
“E improvvisi bagliori illuminano le strade/Cani e donne abbaiano invisibili/Il treno si ferma. È qui che dobbiamo scendere./E scendiamo./Poi, senza capire come/ e perché e da dove,/all’improvviso ci cade addosso una gragnuola di colpi,/non riusciamo neanche a recuperare la nostra roba,/scosso e sconvolto il nostro povero gregge/viene spinto nella notte verso un portone di ferro/che si alza stridendo…È la fine, è l’inferno!” (Micheline Maurel, “Villeggiatura”).
“Mio Dio, non ho più vestiti addosso,/ non ho più scarpe/non ho più borsa, portafoglio, penna,/non ho più nome./Mi hanno etichettata 35.282./Non ho più capelli,/non ho più fazzoletto./Non ho più le foto della mamma e dei nipoti./Non ho più l’antologia da cui ogni giorno,/nella mia cella a Fresnes, imparavo una poesia./Non ho più niente./Il mio cranio, il mio corpo, le mie mani sono nude./” (Catherine Roux, “Bilancio”).
“C’è una triste tranquillità/nella foresta di divise a righe./È l’appello della morte./L’appello continua ancora./Chi oggi? Forse tu?/Forse io?”/ (Teresa Browowicz, Appello-frammento).
Quelle che avete appena letto sono tre poesie estratte dall’antologia che presenta per la prima volta in Italia la selezione di un centinaio di composizioni scritte da donne, in prevalenza deportate politiche, provenienti dal Frauen Konzentration Lager di Ravensbrück, il più grande campo femminile del sistema concentrazionario nazista e l’unico destinato specificamente alle donne, attivo dal 1939 al 1945. Un luogo di morte che, come tutti gli altri lager nazisti, aveva lo scopo di distruggere gli individui, moralmente e fisicamente, come spiega Anna Paola Moretti, curatrice del libro Boschi cantate per me, antologia poetica dal lager femminile di Ravensbrück. (edito da Società per l’enciclopedia delle donne Aps, 2024). Le poesie delle donne internate, scritte in tante lingue diverse, sono presentate con il testo originale a fronte: francese, tedesco, polacco, inglese, olandese; una in friulano (ne parleremo più avanti); cinque sono state composte in lingua italiana. Non sempre la curatrice è riuscit a risalire alle date di composizione. Nei casi in cui non è stato possibile risalire alla lingua originale, la traduzione è stata effettuata da una versione tedesca o inglese.

Il libro è arricchito da un saggio sull’atroce e dimenticata storia di Ravensbrück. Anche la memoria di quell’inferno è curata da Anna Paola Moretti che ci racconta i dettagli. Il Frauen Konzentrations Lager di Ravensbrück (letteralmente “ponte dei corvi”) fu aperto il 15 maggio 1939 nella parte orientale della Germania, a circa 80 km a nord di Berlino, vicino a Fürstenberg, sulle rive del lago Schwedt circondato da conifere, betulle e dune sabbiose; un luogo solo a prima vista ameno, chiamato “la piccola Siberia del Meklenburgo”. Fu inizialmente un campo di rieducazione per le giovani tedesche “asociali” e per le donne non conformi all’ideologia nazista: comuniste, socialdemocratiche, testimoni di Geova, antinaziste in genere; donne che avevano violato le disposizioni sulla purezza razziale per rapporti con uomini considerati di razza inferiore (ebrei e slavi) o per le preferenze sessuali verso altre donne, nonché per criminali comuni. Il lager funzionò anche da centro di addestramento alla brutalità per le guardiane Ss. Rimase attivo fino al maggio 1945 e in questo arco di tempo furono trasformate le sue funzioni.
Dall’inizio della seconda guerra mondiale divenne sempre più luogo di concentramento delle deportate da tutti i territori occupati europei; le prigioniere venivano impiegate in lavori forzati a sostegno dell’economia bellica tedesca: sfruttate fino alla morte, vessate con fame, freddo, botte, malattie, esecuzioni; il loro tempo di lavoro non era vincolato da alcun limite, il comandante del campo era responsabile del loro rendimento commerciale. Nel 1942 Ravensbrück era ormai una città industriale con un enorme dormitorio di schiave; la Siemens Werke di Berlino per prima aprì nel lager uno stabilimento per la produzione di materiale elettrico di alta precisione”.

In quel contesto nacquero clandestinamente le poesie raccolte nell’antologia, in un contrasto brutale e quasi magico tra la violenza senza freni e la forza interiore e solidale di donne che non volevano perdere il loro spirito e la loro libertà interiore. Una lettura straziante e al tempo stesso di alto valore letterario e storico perché, “nonostante il processo di annientamento messo in atto contro le prigioniere – scrive Moretti – derubate del loro status di esseri umani e ridotte a numeri, stück, pezzi intercambiabili, a Ravensbrück e nei suoi numerosi sottocampi fiorì una produzione artistica come esercizio di sopravvivenza e di resistenza alla disumanizzazione”.

Ma si può davvero raccontare la tragedia della massima atrocità della storia utilizzando dei versi? Davvero la poesia può essere un mezzo di comunicazione (e di memoria) efficace? O quelle tremende immagini che le donne di Ravensbrück ci trasmettono oggi dobbiamo riceverle solo con pietà come fossero urla al vento? Nell’antologia troviamo varie risposte, tra loro consonanti, a queste domande. Una è quella di Charlotte Delbo, poetessa e drammaturga francese, antifascista e comunista: “Solo il linguaggio poetico può dare la misura di quello che abbiamo vissuto”, scriveva al ritorno dal lager, mentre era ricoverata in Svizzera per riprendere le forze. Delbo scrisse di getto un testo che poi lasciò riposare per vent’anni; lo pubblicò nel 1965 senza apportare alcuna modifica. Preciserà: “Per essere ascoltati e capiti non basta dire ciò che è stato, ma bisogna raccontarlo bene e catturare l’attenzione del lettore […] Non volevo informare. […] Quello che volevo ottenere è una più profonda informazione, inattuale, cioè più duratura, quella che farebbe sentire la verità della tragedia restituendo l’emozione e l’orrore. […]Più che render conto, volevo dare a vedere”. Per questo “mi servo della letteratura come di un’arma”, uno strumento per portare “il destinatario a interrogarsi sulla propria esistenza” e “il linguaggio della poesia è l’arma più efficace”.

La poesia dunque non è fuori luogo nel racconto della tragedia. Al contrario può diventare il mezzo più adatto per restituirci, oltre al racconto per immagini letterarie, i sentimenti. Nella presentazione e nelle notazioni dell’antologia troviamo citazioni importanti. “Se mai qualcosa si può scrivere sull’Olocausto lo si deve fare in poesia”, scriveva la filosofa Agnes Heller, secondo la quale “ci sono parole che ci mettono in grado di esprimere e manifestare i nostri dolori e le nostre gioie. Se non troviamo parole per tirare fuori i nostri sentimenti, la poesia le trova per noi”. La forza allusiva delle parole rende più vero il racconto per l’altro che ascolta e, come sapeva Hannah Arendt, “la poesia è un linguaggio comunicativo che rende possibile il ponte tra l’io e il tu, rende possibile il noi, formato dai singoli; mantenendo con concisione e potenza la partecipazione affettiva e la distanza”.

In Italia solo un esiguo numero di queste poesie era stato tradotto e pubblicato, ma senza mai ricollegarle al corpus esistente di circa 1.200 versi, composti da più di 140 prigioniere di oltre 15 nazionalità. Con l’antologia “Boschi cantate per me” si vuole dunque restituire a lettricie lettori una coralità e complessità e poetica di cui non si nascondono le differenze e le tante sfumature di sensibilità e storie diverse. “Anche se di diseguale qualità letteraria, le poesie hanno tutte un grande valore storico e umano – dice Anna Paola Moretti –. Furono sicuramente molte di più di quante ne siano state ritrovate, perché spesso venivano distrutte dalle guardiane e anche dalle stesse detenute per sottrarsi alle punizioni. Anche a Dachau, Auschwitz o Theresienstadt nacquero poesie femminili, ma in numero sensibilmente inferiore”. Ed è anche questa caratteristica che rende speciale la pubblicazione.

La curatrice dell’antologia ci tiene anche a sottolineare che è nata dal desiderio di “far uscire dall’ombra la deportazione femminile rimasta a lungo trascurata” e vuol favorire una storia della deportazione non separata dalle parole delle testimoni. Inoltre dalle poesie del lager emerge un universo simbolico opposto alla violenza e al desiderio di potere. In quei versi possiamo trovare un’indicazione preziosa proprio nel momento in cui i traumi generati nel secolo scorso continuano a vivere nelle seconde e terze generazioni e nuovi traumi vengono prodotti dagli eventi catastrofici dei nostri giorni. “In una modalità dialogica le sopravvissute ci offrono sollecitazioni e interrogativi contro l’indifferenza, ci invitano a un’interlocuzione esortandoci a non sprecare la nostra vita. A interrogarci sul nostro presente”.
“A ciascuna autrice è stata dedicata una scheda biografica, più o meno estesa in relazione alle notizie che è stato possibile accertare sulla vita prima e dopo il lager. Ritrovare il cognome di nascita è stato un atto di cura, una restituzione di individualità. Il genere biografico permette di raccordare le singole vite agli avvenimenti complessivi e di comprendere i diversi punti di vista. Dalla pluralità dei vissuti si disegna così anche il reticolo degli sconvolgimenti provocati dalle guerre del 900: la scomparsa dell’impero zarista e di quello austroungarico, gli spostamenti dei confini statali e i trasferimenti forzati di popolazione”. E si racconta poi il dopo, un periodo di Liberazione, ma che non è stato per nessuna di quelle donne indolore e felice. Angosce che continuano come incubi che non finiscono mai veramente. Traumi sovrapposti a traumi. Perché il ritorno delle deportate fu ingiustamente gravato dal sospetto sulla loro moralità e per loro il lager fu considerato una colpa.

“Sono tornata: la coperta i pidocchi/son rimasti lassù. Addome gonfio/capelli rapati, bubboni nel corpo che davano pus. Son qui, son tornata non se ne parla mai più. (…) Da quasi subito mi sono imposta il silenzio. Mi sono chiusa in un muro di pietra. (…) Abbiamo pianto, mi sono sfogata (…) ho vissuto una vita normale. Prego per loro ogni sera, non ho…dimenticato”. Lo leggiamo nella poesia di Maria Musso, una donna ligure nata in una famiglia contadina povera e che era riuscita a frequentare solo la scuola elementare. Come lei anche altre donne prigioniere a Ravensbrück erano molto lontane dalla figura di tante intellettuali che hanno contribuito con le loro scelte alla Liberazione dal nazifascismo. Eppure, anche senza aver studiato e senza una specifica cultura letteraria quelle prigioniere sono riuscite a parlarci con il linguaggio più alto della poesia.

Sarebbe troppo lungo sintetizzare qui tutte le biografie delle prigioniere-poete, di tutte le nazionalità, russe, francesi, polacche, tedesche. Solo un altro nome per avere conferma delle origini molto diverse di queste donne. Alcune provenivano da famiglie antifasciste benestanti, altre dal popolo, come la partigiana Rosa Cantoni. Nata a Pasian di Prato (Udine) il 25 luglio 1913, era la penultima in una famiglia di 10 figli. Il padre era un tipografo, la madre gestiva un’osteria. In casa, dice la sua scheda biografica, si leggeva molto, circolavano tanti libri e giornali. Dopo le elementari, Rosa divenne apprendista sarta e poi operaia all’età di 14 anni. Ed è proprio in fabbrica che iniziò a esprimere il suo dissenso al fascismo con poesie scritte in friulano, che copiava e faceva circolare, un’attività che l’accompagnerà per tutta la vita e che la portò a strappare in pubblico un manifesto di Mussolini. “E je gnot… une piçule lùs/intun cjanton de barache…/Feminis che a muerin, che a polsin,/ si sumiin di mangjà, cence podé,/ come ogni gnot./Ancje mê mari, tal sium, e ven/ogni gnot cu la sporte,/mi puarte di mangjà, o ai fan,/no sai ce fâ, ma no pues mangjà! …/. Sono i primi versi di una sua poesia scritta a Ravensbrück nel gennaio 1945. “È notte… una piccola luce/in un angolo della baracca./Donne che muoiono, che riposano,/sognano di mangiare, invano/come ogni notte. Anche mia madre mi viene in sogno/ogni notte con la sporta/mi porta da mangiare, ho fame/non so che fare, non riesco a mangiare/…Come ogni notte/….

Anche la scelta dell’organizzazione del testo è efficace a trasmetterci la realtà del lager. L’antologia si compone infatti di 10 blocchi di poesie. Si parte con “l’arrivo”. Si prosegue con tre blocchi dedicati alla “vita nel campo”: l’appello, gli oggetti, il lavoro. Un blocco ha un titolo secco: “Desolazione e morte”, mentre un blocco è dedicato agli “sguardi su altre donne”, un altro agli “affetti lontani” e uno alle “compagne”. Chiudono due blocchi finali: “Resistenza e speranza” e “Ritorno”. I versi delle poete sono senza filtri e volano dalla desolazione e la rabbia più profonda (anche nei confronti di un Dio che le aveva abbandonate) alla tenerezza delle lettere ai figli, alle figlie e alle madri. Molto belle le poesie del capitolo “Resistenza e speranza”. Ne citiamo solo una di Stefanie Kunke (“Verso un nuovo futuro”): “In qualche luogo – riposi –/in qualche grembo materno./ Dormi./Immersa nella pace/sogni il mondo./Ma attorno a te geme l’essere umano./avanza in infinita pena;/calpestato, picchiato, martirizzato, tormentato/nel precetto dell’ora barbarica./In qualche luogo –/riposi –/nell’ideale saggezza, protetta dalla bellezza./Sogni./Lontana dalla realtà/della terra in fiamme –/dove l’umanità va incontro al più bel futuro/lottando con dolore./Il fuoco del mondo/ strappa i tuoi muri/e cancella la bellezza che ti protegge./Tu sogna/sii pronta/all’ultima battaglia, all’ultima meta/di umanità rinnovata!/Compi il tuo destino/di essere umano!”. L’austriaca Stefanie Kunke nella primavera del 1942 venne deportata ad Auschwitz. Fisicamente debole, fu costretta a lavorare all’ampliamento anche di quel campo, dopo aver lavorato senza orari a quello di Ravensbrück. Morì di tifo il 14 dicembre 1943. Helen Potetz, socialista austriaca, la ricorda come “il raggio di speranza che ha dato a tutte molta forza”.
Le traduzioni sono di Loredana Magazzeni, Daniela Maurizi, Maria Luisa Vezzali, Paul Benjaminse, Mirko Coleschi, Krystyna Jaworska, Elisabetta Ruffini, Jessy Simonini, Luciana Tavernini. In copertina “Il lago di Ravensbrück”, foto di Ambra Laurenzi.
Pubblicato mercoledì 5 Marzo 2025
Stampato il 09/03/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ravensbruck-poesie-di-donne-dal-lager-del-ponte-dei-corvi/