Durante la lotta di Liberazione, la guerriglia partigiana nella città è in capo, quasi sempre, alla formazioni GAP, cioè «pochi uomini aventi per compito azioni terroristiche contro tedeschi e fascisti» e contro strutture militari e logistiche del nemico (Claudio Pavone). Gran parte di queste formazioni era organizzata dal Partito Comunista. Come è facile intuire, la città può essere uno spazio pericoloso per il gappista, che deve agire in clandestinità rigorosissima. Si tratta di una scelta pericolosa, che richiede determinazione, freddezza, coraggio, rischio altissimo della vita propria e dei compagni. Oltre a questo, notevole era anche il senso di solitudine sperimentato dai gappisti, e paura di essere tradito o scoperto, di subire torture prima che arrivi – liberatoria – la morte. Insomma, un’esistenza durissima e troppo poco conosciuta, a differenza della Resistenza sulle montagne.
Per questo il libro di Alessandro Naccarato, uscito adesso, è prezioso: informato ed esauriente, fa luce sulle vicende dei GAP padovani. Leggendolo, mi è venuto in mente un cupo film di Jean-Pierre Melville: L’armata degli eroi (titolo originale L’Armée des ombres), un film sui partigiani francesi con un grande Lino Ventura. È un film terribile e duro, perché – visti dal regista francese – i partigiani conducono una vita dura, hanno una dedizione assoluta alla causa, dedizione che sconfina nella mancanza di sentimento, fino a eliminare un proprio compagno se questi rischia di tradire o parlare. Clandestinità generatrice di sconforto e logoramento, di ombre, come recita – appunto – il titolo originale. Naccarato scrive che l’aspirante gappista doveva essere determinato, disposto alla disciplina e all’obbedienza, alla segretezza, allo spirito di sacrificio e al coraggio. E forse queste caratteristiche lo renderanno inadatto a ritornare alla normalità dell’Italia repubblicana. Per provare a capirne di più abbiamo chiesto all’autore.
Naccarato, ci può spiegare chi erano i GAP e che cosa li differenziava dai partigiani delle montagne?
I Gruppi di Azione Patriottica furono nominati per la prima volta, con l’espressione Gruppi d’Azione dei Patrioti, in una circolare strettamente riservata, scritta ad aprile del 1943, firmata dalla segreteria del Pci, e attribuita ad Antonio Roasio, all’epoca uno dei responsabili del centro interno del Pci. Il documento spiegava che il partito comunista doveva mobilitare i patrioti italiani per rispondere alle aggressioni fasciste con qualsiasi mezzo, comprese le armi. L’andamento della guerra lasciava intravedere la catastrofe imminente per l’esercito italiano, che subiva continue e sempre più pesanti sconfitte. Inoltre, come dimostrava il successo degli scioperi operai promossi dai comunisti nel marzo del 1943, la situazione sociale ed economica interna era sempre più critica e i segnali di sfiducia e di opposizione verso il regime fascista si stavano diffondendo nel Paese. In questo contesto il Pci iniziò a lavorare per prepararsi ad affrontare una situazione di guerra aperta contro i fascisti e contro i tedeschi. Del resto le esperienze di Francia e Jugoslavia, nazioni confinanti invase dall’esercito nazista con la partecipazione di truppe italiane, indicavano strategie e strumenti per organizzare un efficace movimento di resistenza armata.
Quando nacquero i Gap?
Dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia, il 25 luglio e il crollo del fascismo, le lunghe trattative tra il governo Badoglio e gli Alleati, la crescente presenza di truppe tedesche in Italia con l’obiettivo di occupare i luoghi strategici, i dirigenti comunisti nel settembre 1943 costituirono i Gruppi d’azione patriottica nelle città più importanti dell’Italia centro-settentrionale, con gli obiettivi di contrastare l’attendismo diffuso in una parte della società italiana e delle forze antifasciste, e di combattere in modo diretto con le armi, senza tregua e con determinazione contro i tedeschi invasori e contro i loro alleati fascisti. I Gap furono caratterizzati da alcuni elementi organizzativi: il gappista era un membro del Pci; viveva nelle città, spesso in solitudine e in condizioni drammatiche; eseguiva ordini del comando della Brigata Garibaldi di riferimento; ogni gruppo, o squadra, era composto di 3-4 uomini; tre gruppi formavano un distaccamento; il caposquadra era collegato al commissario del distaccamento e al comandante; queste due figure dovevano partecipare direttamente alle azioni più importanti. Le azioni militari dei Gap dovevano portare la guerra nelle città, rendere la vita impossibile ai nemici, creare un clima di paura e insicurezza per i dirigenti militari e politici fascisti e per i loro alleati nazisti. Il gappista doveva sparare bene con la pistola, l’arma più funzionale alle azioni urbane, fabbricare e maneggiare con disinvoltura ordigni esplosivi, sapere nascondersi e scomparire dalla realtà per lunghi periodi, restando senza contatti e rapporti con nessuno.
Non tutti potevano assumersi un incarico così rischioso, come venivano scelti i componenti dei Gap?
I Gap furono selezionati tra i militanti del Pci in base a criteri severissimi: convinzioni politiche solide, fedeltà totale agli ideali comunisti, obbedienza assoluta agli ordini del partito, capacità fisiche e militari, esperienza e confidenza nell’uso delle armi, coraggio, determinazione, sangue freddo e lucidità di fronte ai pericoli e riservatezza. Le differenze tra i partigiani di montagna e i gappisti furono di carattere politico, militare, strategico. Nelle zone di montagna e di collina i partigiani erano inquadrati in formazioni dirette dalle diverse forze antifasciste, articolate in gruppi numerosi, organizzate per sostenere anche scontri militari aperti e diretti contro i nazifascisti e per controllare parti del territorio dove erano insediate. I Gap erano presenti, salvo rare eccezioni, nelle principali città, erano formati da un numero ridotto di militanti esclusivamente comunisti, avevano il compito di danneggiare le strutture belliche nazifasciste e di uccidere militari, ufficiali tedeschi, fascisti e spie al loro servizio.
Come si organizzarono i gappisti padovani? Lei scrive, anche sulla scorta dello storico Angelo Ventura, che Padova è la città veneta dove nasce e opera la resistenza urbana più importante.
Il professor Angelo Ventura fu il primo storico a cogliere l’importanza della Resistenza a Padova e, in particolare, il fatto che Padova fu l’unica città del Veneto in cui si sviluppò un’intensa guerriglia urbana grazie alle azioni dei Gap. I Gruppi d’azione patriottica padovani furono costituiti per iniziativa del Pci e della Brigata Garibaldi nel gennaio del 1944 e si organizzarono in due gruppi principali attivi fino alla Liberazione: uno nel centro del comune capoluogo e nella zona a nord di Padova attorno a Cadoneghe, e un altro più piccolo che operò fino all’autunno del 1944 nel territorio dove confinano le province di Padova, Treviso e Venezia. I Gap padovani hanno contribuito in maniera rilevante alla sconfitta dell’esercito di occupazione tedesco e delle formazioni collaborazioniste della Rsi. Più in generale, hanno concretizzato la dimensione ideale della Resistenza in azioni armate per colpire con efficacia gli eserciti avversari: uccidere fascisti e nazisti con funzioni politiche e militari di vertice; agire nelle città, distruggendo strutture e risorse nemiche, rendendo insicuri luoghi indispensabili per lo sforzo bellico contro le truppe anglo-americane e impegnando uomini e mezzi altrimenti utilizzabili altrove; eliminare spie e traditori che favorivano la repressione antipartigiana, compito fondamentale nell’ambito di una guerra che coinvolgeva i civili; rispondere alla violenza e al terrore con le armi, costruendo un clima di paura tra i soldati fascisti e tedeschi; costituire un punto di riferimento e di esempio per chi voleva resistere e combattere.
Quali sono le azioni più importanti compiute dai gappisti padovani?
Il lavoro militare e politico svolto dai Gap si può sintetizzare con alcuni dati. Oltre alle numerose azioni di sabotaggio di infrastrutture belliche, e agli attentati falliti a persone e cose, tra i mesi di maggio e novembre del 1944 i Gap padovani uccisero 31 ufficiali e militi delle brigate nere e spie al servizio dei tedeschi, realizzarono inoltre due operazioni militari clamorose che entusiasmarono gli antifascisti e umiliarono tedeschi e fascisti: la liberazione del comandante partigiano Giovanni Zerbetto, detenuto nell’ospedale dopo essere stato ferito dalle brigate nere, e l’assalto al carcere cittadino di via Paolotti con la liberazione di 22 partigiane. Dal dicembre ’44 il movimento di liberazione, Gap compresi, entrò in crisi a causa dell’azione repressiva, realizzata attraverso violenze e torture bestiali, della banda Carità, inviata a Padova per contrastare l’efficace attività della Resistenza. I tradimenti di alcuni partigiani provocarono gli arresti e la morte di numerosi combattenti e di cinque gappisti. I Gap ripresero l’iniziativa nelle ultime settimane di guerra, parteciparono agli scontri armati delle giornate insurrezionali, durante le quali eliminarono cinque spie e uccisero sette ufficiali e quattrodici militi delle brigate nere.
Perché a volte si tende a confondere gappismo e banditismo?
Nel caso padovano l’accostamento tra Gap e banditi comuni deriva dalla partecipazione di alcuni gappisti, insieme ad alcuni criminali, a rapine che sfociarono in qualche caso in violenze ed omicidi. Il fenomeno fu favorito dalla situazione di estrema miseria economica e sociale, e dal vuoto di potere e di autorità dei primi mesi dopo la fine del conflitto. Ai gappisti per lunghi periodi era stata richiesta la capacità di vivere isolati, in condizioni precarie, esposti al costante rischio di essere traditi e arrestati. Spesso i Gap affrontarono situazioni estremamente difficili e per sopravvivere furono costretti ad arrangiarsi per recuperare qualche soldo per mangiare, per spostarsi, per trovare un alloggio: una soluzione fu il ricorso al furto, definito anche “azione di recupero”. Finita la guerra, i legami stretti nella clandestinità tra partigiani e alcuni delinquenti comuni sfociarono in una collaborazione criminale, favorita dalle difficoltà dei gappisti a reinserirsi nella vita civile dopo mesi di guerra durissima e di assuefazione alla violenza e all’uso delle armi. A ciò si aggiunsero il rancore e il risentimento per la debole epurazione dei collaborazionisti e per le numerose sentenze di assoluzione o con condanne lievi contro i fascisti.
Lei segue le vicende dei Gap fino al dopoguerra, quando molti gappisti furono criminalizzati, perseguitati e marginalizzati nell’Italia repubblicana. Come mai questo poté avvenire?
Molti gappisti furono criminalizzati, perseguitati e marginalizzati nel dopoguerra a causa della violenta campagna anticomunista, alimentata dal clima della guerra fredda e dalle gerarchie cattoliche. In questo contesto si colloca il “Processo alla Resistenza”, che coinvolse numerosi partigiani diffondendo giudizi e luoghi comuni negativi nei loro confronti. La campagna d’odio per isolare e indebolire i comunisti si concentrò contro le Brigate Garibaldi, in quanto nate per iniziativa del Pci e composte in larghissima parte da militanti di quel partito. Un altro bersaglio ideale per l’anticomunismo furono i gappisti che, riprendendo il lessico e i giudizi utilizzati dai fascisti della Rsi, vennero presentati come assassini, delinquenti sanguinari, asserviti al nuovo nemico da distruggere: il mostro comunista dell’Unione Sovietica. Le accuse e i processi contro i partigiani, soprattutto quelli comunisti delle Brigate Garibaldi e dei Gap, causarono il rovesciamento della realtà storica e la trasformazione dei carnefici in vittime. I partigiani che avevano combattuto contro fascisti e nazisti a rischio della vita, trovando spesso torture e morte, diventarono fuorilegge, criminali, colpevoli delle rappresaglie dei tedeschi, dei bombardamenti e dell’invasione anglo-americana.
Alla fine del libro scrive: «al termine della guerra civile i Gap si ritrovarono privi di un ruolo: la loro funzione era esaurita ed era confinata nelle logiche più violente del conflitto e delle pratiche della clandestinità». Questo aspetto mi ha ricordato un romanzo di Fenoglio, La paga del sabato, in cui il protagonista, Ettore, non riesce ad adattarsi al clima della pace del dopoguerra e si dà al contrabbando.
Al termine della Resistenza i Gap si ritrovarono privi di un ruolo: la loro funzione era esaurita ed era confinata nelle logiche più violente del conflitto e delle pratiche della clandestinità. Inoltre lo scontro politico della guerra fredda e la diffusione dell’anticomunismo criminalizzarono i partigiani comunisti e i Gap per indebolire il Pci. I gappisti furono individuati come la componente violenta, disumana, sanguinaria della lotta di liberazione e contro di loro si concentrarono le ostilità di una parte della società moderata e desiderosa di pacificazione, e soprattutto la paura, l’odio e la sete di vendetta dei tanti fascisti che volevano nascondere il proprio passato. Alcuni gappisti nell’immediato dopoguerra non riuscirono a ritrovare un ruolo nella vita civile e, di fronte alla delusione delle aspettative maturate durante il conflitto, furono ridotti ai margini della società e ricorsero a furti e rapine. Il “processo alla Resistenza” completò il quadro e l’autorità giudiziaria, composta da giudici formati e cresciuti durante il fascismo, che in larghissima parte avevano sostenuto il regime, condannò, con l’eccezione dei casi più gravi, a pene lievi la maggior parte dei brigatisti neri e a pene pesanti numerosi partigiani e gappisti. Così l’esperienza dei Gap venne dimenticata.
Pubblicato venerdì 1 Novembre 2024
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