“Speriamo che giunga presto il giorno in cui si vedrà la fine di tutto ciò”. L’auspicio riguarda la guerra e in particolare la tragica esperienza dei militari italiani nella spedizione fascista di Russia durante il secondo conflitto mondiale. Lo scrive in una lettera alla madre Sestilia il caporale ventenne Otello Taborri, che da quelle terre lontane non fece più ritorno (morì durante la ritirata nel 1943). Ora la sua storia, simile a tante altre dei suoi giovani connazionali, è contenuta in un libro (edito da Chillemi, 2024, 132 pagine, 12 euro) e scritto a sei mani dai nipoti, Massimo, Otella e Patrizia Taborri. Le fonti principali per ricostruire una biografia che era rimasta finora anonima e sconosciuta anche in famiglia sono le 100 lettere dal fronte del giovane caporale romano. Titolo: Da Montesacro al fronte del Don, 1940-1943, con una prefazione di Matteo De Santis.
La lettera che abbiamo citato è stata la penultima missiva del soldato italiano, una delle più toccanti, forse l’unica in cui Otello Taborri si lascia andare all’emozione. Tutte le altre lettere sono state scritte in forma di resoconti, cronache di una guerra terribile e insensata voluta per saziare le manie di grandezza di Mussolini, una “spedizione” che produsse migliaia di morti. Solo nel quartiere capitolino dove era nato il caporale di cui stiamo parlando, Montesacro, morirono centinaia di ragazzi ventenni o poco più. Alcuni sul Don, altri in Africa, Grecia e Jugoslavia.
Otello Taborri, anche se era romano, era stato arruolato nel corpo degli alpini, una specialità a base regionale o territoriale e che annovera solitamente tra le sue file giovani provenienti dalle valli alpine, o al massimo dall’Abruzzo. Non è stato facile per gli autori, i nipoti del caporale, ricostruire la biografia e il quadro genealogico della famiglia Taborri. Sono partiti quasi da niente e quasi casualmente perché a un certo punto in famiglia è spuntata fuori una scatola contenente le lettere del militare. Così i tre nipoti, coordinati dallo storico Massimo De Santis, si sono messi al lavoro per riannodare i fili di una vita, operazione sempre molto difficile e che ovviamente non si può basare solo sulla memoria. Per ricostruire i fatti occorrono documenti, foto, pezze di appoggio e serve poi la grande capacità di comporre il puzzle.
Otello era nato a Tivoli nel 1920. Il padre, ferroviere, era stato trasferito in quella cittadina da Roma. Lì la famiglia rimase fino al 1926 per poi tornare nella capitale, prima nel quartiere di Montesacro, poi a Valmelaina nel 1933, in un grosso complesso di case popolari, che venne poi ribattezzato Stalingrado per la presenza di decine di famiglie antifasciste. Da Valmelaina Otello partì nel marzo del ’40 poco dopo aver compiuto 20 anni. Anche la sua famiglia era antifascista. Il padre, macchinista a vapore e uno zio, furono entrambi licenziati dall’Azienda ferroviaria nel 1924 a causa delle loro idee contro il regime. Dopo il licenziamento politico il nonno Ermogene trovò lavoro in una cartiera e da Tivoli venne trasferito a Montesacro nello stabilimento Aniene.
Otello ottenne il diploma di radiotelegrafista. Giocando nelle strade di Città Giardino e facendo magari il bagno nell’Aniene insieme ai ragazzi della sua età è molto probabile che abbia conosciuto Lallo Orlandi e Ferdinando Agnini, due nomi importanti della storia della Resistenza in quella zona di Roma.
“Questo libro – spiega Massimo Taborri – avrebbe dovuto intitolarsi Verso l’ignoto, perché è stato voluto soprattutto allo scopo di non disperdere le cento lettere scritte da Otello alla madre e che sono state da lei custodite fino al 1959 e successivamente da mia cugina Otella. Naturalmente non possediamo le lettere da lui ricevute e che con tutta probabilità sono andate perse insieme alla sua persona”. Non si tratta di lettere scritte da un fine intellettuale, perché Otello non lo era e sognava piuttosto un futuro semplice da tecnico o da operaio specializzato. Prima di partire per la guerra aveva infatti cominciato a lavorare alla Mater, un’officina di motori elettrici.
Le lettere sono commoventi dal punto di vista dei sentimenti, ma sono anche un documento della percezione che quei giovani soldati, alcuni di fede fascista, avevano della guerra. La ricostruzione di un immaginario che mutò nel corso dei mesi: dall’entusiasmo iniziale (solo per alcuni naturalmente) alla lenta presa di coscienza del grande bluff del regime. Alcune delle lettere che sono state analizzate per comporre il libro sono molto brevi, altre più lunghe e ragionate. In ogni caso quello che si coglie bene è la preoccupazione di Otello Taborri di non scaricare sulla madre e la famiglia le sue angosce e i suoi dolori. Una delle espressioni ricorrenti nelle missive è “godo di una salute ottimissima”.
La ritirata dal Don verso le località dell’Ucraina da cui i soldati italiani erano partiti si svolse tra il dicembre del ’42 e il gennaio del ’43. E Otello Taborri dal gennaio ’43 interruppe il flusso delle lettere alla famiglia, per otto mesi non si ebbero più notizie di lui. Dopo di che arrivò un telegramma del ministero della Guerra nell’agosto 1943: si dava notizia alla famiglia della morte di Otello Taborri, deceduto in data 20 gennaio ’43. Ma il dolore della famiglia non sarebbe finito lì. Nel luglio del 1945, due anni dopo, arrivò infatti una seconda comunicazione ufficiale: il caporale Otello Taborri – si legge testualmente nella lettera ministeriale – “non ha più dato notizie di sé in seguito agli eventi bellici svoltisi nel gennaio del ’43 in Russia”, concludendo: “si ritiene che egli sia prigioniero o disperso”.
Prigioniero o disperso, una formula che poteva anche far pensare che fosse ancora vivo, per quanto confinato in qualche lager al di là di là degli Urali. Una comunicazione che accese il tormento della speranza con cui la madre Sestilia ha convissuto fino al giorno della morte, avvenuta nel 1959. Ma del destino del figlio si continuò a ignorare tutto: era vivo? era morto? era prigioniero? e dove?
“Fu così – dice ancora Massimo Taborri – che decidemmo come nipoti di Otello, di cercare una risposta, per quanto nessuno di noi, nati dopo il ’45, lo avesse conosciuto. E il primo nostro atto è stato quello di scrivere all’Associazione militare del memoriale di Mosca nell’ottobre del 2021 per chiedere se risultasse tra i militari italiani fatti prigionieri dall’Armata rossa un soldato di nome Otello Taborri”. Dopo l’era Gorbaciov era stato finalmente stilato un elenco dei prigionieri italiani, e l’Associazione di Mosca rispondeva volentieri, come fece anche con i tre nipoti. “Ma Otello, questa fu la risposta, non era nell’elenco. Di conseguenza si doveva dedurre che egli fosse morto durante la drammatica ritirata. Ma dove e come?”
L’Armata italiana in Russia (Armir) arrivò a contare circa 220.000 soldati. Metà di loro non tornarono. Si ritiene che i prigionieri caduti nelle mani dell’Armata Rossa siano stati tra i 60 e i 70mila, una gran parte di loro morì a causa delle marce di trasferimento verso i lager, le marce del Davai, della fame o del tifo petecchiale e non fece ritorno. Gli italiani d’altra parte erano gli aggressori che avevano concorso all’invasione. Altre tre o quattro decine di migliaia morirono invece in combattimento o durante la ritirata a causa del gelo.
Per Otello quella russa è stata l’ultima esperienza militare. Ha combattuto su tre fronti diversi: Alpi occidentali, Grecia e Russia. Ma dove è morto precisamente? Il libro dei nipoti non fornisce una soluzione definitiva dell’enigma. “Noi – dicono i tre autori –naturalmente non possiamo averne la matematica certezza.
Ma è assai probabile che Otello sia morto forse in combattimento o a causa del gelo nella piana di Opyt e che le sue spoglie siano lì, ad una trentina di chilometri dal Don in direzione Ovest, dove era giunto dopo tre giorni e tre notti di cammino ininterrotto, durante il quale ai genieri fu chiesto di abbandonare le pesantissime batterie e gli apparati radio, per trasformarsi a tutti gli effetti in una compagnia d’assalto”. In quella località, infatti, dove i carri armati russi T34 aspettavano gli italiani, si svolse uno dei più sanguinosi tentativi di sfondare l’accerchiamento.
Nel caos più totale tra carcasse di mulo, armi abbandonate, slitte improvvisate che ingolfavano la strada, reparti allo sbando di italiani, ungheresi e tedeschi, la Tridentina che aveva preso la testa della colonna in marcia sostenne il peso maggiore dello scontro e la Compagnia di Taborri perse in poche ore almeno il 60 per cento dei suoi uomini. Otello era tra loro.
Pubblicato domenica 4 Agosto 2024
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/storia-di-otello-caporale-proletario-mandato-da-mussolini-a-morire-in-urss/