È il 1943, siamo nelle Marche. Ancor prima del 25 luglio il movimento clandestino antifascista si era mosso in solidarietà verso la Resistenza jugoslava, raccogliendo fondi e inviando medicinali grazie al collegamento diretto Ancona-Zara. Il 9 settembre la Concentrazione antifascista – il raggruppamento delle principali forze antifasciste che si sarebbe in seguito denominato CNL delle Marche – occupava la redazione del quotidiano “Corriere Adriatico” facendolo uscire per alcuni giorni sotto la propria direzione.

E ancora. Il 12 settembre ad Ascoli Piceno avviene uno dei primi e più rilevanti episodi a livello nazionale di Resistenza condotta da soldati italiani contro gli occupanti tedeschi. Quel giorno le truppe tedesche – dotate di automezzi blindati, mitragliatrici, cannoncini a tiro rapido – miravano alla resa dei militari italiani in città, avieri e reparti di fanteria. Non si aspettavano una reazione tanto decisa e coraggiosa. E se i germanici ebbero la meglio in un primo attacco, dovettero subito fare i conti con una eroica difesa organizzata. Ci furono vittime tra gli italiani ma anche tra i tedeschi, che furono costretti alla fuga. Non riuscirono però a lasciare indenni la città. A dare battaglia furono abitanti appostati sui tetti e avieri. Tra questi ultimi a prendere l’iniziativa furono soprattutto i giovani ufficiali, ventenni per lo più, non gli alti comandi. Per i tedeschi fu una completa debacle, costretti loro ad arrendersi. Però moltissimi resistenti caddero nello scontro a fuoco e vi furono morti anche tra i residenti del capoluogo: una giovane donna di 28 anni e un ragazzino di 17.

Fatti che meritano “di essere riscattati da una lunga e non innocente rimozione”, afferma Ruggero Giacomini, dottore di ricerca in storia dei partiti e dei movimenti politici, nel libro “Vite spezzate” (Affinità Elettive, 2024), dove ricostruisce gli anni della Seconda guerra mondiale dal punto di vista dei civili, stretti tra l’occupazione e le violenze nazifasciste e i pesanti e numerosi bombardamenti anglo-americani: la crudeltà verso gli inermi, la pena di uomini e donne che una catapulta ha scagliato fuori dalla umana esistenza.

Alcuni ritratti di partigiani esposti in una mostra allestita ad Ancona

Dopo gli avvenimenti del 12 settembre, i militari abbandonarono le loro caserme e salirono sul Colle San Marco, a pochi chilometri da Ascoli Piceno, dove, con molti civili, formarono una banda partigiana. “Male armati ed equipaggiati, si batterono duramente contro unità germaniche, subendo dolorose perdite”, si legge tra le motivazioni che hanno portato nel 2001 il conferimento della Medaglia d’oro al Valor Militare alla città. “La popolazione ascolana – continua – non desistette dal proseguire la lotta, partecipando a numerosi scontri, come quelli in località Venagrande, Castellano e Vallesenzana, che furono fra i momenti più significativi della sua irriducibile volontà a partecipare direttamente alla liberazione del territorio”.

Il monumento di Colle San Marco

Oggi su Colle San Marco di Ascoli Piceno un monumento ricorda quelle battaglie e i suoi morti che “calpestando il tradimento dei nazifascisti per primi iniziarono la lotta Partigiana; eroi purissimi col sangue scrissero il loro nome nella storia del mondo libero”, riporta una targa. Ma Giacomini nel suo libro fa di più: parla anche di chi morì senza colpe, perché di passaggio, perché senza più un luogo dove vivere e per tutti gli effetti della guerra, indicando anche la bibliografia per eventuali riscontri e approfondimenti. Un’attenzione davvero rara nei confronti di persone che generalmente vengono connotate da un numero.

Come avvenne l’8 ottobre 1943 a Serradìca, frazione di Fabriano, dove ragazzini raccolgono in aperta campagna un ordigno che riluccica, “simile ad un flacone di sapone”, che scoppia improvvisamente nelle loro mani. Antonia e Mario Poeta, di 9 e 4 anni, muoiono sul colpo, mentre Francesco, l’altro fratellino di 5 anni perde un occhio e una mano e Antonio, loro cugino, rimarrà cieco. A distanza di ottant’anni, la situazione dei bambini e delle bambine coinvolti a vario titolo nei conflitti armati è rimasta la stessa, con gravi violazioni dei loro diritti, nonostante l’approvazione della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo adottata nel 1989.

Dopoguerra nelle Marche (Archivio fotografico Anpi)

“Nel rifiuto della guerra – scrive l’autore – sta uno degli aspetti più sentiti della lotta di Liberazione: un rifiuto crescente, esteso e radicato, antitetico all’ideologia bellicista del regime e che connoterà non a caso profondamente la Costituzione antifascista, quale principale eredità e risultato della Resistenza” che “cercava di indirizzare la rabbia per le bombe verso un rafforzamento della lotta per liberare il Paese dal nazifascismo e affrettare la fine della guerra”, accorpando in un unico quadro italiano ed europeo quanto avvenne nelle Marche da cui provenne tra il 5% e il 6% del movimento nazionale partigiano, più del doppio della media italiana e dove operarono complessivamente 5.000 resistenti, 900 dei quali morirono insieme a 300 civili in rappresaglie nazifasciste, e 600 uomini che si arruolarono nel Corpo italiano di liberazione (32 dei quali caddero in azione).

Giorgia Meloni (Imagoeconomica, Sara Minelli)

Un libro necessario che approfondisce aspetti ancora oggetto di rimozione nel discorso pubblico. Basti pensare all’affermazione di Giorgia Meloni “La fine del fascismo pose le basi per il ritorno della democrazia”. Era il 25 aprile e di più non riuscì a dire, lasciando aperta la possibilità che la fine del fascismo fosse arrivata a causa di un meteorite e non di una guerra anche di Resistenza, snodo decisivo della vita civile italiana.