Una copertina insolita e accattivante con in primo piano una sagoma femminile che impugna una pistola, dietro le spalle due figure maschili di cui una imbraccia un mitra, sullo sfondo in alto un aereo…
Con l’uscita di In territorio nemico (Minimum fax, 2014) progetto di “scrittura industriale collettiva” coordinato dai fiorentini Vanni Santoni e Gregorio Magini, che raggiunge rapidamente le tre edizioni in pochi mesi e si è imposto all’attenzione della critica con recensioni nei principali quotidiani, partecipate trasmissioni radiofoniche, interviste e ovviamente un ampio risalto sul web, ho avuto la sensazione, confermata successivamente, che la narrativa contemporanea avesse qualcosa da dire su Resistenza e dintorni.
Queste note intendono proprio dare conto, attraverso una scelta parziale e del tutto soggettiva di alcuni romanzi e racconti di narrativa italiana, tra loro anche molto diversi, del modo e delle motivazioni con cui una nuova generazione di scrittori e scrittrici si è avvicinata e ha rielaborato il tema della Resistenza. In questo senso e con questo fine ho cercato di considerare uno spettro abbastanza ampio di testi senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività ma individuando quelli che in modo più originale, se non a volte anche provocatorio, ne tentavano una rilettura più vicina alla sensibilità contemporanea. A questa più generale intenzione si è affiancata una duplice esigenza: verificare se e in che misura e modalità il tema della Resistenza (inteso in senso largo) continua ad ispirare narratori e scrittori contemporanei e quale eventuale uso didattico e divulgativo se ne può ricavare. Su quest’ultimo aspetto legato al lavoro che come docente formatore svolgo presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’età contemporanea rimando ad un mio articolo apparso sulla rivista on line Novecento.org (http://www.novecento.org/didattica-in-classe/narrativa-e-resistenza-due-esperienze-didattiche-1694).
Non ho alcuna pretesa o intenzione di critica strettamente letteraria al più ho trovato molto interessante, come docente di materie letterarie il rapporto con un certo canone letterario, quello scolastico (Beppe Fenoglio e Italo Calvino), da parte di autori e autrici della cosiddetta generazione “T/Q” (trenta/quaranta) quindi cresciuti culturalmente dopo la caduta del muro di Berlino, la conclamata fine del “paradigma resistenziale” tradizionale e la fine dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica. Sarebbe utile anche vedere come in questi testi operi in modo peculiare l’incrocio tra invenzione narrativa e storia e in alcuni casi anche con la storiografia, il nesso con la documentazione utilizzata e il rapporto con la memoria individuale e collettiva. Rimandando in questo senso ad ulteriori approfondimenti qui mi limito ad una breve carrellata di testi che ho trovato particolarmente significativi.
Parlando di nuovi scrittori mi sembra giusto partire da un “giovane” novantenne, Giulio Questi, scomparso nel dicembre 2014, l’unico, degli autori di cui parlerò, ad appartenere anagraficamente alla generazione degli autori-testimoni. Giulio Questi, che ha svolto la sua esperienza partigiana nel bergamasco, per molti aspetti è stato un “nuovo” scrittore resistenziale perché i racconti pubblicati da Einaudi poco prima della sua scomparsa con il titolo complessivo di Uomini e comandanti sono un contributo tutto sommato quasi inedito sul piano della narrativa resistenziale. Infatti la sua vicenda biografica di uomo di cinema, sceneggiatore e regista soprattutto di spaghetti-western di grande originalità (uno tra tutti Se sei vivo spara del 1967), a cui Quentin Tarantino ha dichiarato di essersi liberamente ispirato rendendo pubblico omaggio, lo ha reso molto più vicino alla sensibilità pulp contemporanea che alla narrativa e memorialistica della Resistenza del dopoguerra. Totalmente estraneo al mondo della letteratura ufficiale, come a quello politico-memoriale, Questi racconta una Resistenza lontana da ogni retorica: nelle sue storie a volte feroci ma sempre pervase da ironia e intelligenza; il terrore, l’improvvisazione e la sconsideratezza si alternano e si mescolano al coraggio, alla dignità in mezzo a fame, freddo e impellenza dei desideri (non solo quelli onirico-sessuali ma anche quelli alimentari se non intestinali). Se la dimensione propriamente politica resta sullo sfondo, quella avventurosa-picaresca, generosa e un po’ strampalata dei giovani partigiani non manca di attrarre e incuriosire.
Sostenitori di uno “sguardo obliquo”, spiazzante e in controtendenza, è sicuramente quello teorizzato e praticato da un gruppo di scrittori bolognesi che si fa conoscere alla fine degli anni 90 con il nome collettivo prima di Luther Blisset poi di Wu Ming. Chiaro il loro carattere militante antifascista, ma molto lontano da quello tradizionale. Si può dire che partono dalle macerie del vecchio antifascismo a cui non sono mai appartenuti, attraversano interamente e fino in fondo il postmoderno e ne assumono molti stilemi, con la differenza fondamentale che all’ironia (già insita nei nomi: quello di un calciatore inglese noto “bidone” giunto al Milan o quello cinese collettivo che significa “nessuno”) si aggiunge l’impegno etico e politico rivendicato apertamente in nome di una sinistra dei movimenti. L’uso ampio e per certi versi centrale del web per creare “comunità”, la radicale critica all’autorialità individuale in nome di un sapere condiviso, la multimedialità, l’open source, sono altrettanti cardini di una proposta culturale e politica. L’idea di fondo che ha suscitato a sua volta perplessità e critiche è quella di una “mitopoiesi” (costruzione di miti) basata anche su materiali della “cultura pop” (Cary Grant, David Bowie ma anche Fred Astaire sulla copertina di Point Lenana). Il collettivo si fa conoscere con il romanzo storico Q (Einaudi, 1999) in cui si parla di un giovane seguace della Riforma che, deluso dai compromessi di Lutero, condivide il messaggio di radicale rinnovamento sociale oltre che religioso di Thomas Muntzer e degli anabattisti fino alla sconfitta definitiva ad opera di cattolici e luterani, non senza essere passato attraverso l’esperimento comunistico evangelico sfociato in una sanguinaria dittatura. Fatti e riferimenti alle vicende dei movimenti politici anni 70 e del comunismo internazionale novecentesco sono evidenti e voluti.
Ma il tema resistenziale, seppure come sfondo e ambiente in cui si forma il protagonista, è presente soprattutto in Asce di guerra (Tropea, 2000) versione romanzesca della vicenda biografica di Vitaliano Ravagli, il “vietcong romagnolo”, come recita un breve richiamo in copertina. Troppo giovane per fare il partigiano, Vitaliano, incapace di adattarsi al dopoguerra pacificato, parte volontario grazie alla rete internazionale del Pci e combatte in Laos a fianco dei guerriglieri laotiani alla fine degli anni Cinquanta. Tipico dello stile e di non pochi dei personaggi di Wu Ming quanto si legge in una pagina preliminare del paratesto: «Certi uomini sono quello che i tempi richiedono. Si battono, a volte muoiono, per cose che prima di tutto riguardano se stessi. Compiono scelte che il senno degli altri e il senno di poi stringono nella morsa tra diffamazione ed epica di stato. Scelte estreme, fatte a volte senza un chiaro perché, per il senso dell’ingiustizia provata sulla pelle, per elementare e sacrosanta volontà si riscatto. […] Le storie non sono che asce di guerra da disseppellire».
Vitaliano è quanto di più lontano dall’eroe positivo si possa immaginare, è un proletario senza il moralismo e le letture del partigiano Johnny e tantomeno il tragico eroismo del Milton fenogliano o di tanta memorialistica. La sua vicenda è per certi versi quella di un border line, di un disadattato nel senso letterale del termine, che non si adatta o che non riesce ad adattarsi a una vita normale, distante anni luce per la sua elementare quanto radicata e irriducibile sete di giustizia dal politically correct attuale e per questo, pur nella straordinarietà della storia, il personaggio non manca di credibilità e di autenticità.
Il gruppo ha poi firmato collettivamente o individualmente e in collaborazione con altri autori diversi altri testi e “oggetti narrativi non identificati” mantenendo una serie di caratteristiche: commistione verità/invenzione, fruizione a più livelli del testo, stile rapido e incalzante “all’americana”, molta azione e relativo (ma non assente) approfondimento psicologico, continuo variare di tempi narrativi e di punti di vista, uso della rete (newsletter Giap http://www.wumingfoundation.com/giap/) e continuo dibattito con la propria comunità. In questo senso New Italian Epic (Einaudi, 2009) è il testo in cui si teorizza la nascita di una “costellazione” di testi e autori che condividono il progetto. Tra gli altri testi in cui sono presenti fascismo, politica coloniale, guerra mondiale e Resistenza segnalo in particolare Timira. Romanzo meticcio, di Wu Ming2 e Antar Mohamed, storia di Isabella Marincola, la mondina di colore che compare in Riso amaro insieme a Silvana Mangano. Nata a Mogadiscio nel 1925, “italiana dalla pelle scura”, mescola memoria, documenti d’archivio e invenzione narrativa. La struttura ricalca quella di Asce di guerra – “questa è una storia vera…comprese le parti che non lo sono” -; da notare infine la presenza di “titoli di coda”, ampia bibliografia ragionata utilizzata per la redazione del testo, segno distintivo degli “oggetti narrativi non identificati”. Le vicende narrate alludono anche a Giorgio Marincola, quasi coprotagonista, presenza/assenza pregnante, fratello di Timira, partigiano protagonista invece del saggio Razza partigiana. Storia di Giorgio Marincola (1923-1945) di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio (Iacobelli, 2016 nuova ed. http://www.razzapartigiana.it/).
Altra “storia meticcia”, in fondo per certi aspetti simile a quella di Alessandro Sinigaglia narrata da Mauro Valeri, Negro, ebreo comunista (Odradek, 2010), di un partigiano dalla pelle scura, giovane studente di medicina internato a Bolzano, ucciso dalle truppe tedesche in ripiegamento. I temi delle identità e degli “attraversamenti” delle identità “etniche” sono aspetti centrali nelle culture antifasciste contemporanee italiane e internazionali ed è normale che questo tipo di sensibilità sia ben presente nella nuova saggistica e nella narrativa.
Ultima fatica di rilievo è Point Lenana, uscito nel 2013, sempre Einaudi, questa volta ad opera di Wu Ming1 e Roberto Santachiara. Anche qui una vicenda particolare, una storia anomala e accattivante, quella di Felice Benuzzi, evaso insieme a due compagni dal campo di prigionia inglese del monte Kenya e che scala insieme a loro i quasi 5000 metri di Point Lenana, per poi consegnarsi di nuovo al campo. La ricca biografia di Felice, alpinista di origine triestina, diventa il pretesto per una strabordante (e anche un po’ stordente) carrellata di eventi e personaggi – dalla Trieste di inizio 900 alla Cirenaica, al Kenya dei mau mau – sempre seguendo le vicende del protagonista, che nel dopoguerra intraprende una carriera diplomatica di alto livello (è a Berlino durante la costruzione del muro). Il testo definito un “oggetto narrativo non identificato” presenta un ricco apparato di tipo storiografico assai consistente e criticamente avvertito. Lo “sguardo obliquo” è qui dedicato a personaggi di primo piano del regime fascista visti nei loro aspetti più meschini e grotteschi. Brillanti e spassose le pagine dedicate a generale Rodolfo Graziani che, dopo l’attentato subìto in seguito alla sua criminale politica coloniale e ossessionato dalle voci circolanti sulla perdita della propria virilità (si diceva che avesse perso un testicolo), prepara un involontariamente ridicolo dossier fotografico inviato a Mussolini e a tutti i principali gerarchi del regime per rassicurarli sull’integrità e piena funzionalità del proprio apparato genitale. Badoglio viene invece ritratto per la sua memorabile e già all’epoca proverbiale avidità.
Decisamente volto al genere noir Valerio Varesi, giornalista di Repubblica e autore della fortunata serie Tv del Commissario Soneri, definito l’anti-Pansa da Il fatto, con La sentenza (Frassinelli, 2011). Qui i protagonisti sono letteralmente due “facce da galera”, Jim e Bengasi. Delinquente comune il primo, che si offre di infiltrarsi in una banda partigiana e ex Legione straniera il secondo, con vari precedenti. Proprio la comune esperienza nella banda li cambierà profondamente, come del resto in molte testimonianze la maturazione ideale se non politica è quasi sempre durante, se non successivamente, l’esperienza partigiana. Figura “positiva” ma anche lui in prospettiva un “perdente” sarà invece l’idealista Ilio, che all’inizio sembra l’eroe predestinato. Qui, per riprendere le celebri parole di De Andrè, è “dal letame che nascono i fiori”, partendo dal presupposto che all’interno delle bande non c’erano sempre stinchi di santo ma, come nella banda del Dritto calviniana, proprio ad esistenze perse e senza scopo viene offerta un’opportunità. Significativamente il libro è dedicato a Umberto Bertoli autore di La Quarantasettesima, la banda protagonista del romanzo. Anche qui può essere interessante riflettere sulle parole dell’autore:
“Ho cercato di respingere il revisionismo ideologico e cretino, che ci vede solo una guerriglia sanguinaria e vendicativa. Ma proprio per questo non ho fatto neanche la sua apologia, di problemi, contraddizioni, incongruenze, nel fronte della Resistenza ce n’erano eccome. E li ho affrontati attraverso le storie di Bengasi e Jim: un irriducibile anarcoide futurista il primo, mentre il secondo si redime nell’incontro da spia con quel mondo partigiano che è pronto a lottare e morire per un ideale, per qualcosa che verrà. Cose incomprensibili anche per il maggiore Holland, l’ufficiale inglese che opera con la 47esima: il suo dialogo con la passione di Ilio prefigura la real politik di quarant’anni dopo e sottolinea l’isolamento di mezzi e simpatie dei “garibaldini”, a pro dei badogliani. D’altronde Yalta era ad un passo, e quando Holland dice “vi impediremo di fare la rivoluzione anche a costo di usare maniere forti”, annuncia quel che sarebbe di lì a poco iniziato ad accadere in chiave anticomunista in Italia, il salvataggio di Borghese, capo della tremenda X Mas, ad opera degli inglesi, la capillare penetrazione di dirigenti del regime nella neonata Repubblica, Stay Behind, Gladio, il tentativo di golpe di De Lorenzo, le stragi di stato, i servizi deviati…” (www.valeriovaresi.net).
Storia sentimentale della Resistenza è quella proposta da Antonella Sarti Dalle cime al mare (Effegi, 2012), ambientata nelle Alpi Apuane, linguaggio semplice e storia ben scritta, liberamente ispirata a vicende quali la strage di Forno, la rivolta di piazza delle Erbe ecc. Due storie d’amore si intrecciano nel contesto bellico con una grande attenzione a rendere credibili contesti e personaggi, ricchi di sfumature psicologiche i ritratti dei giovani protagonisti. Alle azioni di guerra si affiancano i civili, la guerra ai civili, la pluralità dei soggetti, la crudezza degli eccidi. Per la delicatezza di alcuni passaggi e la febbrile attesa del futuro Dalle cime al mare ricorda Un’educazione europea di Romain Gary ambientato nella Resistenza polacca. Antonella Sarti, docente nelle scuole superiori, si è ampiamente servita per la documentazione della copiosa produzione memorialistica spesso legata fortemente all’ANPI, oltre che ai propri ricordi familiari. Proprio una calda e affettuosa dimensione familiare pervade il breve romanzo ben disegnato, leggibile, apparentemente semplice e lineare, in realtà molto ben pensato con riferimenti storici precisi e personaggi sempre credibili.
Anche nel romanzo di Paola Soriga Dove finisce Roma (Einaudi, 2012) la storia della Resistenza romana è vista con lo sguardo di chi, ancora forse non a caso una scrittrice, sa intrecciare la dimensione sentimentale con i drammatici eventi collettivi come quelli legati alla guerra a partire dall’irruzione dei nazisti nel ghetto della Capitale. È con gli occhi di Ida, poco più di una bambina da pochi anni sbarcata a Roma dalla Sardegna, ospite della sorella Agnese e del cognato Francesco, che vediamo la dimensione della quotidianità di una ragazzina nella Resistenza romana, con la attività di staffetta ma anche i suoi amori non corrisposti. E attraverso le figure di Ida e Agnese la scrittrice può offrirci dei ritratti vivi e credibili del protagonismo femminile aprendo uno squarcio sul suo contributo tanto oscuro quanto fondamentale.
Altra strada ancora quella battuta da Giacomo Verri in Partigiano Inverno (Nutrimenti, 2012), – finalista del premio Calvino – che parte da un titolo di un libro in realtà mai scritto che avrebbe dovuto trovare posto nella celebre collana di Vittorini dei Gettoni Einaudi. Verri, anche lui insegnante, sceglie di accettare serenamente “la perdita di contatto con il mondo di ieri”, oltre all’«inesperienza», nel senso del carattere davvero postumo della letteratura. I personaggi protagonisti (Umberto bambino, Jacopo giovane che si unisce ai partigiani di Moscatelli e Italo professore in pensione dilaniato dal proprio senso di inadeguatezza) non compiono azioni importanti come quelle di Cino Moscatelli o Giuseppe Osella, ma vivono perennemente nell’attesa di qualcosa. Molto sperimentale la scelta del linguaggio “espressionistico”, come l’ha definito l’autore, estremamente sovraccarico di riferimenti colti, dialettali e gergali che rende non facile ma assai stimolante la lettura. L’opposto dell’apparente semplicità comunicativa della Sarti che colma con l’identificazione emotiva e sentimentale una distanza rispetto agli eventi narrati che invece a Verri pare incolmabile. Interessanti le notazioni dell’autore su come si è posto di fronte alla scrittura di un romanzo resistenziale oggi:
“Avanti avevo la necessità di raccontare al lettore d’oggi e a me stesso (che nulla so di un’arma, né cosa significhi dormire al gelo per mesi, né che effetti abbia sul fisico cibarsi poco e male) cosa facesse della gente comune coi fucili in mano, un letto gelido e pane duro come il ferro. Ero affascinato dall’idea di narrare di un tempo in cui eroi e poeti stringevano sodalizi (nella milanese casa dell’architetto Filippo Maria Beltrami, futuro “capitano” di una delle prime formazioni partigiane dell’Ossola, Montale andava a bere il caffè, e chiosava di suo pugno le poesie di Giuliana Gadola, moglie del Capitano), di un tempo in cui i soldi si vincevano proditoriamente – per chi faceva la spia – con le taglie sulla testa invece che coi quiz. Volevo raccontare queste cose adesso che la memoria resistenziale fatica a resistere, in quest’epoca moralmente imbarazzante nella quale ci si imbarazza di fronte all’impegno” (p. 233). Sono parole di uno scrittore di rara sensibilità e consapevolezza doti che ha poi ampiamente confermato nei suoi Racconti partigiani (Biblioteca dell’Immagine, 2015).
In genere in tutto questo tipo di letteratura da Giulio Questi a Wu Ming, Valerio Varesi ecc. rimane centrale la figura del partigiano armato vista in tutta la ricchezza delle sue contraddizioni. Lontana qualunque idealizzazione, non di rado il partigiano è una figura quasi border line e proprio per questo attraente. Anni di revisionismo più o meno becero non hanno impedito di assumere questi stessi aspetti rovesciando in certo senso la vulgata sguaiata che lo vuole a marionetta di una storia criminale. Si evidenzia così spesso proprio la capacità di battersi in prima persona, quel tanto di avventuroso e di picaresco che non manca in ogni vicenda resistenziale. La decisione appunto di combattere come scelta e decisione volontaria, libera, anche se all’inizio non direttamente motivata politicamente, ma non per questo meno decisa e coerente. Insomma proprio le motivazioni spesso criticate, l’improvvisazione, la superficialità se non la contraddittorietà delle motivazioni, l’uso a volte ingenuo se non privo di criterio della violenza, sono ben presenti e descritte con toni realistici e crudi. Solitamente quindi i personaggi che affollano queste pagine non sono “vittime” ma, riprendendo una celebre frase del Johnny fenogliano, sono giovani disposti a mettersi in gioco, a scelte radicali: “Molto probabilmente finirà in un pasticcio – disse Johnny – ma ha da essere fatto”.
Sotto la coltre del disincanto e della rassegnazione presenti, questo “pasticcio”, questo rischiare in prima persona, in modo a volte ingenuo e strampalato ma autentico, per un mondo più giusto e umano per tutti, riemerge forse come un fiume carsico attraverso racconti e romanzi ormai lontani dall’epoca storica descritta e tuttavia tesi a restituirne almeno in parte la problematicità e la ricchezza.
Testi narrativi citati:
Wu Ming Asce di guerra, Tropea, 2000
Valerio Varesi La sentenza, Frassinelli, 2011
Wu Ming2 e Tamar Mohamed Timira, Einaudi, 2012
Antonella Sarti Dalle cime al mare, Effegi, 2012
Giacomo Verri Partigiano Inverno, Nutrimenti, 2012
Paola Soriga Dove finisce Roma, Einaudi, 2012
Scrittura industriale collettiva In territorio nemico, Minimum fax, 2013
Wu Ming1 e Roberto Santachiara Point Lenana, Einaudi, 2013
Giulio Questi Uomini e comandanti, Einaudi, 2014
Sitografia essenziale:
http://www.novecento.org/didattica-in-classe/narrativa-e-resistenza-due-esperienze-didattiche-1694/
http://www.wumingfoundation.com/giap/
Paolo Mencarelli, dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana
Pubblicato giovedì 15 Giugno 2017
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