Valentino Zeichen, poeta speciale di pensiero elegante e profondo, è sgusciato via dalla vita con la riservatezza che lo ha sempre contraddistinto. È stato un costruttore, un architetto di se stesso, della parola, del verso. Con pazienza da artigiano, con rinuncia alle facili soluzioni, con serietà e ostinazione ha coltivato la cultura personale e la vena innata della sua creatività. I suoi versi meditati sono nati pezzo per pezzo dall’osservazione delle cose del mondo e delle persone. E hanno conquistato un posto unanimemente riconosciuto nel panorama letterario.
Lascio ad altri le definizioni critiche, mi soffermo su un’amicizia che risale al 1963 e non tramontò mai malgrado gli impegni e gli interessi, le distrazioni che spesso ci allontanavano. Fu immediato il feeling quando si presentò alla galleria del Fante di Spade in via Margutta dove lavoravo come segretaria da poco arrivata da Venezia. Me lo presentava Alfio di Bella, fotografo straordinario e generoso. Il padrone della galleria cercava un fattorino e Alfio voleva aiutare l’amico in cerca di lavoro. Valentino ed io eravamo entrambi in un luogo provvisorio per sbarcare il lunario, questo e l’arte ci univano.
Cominciammo subito a discutere sulla pittura e lui, anticonformista, dava giudizi severi sull’ambiente e sui critici. Alcuni di essi trovarono conferma.
Indimenticabile la sua immagine, mentre con un grosso quadro da consegnare se lo caricò sulle spalle fino ai Parioli, andando a piedi, perché era in atto uno sciopero dei mezzi. Mi sembrò un arcangelo, un simbolo, qualcuno di alato, tanto al di sopra della banalità quotidiana.
Seguii a lungo il suo iter di letture; visitava mostre, musei, ascoltava trasmissioni radio qualificate, si coltivava giorno per giorno. Così, ironico e acuto, seppe accedere a territori culturali privilegiati, ai salotti letterari imponendo un suo stile di invitato, povero ma ricercato per la conversazione brillante. Trovò persone che compresero il suo talento.
Viaggiò di paesaggio in paesaggio, di concetto in concetto, di storia in storia cogliendo anche nel culmine dell’erudizione il fondale della vanità di tutte le cose. Come dice nella bella poesia dedicata alla madre “A Evelina”
Dove saranno finiti/la veduta marina,
il secchiello e la paletta,
e i granelli di sabbia
che l’istantaneo prodigio
tramutò in attimi fuggenti,
travisandoli dal nulla/in un altro nulla?”.
Tutto è leggero, instabile e relativo nelle sue visioni del passato e del presente. Le citazioni, promettono risvolti inattesi ed ogni affermazione ha pronta una chiave triste e beffarda.
Valentino celava i segreti di un’infanzia difficile trascorsa con la matrigna e l’impotenza indifferente del padre. Se ne leggono le tracce anche nell’aspra pièce “Matrigna” che cominciò a scrivere in Sardegna durante una vacanza a Buggerru, condivisa nel 1985. La perdita della madre morta di tisi restò sempre una trafittura fonte di eterna nostalgia. Da ragazzo fuggiva periodicamente di casa per liberarsi della prigione familiare. Preferì essere rinchiuso in un istituto di rieducazione a Firenze. Apprese dei lavori manuali. Per questo forse era molto efficiente nell’aggiustare, incorniciare, dipingere muri, abile in falegnameria. Lavorò anche per un negozietto vicino a piazza del Popolo confezionando dei paralumi.
Non dimentico con quanta attenzione ascoltava i racconti di mio marito sul tornio e su tutte le operazioni di quella macchina universale, durante una vacanza comune a San Felice Circeo nel 1998. Era evidente che il tema della costruzione lo affascinava e in qualche modo riguardava anche il suo campo, la pazienza della scrittura.
Nel 1965 la sua abitazione, nella casupola nei pressi della via Flaminia, era ancora più piccola di quella attuale e restò così per anni fino ad un ampliamento dopo il 2000. Ma c’era l’essenziale. Un’atmosfera d’arte scabra e piacevole. Un piccolo lucernario verde sul soffitto. Una branda, una sedia di vimini, un tavolino, i libri, dei disegni appesi, poi i suoi collages, un angolo col piccolo acquaio, due sedie. La macchina da scrivere. Nel gabinetto, esterno, c’era anche un fornello. E non mancavano le visite di Giano, un bel gattone nero. Qui visse modestamente e si formò solitario, fertile e caparbio, un grande artista che si diceva pigro.
La cucina per Valentino era una vera passione. Ottimi quei suoi sughi al pomodoro per le spaghettate, ma il chiodo fisso almeno fino agli anni 2000 era lo spezzatino. Come mi piacevano di tanto in tanto quei pranzetti essenziali nella casupola leggendaria! Non mancava niente. Accanto al menù semplice e gustoso c’era lo scambio di opinioni con humour, l’ispirazione per contatto spirituale. Ripartivo dal viottolo sotto villa Strolfer contenta come per un nutrimento aggiuntivo.
I ricordi sono tanti, Valentino nuotatore, all’isola del Giglio, Valentino che scrive seduto su uno sgabellino nel porto di Buggerru, Valentino che legge le poesie cogliendone il succo, lui scatenato nel rimestare pentole davanti a fornelli in appartamenti estivi. E, gli ultimi anni, i brevi incontri alla Garbatella per un caffè mattutino. “Come stai? Cosa farai in agosto”. “Andrò ai giardinetti”, diceva sarcastico e abbellito dall’età.
Al di là di tutte le definizioni coniate dalla stampa e dai critici del momento, “poeta snob, dandy, bizzarro, paradossale”, al di là del rimpianto per il caro amico, mi piace vederlo per sempre naturale come un albero, capace con la sua linfa mentale di svettare nel tempo, anche con poca acqua, perché intimamente ricco.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato giovedì 8 Settembre 2016
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/solitario-fertile-e-caparbio-un-grande-artista-che-si-diceva-pigro/