Rileggere “Il clandestino” il romanzo di Mario Tobino sulla e nella Resistenza, oggi a distanza di molti anni dalla prima lettura, ha suscitato in me emozioni profonde.
Alcune, grazie alla scrittura leggera e appassionata di Tobino, sicuramente fra i più rilevanti scrittori della seconda metà del Novecento in Italia; altre, perché adesso sono più consapevole della storia reale dei personaggi a cui Tobino si ispirò per costruire, attraverso la sua sapiente penna, i protagonisti di questo romanzo. Anche se lui ha sempre dichiarato, come scritto in apertura del libro, che tutto sia immaginario e frutto della sua fantasia. Personaggi, però, che erano quasi tutti suoi compagni e amici nella vita privata così come nella lotta politica. A iniziare da quel professore di liceo che porta i suoi ragazzi in montagna alla domenica per discutere con loro di filosofia e di vita. E sarà quel professore, nella realtà rintracciabile in Giuseppe De Freo, ad essere uno dei primi mentori di un gruppi di giovanissimi antifascisti, che su quegli stessi monti poi diverranno partigiani. E non è un caso se all’ingresso del liceo classico di Viareggio sia stata posta una lapide che ricorda i nomi degli studenti di quegli anni che si fecero onore nella lotta di Resistenza. Oppure, per parlare di altre analogie con la realtà, quell’ammiraglio Saverio che prende vita nel romanzo di Tobino, che tanto assomiglia al colonnello Alberto Brofferio, comandante del Balipedio dal 1932 al 1935, che, insieme al suo attendente, fece saltare in aria il Balipedio e tutte le armi che così non caddero in mani tedesche. Ed è difficile, per chi conosca la storia resistenziale della città, non ritrovare nella tobiniana Rosa quella splendida figura di antifascista e partigiana, Medaglia d’Oro della Resistenza, Vera Vassalle.
E questo solo per citare pochi esempi di assonanze.
Il romanzo tobiniano, premio Strega 1962, l’anno di pubblicazione, si ambienta a Medusa, nome di fantasia che sta a significare Viareggio, la sua città natale.
La storia inizia con la caduta del dittatore il 25 luglio del 1943. Medusa era già famosa stazione turistica e il sonnolento procedere della stagione estiva fu scosso come un temporale agostano. A Medusa esisteva un gruppo clandestino che non aveva mai compiuto gesti eclatanti, ma c’era ed era attento alla realtà che lo circondava. L’autore evidenzia che la Resistenza, fin dai suoi albori, fu vissuta soprattutto dai giovani. I più anziani, quelli che avevano subito le violenze del fascismo o il carcere, erano solitari, isolati nei loro ricordi e nei loro sentimenti e noiosi agli occhi dei ragazzi, pervasi di entusiasmo e spontaneità.
Ha un qualcosa di epico, e scanzonato insieme, la scena in cui i nostri eroi partono in bicicletta e in diciannove, col fucile sul manubrio per la primissima organizzazione, che avrà come base la casa in collina di uno di loro. Eppure tutto sembra esser spontaneo nel loro agire, lo slancio entusiastico ha il sopravvento anche se sono consapevoli di essere in pochi, per nulla organizzati, privi di risorse. Politicamente si collocano a sinistra, riescono a definirsi marxisti o leninisti, ma non sono del tutto consapevoli del significato di queste parole, non hanno ancora avuto contatti col partito, li avranno in seguito, quando la situazione evolverà e non sempre si troveranno d’accordo con l’organizzazione centrale.
Tobino, da par suo, ci presenta una galleria di personaggi ben delineati, vivi, appartenenti a classi sociali diverse: si va dal laureato al muratore e al calafato. Memorabili il Summonti, detto il “prete rosso”, futuro commissario politico, e l’ammiraglio Saverio, vecchio monarchico, sognatore e aristocratico, appassionato della Regia Marina. Insieme alla sua amante, la sensuale Nelly. E poi il Mosca, il calafato Adriatico, il filosofo Duchen, il borghese e benestante Roderigo, che mette a disposizione beni e strutture. Non manca il dottor Anselmo, l’alter ego tobiniano, alto e biondo, occhi azzurri; è reduce dalla Libia per una ferita e vive un momento di stanchezza, di debolezza, vuole solo dimenticare le brutture della guerra, ma poi, poco per volta, prende coscienza della necessità d’impegnarsi, anche perché ha sempre detestato il fascismo e la mancanza di libertà. Diverrà il “diplomatico” e l’autista del gruppo e sarà uno dei primi ad agire sul serio, con le armi, al momento opportuno. Ciascun personaggio seguirà un suo itinerario di consapevolezza e formazione e ciascuno sembra venire valorizzato, nell’azione, per le proprie effettive qualità.
Se questi sono gli eroi del romanzo, cui vanno le simpatie dell’autore, i fascisti non costituiscono una massa indistinta, ma vengono descritti. Nelle loro fila ci sono personaggi con la vocazione dell’aguzzino, semplici opportunisti o persone convinte dell’assoluta bontà del regime, come Oscar, il segretario del fascio, uomo d’ordine, che “aveva sempre identificato la patria, l’onore, l’onestà, la dignità nazionale, perfino la civiltà, col fascismo”.
Tobino traccia anche con distacco e nettezza il carattere voltagabbana della stragrande maggioranza del popolo italiano. Un popolo che ha osannato il dittatore e il suo regime e che il 25 luglio, dopo 20 anni di asservimento conigliesco lo caccia addossandogli tutte le colpe. Perché la guerra è dura e fa morire. Ma lo caccia alla maniera italiana: senza spargimenti di sangue o chissà cosa. Lo fa come si condanna un ladro di polli in tribunale, scrive l’autore. E il giudice è quel Gran Consiglio del fascismo dove siedono i più scuri, i più favoriti, i peggiori. E quel Gran Consiglio scaricò su di lui e solo su di lui le responsabilità, dice Tobino.
Nel libro c’è poi la sequela di ammiccamenti del 26 luglio. Il giorno in cui i fascisti meno “duri e puri”, gli opportunisti e coloro che stanno sempre dalla parte di chi comanda si incontrano per strada autoconvincendosi che loro antifascisti lo erano sempre stati. E nelle parole dell’altro ne trovano conferma a patto che confermino al loro interlocutore il suo antifascismo. Una avvilente operetta di quarto ordine. A Medusa, come nelle altre città, la gran folla dei cittadini ha come preoccupazione dominante il cibo, la propria salvezza, lo stretto egoismo. Non dimostrava di avere altri scopi, scrive con precisione Tobino. Solo nelle case del clandestino e dei fascisti rinati dopo l’8 settembre le porte si aprono non solo per il loro interesse personale. Ma secondo il Mosca, uno dei protagonisti del libro: “L’Italia è fatta così. C’è sempre stata una gran miseria e i buffoni sono sempre stati applauditi”. Perfetta e triste metafora di un’Italia che è dura a morire.
Andrea Genovali, scrittore. Con Viareggio 1920 ha vinto il premio “Scrittore toscano dell’anno 2011” indetto dalla Regione Toscana e dalla Fiera del Libro Toscano
Pubblicato mercoledì 8 Marzo 2017
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