Basterebbe limitarsi a una lettura attenta e sistematica della violenza squadrista dal 1920 al 1922 per rendersi conto di come la Marcia su Roma non fu una farsa – o un’opera buffa, per dirla con Salvemini – ma il compimento politico di un progetto di distruzione dello Stato liberale italiano. La mobilitazione che dalla periferia portava alla capitale (con l’occupazione, in diverse forme, di città e loro istituzioni) era il segno che tale distruzione si stava avviando sul territorio nazionale. Trattare la Marcia su Roma con sufficienza proprio perché non fu un’ordalia o uno spargimento di sangue significa rinunciare a comprendere il carattere eversivo del fascismo fin dal suo nascere. Bisogna sempre ricordare che il fascismo arrivò al potere non attraverso il consenso elettorale ma proprio attraverso la violenza, utilizzata come chiave di volta per la soluzione politica dell’ottobre 1922, e non poteva essere altrimenti per chi si dichiarava antidemocratico, antiliberale e propugnava una visione gerarchica e bellica della vita.
Mimmo Franzinelli nel suo ultimo libro, che mi sembra il più efficace tra quelli usciti recentemente anche per la consueta messe di documenti inediti, ricostruisce la Marcia su Roma nel duplice aspetto militare e politico. È vero che di fronte all’esercito, che come disse qualcuno al re sarebbe stato meglio non mettere alla prova, la massa confusa degli squadristi avrebbe avuto la peggio, ma non bisogna dimenticare che quello che contava era l’uso politico della violenza come minaccia di una possibile “guerra civile”. Perciò, alla fine, si fece avanti l’ipotesi dello sbocco parlamentare della crisi. Da un lato, quindi, le squadre armate che per tutta l’Italia centro-settentrionale seminavano illegalità e disordini e dall’altro Mussolini in trattative, tra gli altri, con i vari Giolitti e Salandra. Franzinelli privilegia l’aspetto territoriale della questione, e questo punto di vista ha il vantaggio di cogliere l’origine periferica del fascismo nella scalata al potere politico. E ancora: l’uso, nel secondo capitolo, dell’espressione guerra civile, che attraversò l’Italia e le cui radici devono essere ricondotte a quell’evento capitale che fu la Grande guerra, è utile per l’interpretazione della storia dell’Italia degli anni 20.
Naturalmente sono tanti i fili che s’intrecciano nelle pagine del libro di Franzinelli: la crisi del dopoguerra; la smobilitazione dell’esercito; i partiti di massa e le nuove forme di organizzazione di operai e contadini; la reazione antisocialista di industriali e agrari contro il presunto pericolo di una rivoluzione bolscevica, un mito che ormai la storiografia ha molto relativizzato, visto che le violenze sistematiche dello squadrismo fascista risalgono, nell’essenziale, alla conclusione del cosiddetto biennio rosso; l’incapacità di fare fronte alla violenza squadrista delle sinistre; l’appoggio da parte di pezzi di esercito e magistratura; l’ingenuità di alcuni politici come Giolitti di poter usare lo squadrismo e poi di poterlo normalizzare; infine, il ruolo del re.
La violenza eversiva messa in rilievo da Franzinelli, con la connivenza di ampi strati dei notabili liberali è proprio l’essenza del fascismo ed è da pensare appunto non più come mera reazione al pericolo bolscevico, ma come strumento sistematico per la scalata insurrezionale al potere. Come scrive in apertura l’autore: “La marcia su Roma non è un evento a sé stante ma il momento culminante di una strategia di lungo respiro, avviata sin dall’autunno del 1920 e imperniata sulla mobilitazione della periferia fascista per la distruzione degli avversari politici e occupazione delle città, attraverso una possente offensiva in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Toscana, Umbria e Marche. Quegli assalti scardinarono le rappresentanze democratiche di Comuni e Province, e furono approvati – in quanto colpivano le sinistre – da intellettuali quali Luigi Albertini, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Vilfredo Pareto. La novità dell’ottobre del 1922 sta nel fatto che il nemico è mutato: non è più il ‘bolscevismo’, ma lo Stato liberale”.
Il colpo di Stato, quindi, non va cercato nella capitale ma nelle periferie dove vengono occupate prefetture, uffici pubblici e bloccate tratte ferroviarie: è nella provincia che la legalità statale si dissolve ed è impressionante il quadro che di questa dissoluzione presenta Franzinelli. Solo in qualche caso gli squadristi si vedono opporre resistenza (Cremona, Bologna), ma per il resto chi doveva difendere lo Stato lascia fare. Per esempio a Torino le camicie nere recuperano armi e munizioni in vari depositi senza che nessuno li fermi, assaltano la Camera del lavoro distruggendola, incendiano il palazzo sede dell’Associazione generale degli operai e il prefetto Olivieri “tergiversa nel cedere i poteri al comandante del corpo d’armata, generale Petitti di Roreto, e alla fine evita di compiere quel passo, nonostante l’impressionante stillicidio di violenze non accenni a finire”. Alla fine la marcia sulla capitale avviene, ma dopo l’incarico di formazione del governo a Mussolini, ed è forse meno noto che il futuro duce e il fascismo, al governo, non hanno bisogno di attendere il 1925 per mostrare la loro natura autoritaria; si pensi solo alla legge, incostituzionale, che istituisce una milizia armata al comando e al servizio del capo del governo.
Nel corso del ventennio mussolinano la Marcia su Roma viene resa leggendaria dalla propaganda del regime per trovare poi massima espressione nelle celebrazioni del decennale nel 1932. Inizia a essere considerata come fatto archetipico della storia d’Italia, l’evento fondativo della nazione e dell’italiano nuovo che ha salvato l’Italia dal caos sociale, e viene addirittura interpretato come sbocco teleologico della storia nazionale: “la marcia è qualcosa di straordinario e provvidenziale, spartiacque storico partorito dalla genialità di Mussolini”. Con la conquista dello Stato da parte di Mussolini molti pensarono che illegalismo e violenza sarebbero finiti, molti pensavano che sarebbe stato ripristinato lo Stato di diritto e lo stesso fascismo si sarebbe disgregato, e così di illusione in illusione. Forse la più patetica delle autoconsolazioni sarà quella che Dino Risi metterà in bocca a Ugo Tognazzi nel film La marcia su Roma: “non dureranno mica”, dice l’attore nella scena finale del film. Ma come poi andarono le cose, lo sappiamo tutti.
Pubblicato martedì 1 Novembre 2022
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