I numeri tondi, come gli anniversari, riservano a volte felici sorprese. È il caso del numero 100 della rivista “l’impegno”, pubblicata dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia. Lì, in apertura di volume, c’è un saggio firmato da Enrico Pagano, direttore dell’Istituto, che con passione ricostruisce, come recita il titolo, la Storia di un libro di storia partigiana. Un libro a me caro, di cui ho già parlato in precedenza, un libro che ho definito la Bibbia della Resistenza di quel lembo di Piemonte nord-orientale che sta tra le province di Vercelli, Biella, Verbano-Cusio-Ossola e Novara. Il Monte Rosa è sceso a Milano venne pubblicato da Einaudi nel 1958, e ristampato poi nel 1972, nell’anno successivo in occasione – possiamo dire – del conferimento della Medaglia d’oro al valor militare a Varallo Sesia per la Valsesia, e infine nel 1983 (per poi trovare un’ultima, come la definisce Pagano, “sciagurata” edizione nel 2017 per i tipi di PGreco, che ripropone l’anastatica einaudiana del Cinquantotto, con una coperta letteralmente “rubata” da un volume edito in precedenza proprio dall’Istituto storico di Varallo Sesia).
Ma, di là dalle polemiche, il saggio di Pagano si legge con piacere proprio per l’accurata ricostruzione storica – riporta in scena l’appassionato clima culturale degli anni successivi alla fine del conflitto mondiale – e per la felicità narrativa con cui ripercorre crucci, sogni e progetti di due tra i maggiori protagonisti della Resistenza italiana, Cino Moscatelli, appunto, e Pietro Secchia. È da quest’ultimo – scopriamo dallo scambio epistolare tra i due – che nasce, già nel 1945, l’urgenza di scrivere la storia “delle vostre battaglie”(della Valsesia, e del biellese e del Cusio e dell’Ossola), con una preoccupazione tutta volta a trarre dal progetto un risultato affatto nuovo, dimostrare cioè “come l’organizzazione politica e militare della Resistenza fosse improntata a criteri unitari, ideologicamente coerenti, e le dovesse pertanto essere riconosciuto un primato sullo spontaneismo e la conseguente multiformità della storia partigiana”. Per giungere a questo risultato era necessario – è sempre Secchia a tenere il polso – che il racconto privilegiasse il tema militare, facesse insomma capire che la Resistenza non era stata frutto della sola romantica spontaneità che molti le avevano riconosciuto, ma avesse trovato anche nell’organizzazione guerrigliera il perno per la sua efficacia e sopravvivenza. Insomma, diceva ancora Secchia, “i partigiani non erano degli asini coraggiosi, ma erano degli uomini coraggiosi che studiavano e conoscevano l’arte militare”.
Il lavoro di scrittura comunque non prende avvio nell’immediato dopoguerra ma al principio degli anni Cinquanta; le successive tracce del progetto risalgono al 1952: Secchia chiede a Moscatelli di concentrarsi sul racconto cronologico delle azioni di guerra preceduto da un quadro geografico-morfologico della regione valsesiana, mentre lui si sarebbe occupato di scrivere i capitoli di carattere politico e ideologico. La stesura prende tre anni, presumibilmente dal declinare dell’estate del 1952 all’autunno del 1955 quando Leo Valiani informa Franco Venturi che i due ex-partigiani hanno scritto un “libro enorme”, che si regge su 12000 pezzi d’archivio.
Tra l’altro, in quel frangente – siamo nell’ottobre del 1955 – le vicende del volume s’intrecciano alle disavventure politiche di Secchia. Nel luglio dell’anno precedente era avvenuto lo spinoso caso di Giulio Seniga (ne tratta ampiamente Marco Albeltaro in Le rivoluzioni non cadono dal cielo, Laterza, 2014), il collaboratore di Secchia, sparito con un “malloppo” sottratto alle casse del Pci, la cui fuga – goccia sbroccata da una misura già colma, ché in realtà, da tempo, colui che fu il numero due del partito viveva in regime di epurato, non tanto a causa della destalinizzazione (egli che divenne l’icona del sinistrismo filosovietico), quanto per lo iato sempre maggiore, in seno alla medesima linea politica, che lo separava da Togliatti (la cui condotta era per lui troppo morbida e a tratti equivoca) – aveva avuto serie ripercussioni sulla carriera di Secchia, estromesso sia dalla segreteria che dalla direzione del partito.
Non stupisce quindi che attorno al Monte Rosa è sceso a Milano si addensassero tante aspettative e tante speranze di riabilitazione, specie nell’animo di Secchia, che lavorava spasmodicamente al progetto di questo librone sulla Resistenza. Nel frattempo – come si è detto – il manoscritto approda in via Biancamano e leggendo le pagine di Pagano sembra di svolgere uno di quei film in bianco e nero degli anni Cinquanta, i cui protagonisti sono però una fetta importante della storia letteraria italiana: sentiamo le voci di Italo Calvino, di Giulio Einaudi e del suo ‘vice’ Giulio Bollati, di Franco Venturi, e di tanti altri – primo fra tutti Daniele Ponchiroli, il cui diario del dietro-le-quinte einaudiano è stato recentemente pubblicato – che furono per così dire i registi dello Struzzo in quel giro d’anni che vide la nascita di alcuni libri e di alcune collane storiche di casa Einaudi, dai Gettoni di Vittorini ai primi Coralli, dalla Biblioteca di cultura storica ai Saggi, in cui, appunto, venne pubblicata, col numero progressivo di catalogo 227, il “testo sacro” di Secchia e Moscatelli.
Il 1957 è dunque l’anno della svolta: l’editore decide di pubblicare il volume e così, a partire dal febbraio, inizia una febbrile girandola di incontri, di idee, di riunioni testimoniati da fitti scambi epistolari – riccamente ricostruiti da Pagano sulla scorta delle molte missive conservate presso l’Istituto storico di Varallo Sesia – che raccontano di serrate fasi di correzione delle bozze, di eccitate discussioni sulla veste grafica della copertina e, non da ultimo, sulla spinosa questione del titolo da dare al lavoro.
Il libro sarebbe uscito nei primi giorni del 1958, e ancora a fine agosto dell’anno precedente si parlava di “ricomporre gran parte del volume”, a causa delle numerosissime correzioni fatte dagli autori sulle bozze di stampa, e di scegliere la copertina, in un primo momento preparata nientepopodimeno che da Bruno Munari – un ritratto di Moscatelli circondato da volantini tricolore – e poi abbandonata – non si sa il perché – a favore prima di una coppia di foto, delle quali una immortalava Moscatelli con un prete, e poi di una seconda coppia di immagini che sostituiva lo scatto con l’uomo di chiesa (considerata una figurazione franchista) a favore di un’istantanea di gruppo, raffigurante un pugno di partigiani sull’Alpe Sacchi al principio del ’44. Infine, c’era il problema del titolo: dal diario di Ponchiroli sembra che la proposta di intitolare il volume Il Monte Rosa è sceso a Milano avesse suscitato, durante una delle frequenti riunioni in casa Einaudi, “qualche ilarità fra gli astanti”; e a noi, a sessant’anni di distanza, la cosa fa un po’ sorridere, tanto più se pensiamo che dalla redazione proponevano allora titoli assai più scialbi, quasi anonimi: I Partigiani della Stella Alpina, oppure Vento delle Alpi.
In ogni caso, nel convulso ultimo semestre del ’57, tutti i pezzi sembrano trovare il loro posto sulla scacchiera di Secchia e Moscatelli (compresa la felice impuntatura sul titolo): con fanciullesco entusiasmo i due si scambiano via lettera impressioni e suggerimenti su come e dove diffondere, nell’immediato futuro, il libro (dall’idea di proporlo ai municipi citati nel volume, a quella di abbinarne la vendita alla campagna di sottoscrizione de l’Unità, ecc…); i due ex-partigiani sono dei vulcani, quasi ogni giorno – lo testimoniano i carteggi – sfornano nuove proposte, tanto che Giulio Bollati di Moscatelli già scriveva in precedenza che è un “uomo interessantissimo e vivo, pieno di slanci e di idee, una delle quali è di voler scrivere un Cuore partigiano”.
A fine gennaio del 1958 l’opera è pronta per essere distribuita e arrivano le prime reazioni della critica; tra le molte recensioni che Pagano ripercorre con precisione e rigore, vanno ricordati gli importanti interventi di Angelo del Boca su La Gazzetta del Popolo, di Davide Lajolo su l’Unità, di Raimondo Luraghi su Il movimento di liberazione in Italia, di Fausto Vighi su Patria Indipendente, di Leo Valiani su l’Espresso (che tra l’altro suscitò polemiche da parte di Mario Bonfantini e Ercole Ferrario) e di Roberto Battaglia di nuovo su l’Unità. In particolare quest’ultimo indicava nell’opera “il prolungamento della lotta condotta fra il 1943 e il 1945” e la definiva il primo tentativo di “sistemare su un vero e proprio piano concettuale la strategia e la tattica militare della lotta di liberazione”.
E Pagano non si accontenta poi di ricostruire la ricezione critica del libro; da storico esperto affonda le mani nel tessuto sociale, nelle tensioni ideologiche e partitiche di allora, in quel “clima rovente della fine degli anni cinquanta, in cui il Msi ebbe una centralità politica molto forte, giocata nella aule parlamentari ma anche nelle occasioni pubbliche con evidenti obiettivi provocatori nei confronti delle istituzioni democratiche”. È un saggio, dunque, che mescola letteratura, politica e storia partigiana sulle tracce di un libro, Il Monte Rosa è sceso a Milano, che purtroppo rappresentò, specie per Secchia, il canto del cigno di quel rivoluzionario professionale novecentesco che, di lì a pochi anni, non seppe interpretare i venti nuovi, quelli che confluiranno nell’orda d’oro del Sessantotto, nel quale tanti della vecchia guardia vollero vedervi «un fenomeno di lotta di classe», fraintendendo la natura d’un movimento che fu generazionale ed esistenziale (lo diceva lo stesso Hobsbawm) e che forse cercava nei libri di storia partigiana non un esempio a cui attendersi alla lettera («quell’idea di mobilitazione permanente che deve caratterizzare la militanza comunista», scrive ancora Albelataro), ma l’abbrivio per cogliere la forza e la passione di affrontare le nuove sfide di quello che negli anni Sessanta era il loro presente.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato venerdì 7 Settembre 2018
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