Come è noto, la definizione di ‘Giusti tra le Nazioni’ indica coloro che, tra i non ebrei, in qualsiasi modo hanno aiutato gli ebrei a sottrarsi alla persecuzione nazista e fascista. Si trattava di un aiuto disinteressato, dettato da elementari regole di umanità e compassione e, in seguito, se si vuole, da una protesta contro le omicide leggi razziali delle dittature.
Naturalmente coloro che si dedicarono a prestare aiuto rischiavano grosso, infatti si trattava di azioni illegali: nascondere, aiutare la fuga di intere famiglie, soccorrere anche materialmente, avvertire gli ebrei di un imminente rastrellamento… Il salvataggio poteva assumere molte forme.
Si poteva agire individualmente, in gruppi, o addirittura in intere comunità, come nel caso del paese di Nonantola, che nell’estate del 1942 accolse quasi cento ragazzi ebrei e poi ne organizzò la fuga in Svizzera.
Dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca e l’inasprimento delle leggi antisemite della Rsi, la posizione degli ebrei italiani si aggrava: sono dichiarati nemici e la possibilità di essere consegnati alla mercé dei nazisti diventa reale. Carabinieri, questure, tedeschi, Brigate nere, delatori di ogni gente collaborarono alla ricerca e all’arresto degli ebrei italiani. È da qui che parte la ricerca di Olindo Domenico, storico dell’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Verona.
Dopo approfondite ricerche di archivio, Domenichini può documentare come nella Questura di Verona alcuni funzionari e sottufficiali non solo aiutarono il movimento partigiano veronese, ma furono anche attivi nel salvare i concittadini ebrei (circa trecento, di cui trentaquattro finirono annientati nei lager). L’ordinanza di polizia del 30 novembre 1943 di Buffarini Guidi disponeva la raccolta degli ebrei nel suolo controllato dalla Rsi in ‘appositi campi di concentramento’, preludio naturalmente ai campi sterminio.
Domenichini segue le vicende di alcuni uomini della Questura veronese e del loro opporsi alla deportazione e a quella che ritenevano una legislazione disumana. Come scrive Stefano Biguzzi nella prefazione a questo libro, l’autore racconta «la vicenda di quei ‘questurini invisibili’ che a Verona, nelle tenebre della guerra civile e dell’occupazione tedesca, vollero e seppero alimentare una fiamma di umanità segnando con un gesto salvifico il destino di tante vittime innocenti».
Autentico eroe di questa storia è a mio parere, assieme al vicecommissario Costantino, al commissario capo Guido Masiero e al commissario aggiunto Gagliani, il vicebrigadiere Felice Sena. Nella ricerca degli ebrei veronesi, Sena fu il più attivo e allo stesso tempo il più felicemente inefficace, infatti, come documenta l’autore, tutte le sue ricerche finirono in un nulla di fatto, tutti gli ebrei ricercati dal vicebrigadiere non si trovano e ogni indagine si risolveva sistematicamente con un “esito negativo”. Sono centocinquanta i rapporti ufficiali che si chiudono in questo modo. Purtroppo però a volte non bastò la salvifica inefficienza del vicebrigadiere: dei trentaquattro ebrei veronesi mai ritornati, nessuno fu catturato dalla Questura ma alcuni furono rintracciati dai tedeschi, alcuni da polizie esterne alla provincia di Verona, il resto da altri soggetti, come le SS italiane.
Scrive lo storico veronese che il comportamento di questi giusti «portava con sé grandissimi rischi, che il vicebrigadiere probabilmente decise di correre anche perché sapeva di poter contare sulla solidarietà e sull’appoggio dei suoi diretti superiori».
La felice inerzia di settori della Questura non è infatti spiegabile esclusivamente con una serie di iniziative a livello individuale e con l’assoluta ignoranza dei vertici dell’ufficio di Polizia, si può ipotizzare allora un’azione combinata di Sena, Gagliani e gli altri sovrintesa da una silenziosa accondiscendenza dei vertici. Si può anche aggiungere che a Verona non si ebbero mai retate simili a quella romana del 16 ottobre 1943, fatta salva – ovviamente – la diversità dei numeri tra la comunità ebraica romana e quella veronese.
Bisogna ricordare, tuttavia, che rastrellamenti come quello romano o quello veneziano del 5 e 6 dicembre 1943, poterono contare sulla fattiva collaborazione degli uffici di polizia, in particolare a Venezia si impiegarono circa 1.500 agenti nella caccia all’ebreo.
Si deve ricordare inoltre che operare a Verona in favore degli ebrei non era facile: la città era sede di ministeri repubblichini, della Guardia nazionale repubblicana e del BdS Italien, cioè il servizio di sicurezza in Italia dei tedeschi al comando di Wilhem Harster, da cui dipendeva la sezione B4 guidata dal maggiore delle SS Friedrich Bosshammer, esperto di affari ebraici e responsabile dei prigionieri politici e degli ebrei dall’Italia.
Anche L’Arena, il quotidiano della città, contribuiva a creare un clima di strenuo antisemitismo, nel quale, a dicembre del 1943, si diffondeva un appello radio della Rsi che intimava di non avere «sentimenti per loro [gli ebrei, ndr], che sono nemici e come tali vanno trattati».
In una nazione divisa in due, travolta dalla guerra, abbrutita dal regime fascista, la sostanziale indifferenza alla sorte degli ebrei degli italiani fu riscattata da uomini e donne che in nome della solidarietà umana aiutarono o cercarono di aiutare gli ebrei, entrando, però, in un pericoloso spazio di disobbedienza civile alla legalità razziale del regime fascista.
Il vicebrigadiere Felice Sena, che a quanto pare non ha mai raccontato né si è si vantato in alcun modo di quanto compiuto, ricorda il Bartleby di melvilliana memoria, colui che seppe dire “no” alla perversione razziale del regime in un modo indimenticabile, infatti ogni indagine da lui svolta aveva già un esito previsto, appunto un “esito negativo”.
Pubblicato domenica 10 Dicembre 2023
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