Nel 1973 Giancarlo Carcano, giornalista Rai, dava alle stampe il testo più completo sugli avvenimenti che insanguinarono Torino nei giorni 18-19-20 dicembre 1922. Nel 2022, nel centenario di quei fatti, il libro è stato rieditato, a cura della Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci, grazie all’impegno di un consigliere comunale di Torino, già dirigente della Cgil e dell’Anpi, Pierino Crema, che ha coinvolto soggetti e istituzioni per la pubblicazione e ha aggiunto al testo di Carcano la documentazione raccolta da Francesco Rèpaci dal 1922 al 1924, pubblicata nel ’72 dalla Camera del Lavoro di Torino col titolo La strage di Torino con un testo del 1930 di Francesco Frola, deputato socialista, allora rifugiato in Argentina.
Il libro La strage di Torino, Una storia italiana dal 1922 al 1971, Impremix edizioni, Torino 2022, è pertanto la più ricca pubblicazione su quei fatti e una lettura emozionante, perché le voci di chi ha vissuto quei momenti rendono con efficacia l’atmosfera di stupore, sbalordimento e terrore con cui la popolazione dovette assistere all’aggressione delle squadracce fasciste, alla complicità delle autorità e alla connivenza di vari ambienti.
La strage di Torino è ricordata da una lapide che il 30 gennaio 1946 la Giunta popolare del Comune di Torino volle affissa davanti alla seconda stazione ferroviaria della città, rinominando la piazza “XVIII dicembre”. Questa nuova denominazione, non per caso, sta al primo posto dell’elenco di sessanta luoghi con cui la Giunta volle ricordare «uomini ed episodi ben degni d’essere raccomandati all’avvenire, poiché si riallacciano alla liberazione della patria», modificando la toponomastica.
Questa decisione, assieme alla posa di centinaia di lapidi, ha costruito la mappa della Torino antifascista, delle violenze fasciste e dell’eroismo di tanti giovani, donne e uomini, insomma gli itinerari della rivolta popolare, per cui, ogni giorno, e non solo il 25 aprile, le strade raccontano quella storia di cui dobbiamo essere orgogliosi.
Ricordare quella vicenda che si colloca agli inizi della sciagurata avventura di Mussolini è ora più che mai essenziale, perché permette di ricostruire come e con quali metodi il fascismo si impone anche in una città dal forte movimento operaio e da una robusta tradizione liberale.
Gli inizi del secolo a Torino sono anni di grande vitalità, nascono le società operaie e le cooperative: una rete diffusa di luoghi di socialità. Lo sviluppo dell’industria meccanica, favorito poi dalla guerra, collocherà Torino al terzo posto in Italia per dimensioni e numero degli insediamenti produttivi. Torino è anche prevalentemente neutralista, rispetto al primo conflitto mondiale, e quindi le forze nazionaliste sono poco presenti. I socialisti in questa situazione, da Edmondo De Amicis in poi, raggiungono una presenza tra le più importanti d’Italia.
Già nel 1897, nelle elezioni di marzo, «Il Piemonte è la regione che fa il maggior balzo in avanti, triplicando i voti socialisti e diventa la zona più rossa» in Italia [1].
È la città di Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, Teresa Noce; è la città de L’Ordine Nuovo, la città di Piero Gobetti e de La Rivoluzione Liberale.
Vicenda emblematica è la “rivolta del pane” che esplode in pieno conflitto, nell’agosto del 1917, contro la guerra e la fame: giornate in cui decine di migliaia di lavoratori, con le donne in testa, protestano nelle strade, subiscono la violenza della repressione, ma non si piegano.
Sono anni in cui, in una città di 500.000 abitanti circa, il movimento operaio porta in piazza ogni volta nelle manifestazioni un numero di dimostranti vicino ai 100.000, con le donne in prima fila, le donne che non possono votare, ma durante la guerra sostituiscono gli uomini nel lavoro di fabbrica, per cui cresce il loro protagonismo.
Nel 1916 diventa Segretaria della Camera del Lavoro di Torino una donna, Maria Giudice, poi segretaria anche della Federazione del Psi. Per i moti del ’17 viene arrestata e tenuta in carcere fino al 1919; al processo interviene a sua difesa Antonio Gramsci; una donna a capo della più grande organizzazione operaia. Il 20 febbraio del 1919 a Torino tra industriali e Fiom viene concordato il riconoscimento delle otto ore, accordo raggiunto prima di quello nazionale, per cui Gramsci definisce la città la “Pietroburgo d’Italia” e, su suo impulso, nell’autunno ’19 nascono i Consigli di fabbrica, eletti da tutti i lavoratori.
A Milano, a marzo, si sono costituiti i Fasci di Combattimento, ma Torino non avverte ancora la presenza delle camicie nere. Il 1°maggio ’19 esce il primo numero di Ordine nuovo; a luglio esplode la protesta contro il caro viveri: vengono assaltati i mercati e i negozi, la rivolta nasce in Borgo S. Paolo e si estende a tutta la città; lo scontento è contro i “pescecani di guerra” che nel periodo bellico si sono arricchiti, contro i licenziamenti delle donne che, al ritorno dal fronte degli uomini, hanno perso il lavoro. Quali siano le forze in campo a Torino si vede in quel 1° maggio 1919: il Comitato dei fasci, “schiera sparuta di militanti senza voce e senza mezzi” [2], tiene una riunione di coordinamento con qualche associazione di possibili alleati, ma contemporaneamente davanti alla Camera del Lavoro 70.000/80.000 persone celebrano la Festa dei Lavoratori e attraversano poi la città in corteo.
Sembra non avvertirsi quanto già altrove semina morti e assalti alle sedi dei lavoratori, alle Leghe, ai circoli, alle case del popolo. In effetti a Torino i Fasci di combattimento faticano a formarsi: nel 1919 hanno appena 92 iscritti, nel 1920 gli iscritti saliranno a 188, nel 1921 sono 205, solo nel 1922 diventeranno 565, numero per altro esiguo date le dimensioni della città. È un segno della difficoltà del fascismo a penetrare e svilupparsi a Torino; la diffidenza di molti ambienti, la forza della sinistra socialista, ma anche l’improponibilità degli esponenti del fascismo sono elementi a favore di una specie di estraneità che la città esprime in questo momento. Nel novembre ’19 si vota per le elezioni politiche; i socialisti in città ottengono il 62,8 %, quasi il doppio della percentuale raggiunta a livello nazionale (32,4 %), dove il Psi si attesta comunque come primo partito.
Nel 1920 continuano le battaglie per i salari. Tra marzo e aprile si apre lo scontro con lo “sciopero delle lancette” che culmina nello sciopero generale che impegna tra i 100.000 e i 200.000 operai, ma fa registrare una sconfitta sui consigli di fabbrica, perché gli industriali, la Fiat, inaspriscono le loro posizioni. Il 1° settembre, contro la serrata tentata dalla proprietà, le fabbriche vengono occupate, più di 100 sono in mano agli operai. Alla fine di settembre l’occupazione termina con un accordo che sancisce la fine di quello che si chiama “Biennio Rosso”, che, non solo a Torino, muta la dislocazione e gli orientamenti delle forze economiche, sociali e politiche.
Poco dopo, nel novembre 1920, si vota per le amministrative di Torino. I fascisti sono presenti nel “Blocco d’ordine” con i Liberali, che, come in tutto il Paese sta accadendo, si illudono di ammorbidire il carattere dei nuovi alleati. Gli industriali torinesi li finanziano. Sono 48.899 i voti che il Blocco raccoglie e 48.742 i voti dei socialisti, che registrano ancora una forte presenza; una piccola differenza che, per i meccanismi elettorali, consegna la vittoria al Blocco, nonostante le contestazioni durate a lungo e le accuse da sinistra di brogli. All’inizio del ’21 l’offensiva fascista comincia a crescere anche a Torino, ma l’Avanti e la Camera del Lavoro sono presidiati e difesi, pur nel clima che si è fatto più duro, così come sono difesi i circoli operai nei vari borghi. Il giornale Ordine nuovo pubblicava una rubrica “Terrore bianco”, in cui ogni giorno vengono denunciate le imprese del “vitellame fascista”, ma il fascio torinese non osa aggredire la sede del giornale e solo dopo la marcia su Roma sarà la polizia a occuparlo, per lasciare liberi i fascisti di distruggere tutto.
Nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1921 la Camera del Lavoro è assaltata dai fascisti che, con la connivenza delle Guardie Regie, la devastano, fracassando ogni cosa, anche i muri, per poi incendiarla. Il libro di Carcano raccoglie una ampia documentazione fotografica della furia con cui le camicie nere si accaniscono su tutti i locali, sugli arredi e su ogni cosa.
Il 15 maggio del ’21 si vota per le elezioni politiche: il Psi ottiene il 29,35% e il Partito comunista, fondato a gennaio, il 16,63 %. Sono dimensioni della sinistra ancora significative, ma con l’elezione del fascista Cesare De Vecchi, il più votato del Blocco nazionale, il fascismo raggiunge il momento più alto, anche nei confronti dei suoi alleati.
Le tensioni continuano, e anche gli scontri, ma a ottobre, nei giorni della marcia su Roma, le squadre fasciste sanno di non potere occupare la città come richiesto, si accontentano di restare accampati in corso Cairoli davanti alla sede del fascio e Torino resta sostanzialmente antifascista.
“I quartieri operai possono contare su una solida capacità di organizzazione politica e su una radicata solidarietà comunitaria. Le osterie, le case del popolo, i circoli operai di Barriera di Milano, di Barriera di Nizza, Borgo San Paolo, Borgo Vittoria diventano sedi e simbolo della resistenza al fascismo ”[3].
La forza dell’antifascismo torinese si misura ancora il 25 novembre con le elezioni della cassa di disoccupazione dei metallurgici: 14.356 voti vanno ai comunisti, 12.895 ai riformisti e 2.035 ai popolari su cui erano confluiti i voti fascisti.
Ormai però gli industriali hanno scelto il fascismo e il quotidiano torinese “la Gazzetta del Popolo” scrive: “I metodi forti al giorno d’oggi sono molto più efficaci che le blandizie e l’ulteriore azione, continuata con sistemi fascisti, potrà dare buoni risultati finali”. Siamo sull’onda delle posizioni di Mussolini, che il 20 settembre a Udine dichiara: “La violenza è risolutiva, perché alla fine di luglio e di agosto in quarantotto ore di violenza sistematica e guerriera abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in quarantotto anni di prediche e di propaganda. Quindi quando la nostra violenza è risolutiva di una situazione cancrenosa, è moralissima, è sacrosanta, è necessaria”. [4]
Quindi è solo scatenando una azione di una violenza inaudita che, dal 18 dicembre per 3 giorni, le squadracce del gerarca Brandimarte, composte di delinquenza politica e di delinquenza comune, tentano di piegare Torino.
“L’eccidio del 18-20 dicembre è un evento che ha impresso un marchio di sangue e di terrore a lungo incancellabili nella memoria di Torino. Non si tratta solo degli 11 morti accertati (ed è certo possibile, come suggerisce Carcano, che ce ne siano stati altri, non denunciati da parenti e compagni per timore di incorrere in rappresaglie) e del numero ancora più alto di feriti: no, la strage, anche nelle sue modalità di violenza brutale ed efferata scatenata non contro precisi bersagli ma quasi, per così dire, sparando nel mucchio, ebbe una valenza simbolica. Espresse il rancore del fascismo tutto intero (anche al di là delle pur significative differenze interne) nei confronti di una città la cui popolazione, in grandissima parte operaia, gli era sempre stata estranea o ostile”. Così Aldo Agosti nella introduzione al volume.
La mattina del 18 dicembre, i fascisti vengono mobilitati e chiamati anche da fuori città, per vendicare l’uccisione di un fascista seguita a una aggressione a un tranviere che spara per difendersi. “I nostri morti non si piangono, si vendicano”, scrive Brandimarte in un manifesto che viene affisso in città. Sono circa 3.000, organizzati in squadre che scorrazzano per la città sui camion, devastano locali e case, aggrediscono e uccidono e lasciano a terra i cadaveri nelle strade.
Giancarlo Carcano racconta come si scatena la ferocia. Ha condotto un lavoro minuzioso su fonti di archivio, raccogliendo ricordi di diversi militanti, ricostruendo le azioni con cui le vittime vengono massacrate, ed è un racconto che ha dell’incredibile.
La prima vittima è Carlo Berruti, 40 anni, consigliere comunale comunista, segretario del sindacato ferrovieri; viene sequestrato nel suo ufficio da un manipolo di fascisti, portato in auto in campagna, fatto scendere e ucciso sparandogli nella schiena. Il giorno dopo un collega Angelo Quintaglié, ex brigadiere dei carabinieri, viene ucciso in ufficio perché aveva espresso parole di cordoglio. Nel pomeriggio in un’osteria, l’esercente Leone Mazzola viene massacrato e il locale devastato. È la punizione per essersi lamentato dell’aggressione ai presenti. Era iscritto all’Unione monarchica.
Matteo Chiolero, simpatizzante comunista, è ucciso mentre in casa si sta mettendo a tavola, davanti alla moglie e alla figlia di 2 anni. Anche Andrea Chiomo viene prelevato in casa e massacrato in strada, 25 anni, comunista. Il viceprefetto può scrivere al ministro dell’Interno all’indomani: “Complessivamente fra i sovversivi risultano ieri uccisi 8 individui”. Occorre ricordare che dal mattino del 18 in prefettura sono riuniti vice-prefetto e vice-questore e con loro siedono in permanenza le squadre di Brandimarte. Alle 23 viene fermato davanti alla Camera del Lavoro, dentro cui bivaccano indisturbati i fascisti, Pietro Ferrero, segretario della Fiom. Riconosciuto, viene aggredito a calci e bastonate, viene poi legato a un camion per un piede e trascinato per la città, come un trofeo, infine abbandonato a terra, ancora vivo, ma ormai un povero corpo martoriato, poco lontano dalla Camera del Lavoro. Raccolto da un passante, all’ospedale sarà dichiarato morto.
Nei due giorni seguenti con le stesse modalità e la stessa ferocia prosegue la caccia all’uomo, proseguono le uccisioni, anche di cittadini estranei alla vita politica.
La ricostruzione di Carcano percorre le vie della città, i luoghi, le case, i circoli, le sedi di questa feroce follia, fa parlare i testimoni ancora in vita che dovettero assistere impotenti a questo orrore senza poter opporre alcuna reazione capace di fermarlo. Troppo grande la disumanità di fronte a cui si coglie il respiro di una città sbigottita, terrorizzata e sconvolta, su cui aleggeranno poi le parole di Mussolini al prefetto: “Come capo del fascismo mi dolgo che non ne abbiano ammazzati di più”.
Carcano delinea anche personaggi e autorità che non vollero riconoscere la gravità della situazione, o comunque tacquero, attribuendo alla presenza dei “bolscevichi” la causa scatenante. Ecco come Riccardo Cattaneo, sindaco di Torino, illustre e stimato giurista, liberale, commemorò il consigliere comunale massacrato, Berruti (dal verbale del C.C. del 23 dicembre): dopo aver espresso compianto per i due fascisti caduti, conclude «era naturale che il lutto cittadino producesse il risentimento o fors’anche la reazione contro coloro che predicano e volgarizzano dottrine dissolvitrici di ogni ordine sociale e della dignità nazionale, ed armano la mano di ignoranti o di illusi, fatti feroci dalla parola e talora dagli incitamenti altrui». Condannata la ferocia delle vittime, il sindaco esprime a Mussolini consenso per la pacificazione della città. L’anno successivo verrà ricompensato con la nomina a senatore.
Persino il rapporto steso da Giovanni Gasti e Stefano Giunta, incaricati dell’inchiesta fascista sui fatti di Torino, dovrà dire: “Quello che supera ogni credibilità è che nei tre giorni dei disordini neppure un’ordinanza di servizio, neppure un fonogramma circolare di istruzioni, di direttive, di disposizioni fu diramato dal reggente la Questura agli uffici dipendenti, ai comandi dei carabinieri e delle guardie regie. Mentre quindi la cittadinanza viveva ore di angoscia e di ansia, di fronte all’imperversare della raffica fascista e all’incalzarsi delle notizie degli omicidi e degli incendi, mentre essa mirava con stupore le camicie nere pattugliare armate per la città, fermare i tram, perquisire i cittadini, scorrazzare in automobile ed in camion, la Questura rimaneva silenziosa e più che silenziosa, assente”.
Nello stesso rapporto si legge: “La letizia osannante dei fascisti nello sfondo rossastro dell’ardente rogo nel giorno di tante uccisioni pareva avere macabre risonanze” [5]. Il rogo è ancora una volta quello della Camera del Lavoro. Le vittime furono seppellite in silenzio e in solitudine perché il massacro lasciò stupefatti e terrorizzati i torinesi, e tre giorni dopo la carneficina, Mussolini concede l’amnistia “per le azioni ispirate a fini coincidenti con quelli dello Stato”.
L’edizione di Carcano del ’73 in quarta di copertina sintetizza così: “Questo libro è la storia di un massacro, di alcuni processi e di molte assoluzioni: una storia italiana dal 1922 al 1971”. Infatti la narrazione non si esaurisce con la ricostruzione attenta e ampia della ferocia, del terrore che assedia Torino per giorni, dello smarrimento di una popolazione indifesa, a cui fanno osceno scenario gli schiamazzi, le urla di guerra, le strofe berciate di “Giovinezza”. Il lugubre svilupparsi per le vie della città del funerale dei due fascisti morti, che rappresentano la giustificazione di tanta crudeltà, una specie di parata militare, è come un trionfo della morte, il trionfo del potere, rispetto a cui in silenzio e in solitudine sono accompagnate nella sepoltura le vittime, che sono certamente più di quelle riconosciute.
Carcano dedica l’ultima parte del libro agli anni successivi, alle modalità con cui il fascismo riconosce la strage come sua, alle carriere dei fascisti criminali, a chi non ha visto, a chi stenderà un velo di omertà sui fatti, anche dopo la Liberazione.
Il generale della Milizia Piero Brandimarte, primo responsabile della strage ed esecutore, viene arrestato il 29 maggio 1945. L’istruttoria durerà dal 1946 al 1950, quando a Firenze, dove è stato spostato da Torino, il processo ha inizio, per poi riprendere in appello a Bologna nel ’52. Brandimarte, con altri squadristi, è assolto per insufficienza di prove.
Nel novembre 1971 a Torino Brandimarte muore e viene seppellito con gli onori di un picchetto di bersaglieri della Repubblica.
La ricostruzione di questa lunga storia, frutto di un accurato lavoro sui verbali delle udienze del tribunale e su articoli di giornale, traccia un aspetto della storia del Paese, che dall’uso dell’amnistia nel dopoguerra, con i processi ai partigiani, fino alla rottura dello spirito unitario della Resistenza, ha archiviato l’antifascismo.
Sull’Unità del 5 maggio 1952 Celeste Negarville, già sindaco di Torino, dirà di fronte all’assoluzione: “Ritrovino gli antifascisti, di fronte a quest’oltraggio e a quest’insulto uno stimolo alla loro unità per vincere le minacce di altre stragi, le velleità dei vecchi e dei nuovi Brandimarte”.
A chi non vuole definirsi antifascista, non è fuori luogo ricordare questa storia, per intendere che cosa ha significato il fascismo, che certamente a Torino “non ha fatto cose buone”, ma ha rivelato la sua essenza criminale, oltre ogni necessità, come nelle tante stragi, e come troppi hanno accettato per difendere interessi. Il libro ci ricorda anche come troppo facilmente siamo riusciti a dimenticare, o meglio abbiamo falsificato la storia, per non fare i conti fino in fondo, come sarebbe stato necessario.
Ricordare i fatti di 100 anni fa e come l’orrore sia stato assorbito, ci può convincere che non si possono ignorare segnali e segni di un rischio che i padri e le madri costituenti avevano ben chiaro nel momento in cui hanno affidato alla democrazia e alle sue forme il compito di allontanarlo. Se vediamo le crepe nella nostra società e le riconosciamo, possiamo difenderci e difendere la democrazia.
Maria Grazia Sestero
[1] Paolo Spriano, Torino operaia e antifascista, Einaudi, p.53;
[2] Valerio Castronovo, Torino, Laterza,1987, p.236;
[3] Nicola Adduci, Barbara Berruti, Bruno Maida, La nascita del fascismo a Torino, Torino, 2020, p. 110;
[4] Aldo Cazzullo, Mussolini, il capobanda, Milano, 2022, p.59
[5] Nicola Adduci, Barbara Berruti, Bruno Maida, La nascita del fascismo a Torino, cit., 125.
Pubblicato domenica 28 Maggio 2023
Stampato il 25/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/torino-1922-la-madre-di-tutte-le-stragi-fasciste/