È possibile mettere in relazione due esperienze di vivere la Liberazione confrontando due scrittori molto diversi di fronte al medesimo fatto storico.
Si tratta di Italo Calvino e Mario Rigoni Stern: entrambi hanno scritto alcune pagine dedicate al 25 aprile 1945.
Calvino, nato nel 1923, si può a buon diritto definire un classico contemporaneo, scrittore dalla dimensione complessa e globalizzata; Rigoni Stern, nato nel 1921, è uno scrittore legato al suo microcosmo, l’altopiano di Asiago. Rispetto a Calvino, Rigoni Stern è scrittore dall’humus più originario di un veneto non localistico né superficiale.
Il 25 aprile 1945 dov’erano sia l’uno che l’altro?
L’alpino Rigoni si è fatto la campagna di Grecia, di Russia e poi, dopo l’8 settembre, è stato internato in un lager tra la Polonia e la Lituania e poi in Austria, passando «venti mesi tra i reticolati»; il 25 aprile lo sorprende in Austria in fuga dal lager o, forse, già in cammino per l’Italia.
Calvino è precocemente antifascista, educato in una famiglia di intellettuali antifascisti e democratici; dopo l’armistizio, è partigiano in Liguria nelle Brigate Garibaldi; il 25 aprile lo sorprende tra i boschi delle Prealpi liguri.
In Rigoni Stern l’esperienza della guerra e in Calvino quella della Resistenza appariranno cariche di un significato irreversibile e contribuiranno al processo della definizione di sé; per il primo, in particolare, la guerra sarà il detonatore della scrittura.
Inizialmente convinto della necessità della guerra fascista contro la Russia comunista, Rigoni Stern scopre ben presto (i segnali c’erano già stati in Grecia) l’impostura del regime laddove questi doveva dispiegare al massimo la sua volontà di potenza e così il compimento del proprio dovere da parte dell’alpino Rigoni Stern coinciderà con la comprensione dell’ingiustizia della storia e del regime.
Calvino non ha bisogno della guerra per essere antifascista, la decisione di passare alla Resistenza armata fu per il l’autore de Il sentiero dei nidi di ragno come incrociare una causa e farla sua: la Resistenza coinciderà con la sostanza vitale della sua esistenza, come ricorderà in un memoria autobiografica dal titolo Un’infanzia sotto il fascismo.
Calvino salirà in montagna, Rigoni Stern in montagna ci è nato.
Calvino: «Per molti di noi, fin da ragazzi, rifiutare la mentalità fascista voleva dire innanzitutto rifiutarsi di amare le armi e la violenza; l’inserimento nella lotta partigiana armata significò innanzitutto il superamento di forti blocchi psicologici dentro di noi. Ero venuto su con una mentalità che poteva condurmi più facilmente a fare l’obiettore di coscienza che il partigiano; e a un tratto mi trovavo in mezzo alla lotta più cruenta… quel che saltò fuori fu lo spirito partigiano, cioè una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e di autoironia sulla propria stessa fierezza guerriera, di senso di incarnare la vana autorità legale e di autoironia sulla situazione in cui ci si trovava a incarnarla, un piglio talora un po’ gradasso e truculento ma sempre animato da generosità, ansioso di far propria ogni causa generosa».
Rigoni Stern: «Per noi era sempre fame e sempre fame. Volevano stremarci per farci aderire alla Repubblica Sociale di Mussolini e arruolare nell’esercito di Graziani […] arrivarono, parlarono: patria, fedeltà, onore, dovere, il patto d’acciaio, i nemici bolscevichi e quelli demoplutocratici […] un mese d’istruzione in campi appositi in Germania e poi in Italia a combattere i barbari invasori: “voi che avete dato gloria alla patria combattendo in Francia, in Grecia, in Russia, fate un passo avanti!”
Noi vecchi sergenti: Baroni, Dotti, Bertazzoli, io […] facemmo un passo indietro […] non sapevamo ancora delle camere a gas e di quello che succedeva nei campi di sterminio, né degli esperimenti che i medici tedeschi facevano su centinaia di ebrei e di prigionieri e donne russe. Non sapevamo. Ma avevamo visto le fosse comuni in Ucraina, le donne ebree costrette a pulire nella tormenta le stazioni ferroviarie polacche, i partigiani impiccati, i prigionieri russi che venivano mitragliati, i bambini affamati».
Come si vede sono due forme di Resistenza: una dall’interno dell’esercito regio, da intendersi come sospensione, sottrazione, rinuncia all’azione, disobbedienza potremmo anche dire: non era facile resistere all’arruolamento obbligatorio in condizione di cattività come nel caso di Rigoni Stern; e una dall’esterno, in Calvino, come passaggio all’azione partigiana, e cioè il polo opposto dell’«apparente viltà» di cui scriverà Rigoni Stern in un altro testo. L’altra Resistenza [1], potremmo dire nel caso di Rigoni e dei tanti internati militari nei lager tedeschi, la prigionia che diventa il luogo di una riconsiderazione del fascismo e di un processo di maturazione etica e democratica.
Dopo la battaglia, i bombardamenti, le esecuzioni, i rastrellamenti e il catalogo degli assenti, per Calvino si tratterà di ritornare alla vita civile. Il suo 25 aprile inizia con l’incendio di un bosco, l’odore dei pini bruciati, la città a valle, Sanremo, i tedeschi e i fascisti che si ritirano verso Genova e, infine, la scoperta inaudita della libertà: «ricordo che vidi due uomini anziani col cappello che venivano avanti chiacchierando di fatti loro come in un giorno di festa qualsiasi, ma c’era un particolare che fino al giorno prima sarebbe stato inconcepibile: avevano dei garofani rossi all’occhiello… posso senz’altro dire che quella fu la mia prima immagine della libertà nella vita civile, della libertà senza più il rischio della vita, che si presentava così con noncuranza, come fosse la cosa più naturale del mondo».
La liberazione dal nazi-fascismo è solo una delle necessità della Resistenza, e per Calvino il movimento partigiano, che fu una costellazione di molti nomi e disposizioni politiche e civili, salvò la nazione dalla totale indecenza storica in cui il fascismo l’aveva fatta piombare.
La Resistenza per Calvino è attraversata da una luce geometrica, una luce che separava dal buio e dall’opaco: i contrasti erano chiari e definiti. Poi verrà il dopoguerra, il 1948, e tutti a mettere la sordina all’eccezionalità, e direi moralità, dell’esperienza partigiana [2].
Il 25 aprile 1945 Mario Rigoni Stern non sa dove si trova con precisione, anzi non sa nemmeno che sia il 25 aprile, sicuramente è in fuga da Graz, l’ultima tappa della sua prigionia; nel lager vicino alle miniere di ferro dell’Eisenberg ha visto e sentito SS, bombardamenti, fame, morte, ma anche echi di cannibalismo tra i sui compagni di prigionia: gli enigmatici soldati mongoli.
Poi la fuga dal lager austriaco, sicuramente tra il 24-25 aprile, e un camminare infinito verso Asiago. Quanti chilometri ha percorso, a piedi tra Grecia, Russia, Austria, Italia?
Il 25 aprile è sicuramente per strada dalle parti del Brennero, la notte si orienta con le stelle.
La liberazione arriva per Rigoni Stern quando entra in Italia, o meglio, ad Asiago; sarà al sicuro ma è un ritorno estraniato, non liberatorio: il lager, le baracche, i reticolati: «camminavo da centinaia di km e attorno restavano sempre queste cose: mi attorniavano come un abito, reali, non di impressioni o di aria, e non riuscivo a liberarmene forse neanche tentavo, anche se fisicamente ero riuscito a scappare e a camminare, come fossi libero, per pianure per boschi e montagne fino al giorno in cui l’acqua discese dall’altro versante. La neve di queste ultime montagne, che avrebbero dovuto essere le mie, era ancora neve di steppa… anche la pianura e la festa per la liberazione, in quel maggio del’45, non erano ancora per me. Non mi accorgevo delle rondini, del canto dei tordi, del suono delle campane, delle api sui colchici, perché avevo ancora i comandi urlati come frustate su un animale che non reagisce. Neanche la strada dove avevo giocato, la casa dov’ero nato, la tovaglia bianca sotto la luce riuscivano a estraniare la fame, il freddo, le battaglie, le morti innaturali, il lager».
È un testo bellissimo; all’elencazione delle cose che fanno il ritorno a casa (naturali e umane, e anche la luce sulla tovaglia, insomma la forma di vita dell’Altipiano) corrisponde una medesima elencazione di cose che non fanno il ritorno a casa, un serie di cose che non fanno liberazione.
Forse bisognerebbe leggere l’autore de Il sergente nella neve alla luce del suo sacrificio, alla luce, cioè, della partecipazione alla guerra che gli permise di vedere le miserie del regime. Per lui la liberazione, che arriverà più tardi e avrà un senso apolitico rispetto alla politicità di Calvino, si presenta piuttosto come una riappropriazione dell’umano: «una mattina sentii battere una scure sul fianco del monte: un rumore nuovo. La scure di un legnaiolo, non la mitragliatrice, e lo avevo percepito.
Camminai per il sentiero, quasi corsi sul filo del suono e quando fui vicino mi fermai. Alzando la testa vide che lo guardavo; mi salutò sorridendo; staccò da un ramo la borraccia di legno, fece spillare l’acqua e me la porse: “vuoi bere?”, disse».
Sebastiano Leotta, docente di storia e filosofia al liceo “Cornaro” di Padova
[1] Mi riferisco alla memoria di A. Natta, L’altra Resistenza uscita nel 1997
[2] In un articolo del 1974 Calvino ricordava non solo «l’atmosfera oscurantista che il predominio democristiano dopo il 1948 porto con sé» ma anche i compromessi di cui fu responsabile Togliatti
Bibliografia:
Calvino, Il mio 25 aprile 1945, in Saggi 1945-1985, vol. 2, Milano 1995.
Rigoni Stern, Dov’ero il 25 aprile?, in Storie dall’Altipiano, Milano 2003
Pubblicato venerdì 22 Aprile 2016
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