiaramente il tema della fratellanza ideale con i partigiani, un bisogno di dichiarare l’antifascismo come valore comune e di costruire un legame forte tra il passato e il presente.
“Eravate partiti cantando/la speranza nel cuore, occhi aperti, sulla montagna,/eravate partiti sognando./Noi sapemmo di favole strane,/noi ragazzi, e di guerre lontane per l’Italia,/noi fratelli minori inesperti”.
Fratelli minori, appunto. E inesperti. Una nuova generazione di giovani cresciuti dopo la guerra, ma pronti, nonostante tutto, a raccogliere una dolorosa eredità: una battaglia ancora da combattere.
“Una voce nell’ora dei morti/ci ha chiamati alle vostre bandiere con l’Italia/a vegliare la fiamma sui monti;/ma se un giorno tornasse quell’ora,/per i morti che avete lasciato sulla montagna,/partigiani, chiamateci ancora!”
“Chiamateci ancora”, scrivono i Cantacronache, pronti a dimostrare con l’arma della canzone, quanto l’istruzione, la cultura e la politica di quegli ultimi anni Cinquanta e primi Sessanta, fossero lontane dall’aver sedimentato l’esperienza resistenziale. Estromessa dai programmi didattici nelle scuole di ogni ordine, era argomento ignoto alle nuove generazioni: “Se cerchiamo sui libri di storia/se cerchiamo tra i grossi discorsi fatti d’aria/non troviamo la vostra memoria”, scrivono, infatti, i torinesi.
Così, se i libri ancora non raccontavano, non spiegavano, non elaboravano, cominciavano a esserci le canzoni. Canzoni che quella memoria nutrivano e tenevano viva.
*Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato venerdì 16 Ottobre 2015
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