Mischa Seifert, ucraino di origine tedesca, sembra un uomo comune: buon padre di famiglia, lavoratore, frequenta persino la parrocchia della città canadese dove vive, Vancouver. Nessuno sospetterebbe che si tratta della “Bestia di Bolzano”, come definisce Stefano Catone, autore del libro edito da People, l’aguzzino delle SS nel campo di detenzione nel capoluogo dell’omonima provincia autonoma del Trentino-Alto Adige.
Seifert incarna uno dei paradossi legati alla memoria collettiva nel nostro Paese: mentre la sua tomba nel cimitero di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, è meta di pellegrinaggio di fascisti e nazisti del nuovo millennio, e vi si trovano sempre fiori freschi, il Lager di Bolzano, luogo dove Seifert commise efferati crimini, ha rischiato non solo di essere dimenticato, ma di scomparire completamente. Una memoria rovesciata che ha spinto l’autore ad approfondire questa storia.
Del DurchgangsLager Bozen resta infatti solo un muro in via Resia n. 80: dove sorgeva il lager, compreso di baracche, blocco cella e tutto ciò che c’era all’interno, dagli anni Settanta sorgono undici condomini costruiti dall’Istituto nazionale per le case degli impiegati di Stato, “quasi che localmente e nazionalmente si avesse in fondo l’interesse a cancellarne il ricordo” scrive l’autore citando Dario Venegoni, presidente dell’Aned, l’Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti, e figlio dei partigiani Carlo Venegoni e di Ada Buffulini, deportati nel Lager di Bolzano.
Nel 1995 l’amministrazione comunale, in collaborazione con l’Anpi locale, realizzò un “Percorso della memoria” a cui nel tempo si sono aggiunte altre opere pubbliche, come il “Passaggio della memoria-Passage der erinnerung”, museo a cielo aperto dove pannelli e installazioni esplicative raccontano la storia del Polizei Durchganslager Bozen, campo di lavoro e di transito sotto il diretto controllo nazista (al pari dei lager di Fossoli, Carpi, Borgo San Dalmazzo e la risiera di San Sabba), da cui, dall’estate 1944 al 3 maggio 1945, passarono quasi 15mila persone.
I reclusi venivano sfruttati sino allo sfinimento nello sgombero delle macerie causate dalle incursioni aree, nelle operazioni di sminamento, oppure nelle fabbriche e nei terreni agricoli, prima di essere destinati ai luoghi di sterminio oltreconfine: Flossenbürg, Dachau, Ravensbrück, Buchenwald, Mauthausen, Auschwitz-Birkenau. I primi a esservi rinchiusi furono gli oppositori politici antifascisti e i partigiani; poi vi arrivarono i militari prigionieri, soldati alleati, disertori e renitenti alla leva di Salò; in seguito, fu la volta degli ebrei, uomini donne, bambini, e dei rom. Quasi nessuno di loro fece ritorno a casa.
“Come mai nessuno si è opposto alla demolizione del Lager?” si chiede Catone nelle 140 pagine che attraversano alacremente la storia di un luogo che è emblema della memoria collettiva. “Non abbiamo avuto la forza” rispondeva agli inizi del nuovo secolo il compianto Lionello Bertoldi, già senatore del Pci e storico presidente dell’Anpi Alto Adige. “Non è mai facile fare i conti con il proprio passato. Per una comunità come la nostra non è stato per nulla facile – spiega all’autore il presidente Anpi altoatesino Guido Margheri –. Qui, ai tempi, non c’era solo una frattura tra fascisti da una parte e antifascisti dall’altra, ma se ne sommava una seconda, quella tra tedeschi e italiani, tra persone che parlavano l’italiano e persone che parlavano il tedesco e poi persone di lingua ladina, mochena, cimbra”. In altre parole, scrive l’autore-editore, “italiani contro tedeschi e italiani contro italiani e tedeschi contro italiani. E anche tedeschi contro tedeschi”.
Nel 1964 la questione approdò al Consiglio provinciale di Bolzano attraverso una mozione che rilevava la soluzione prioritaria del “problema dell’ex campo di concentramento anche per ragioni politico-morali affinché venga cancellata una così dolorosa testimonianza del nazifascismo”. La decisione unanime fu dunque quella di radere al suolo il campo, ma nel dibattito il Movimento Sociale Italiano si dichiarò concorde nella sostanza, contestando altresì il termine “nazifascismo” utilizzato per qualificare il campo: “i primi a essere colpiti – sosteneva – furono i fascisti” imprigionati e deportati, vittime di “nazitirolesismo”, in un neologismo che dimostrò quanto quella del campo fosse una memoria scomoda e divisiva. A questo si aggiunse l’esigenza di soddisfare la forte domanda di abitazioni che proveniva dalla cittadinanza a causa dei bombardamenti e della conseguente crisi abitativa. Molte di queste persone si insediarono negli edifici abbandonati del lager: “nel 1956 si contavano 91 famiglie e nel 1962 ce n’erano 53”.
In questa operazione di rimozione della memoria, chi ne beneficiò furono i carnefici che riuscirono a far perdere le loro tracce. Lo fece Erich Pribke, capitano delle SS, pianificatore e attuatore della Strage delle Fosse Ardeatine a Roma in cui vennero uccise 335 persone, raggiunto solo nel 1994 da una troupe televisiva statunitense in Argentina, dove pensava – o forse sperava – di cadere anch’egli nel dimenticatoio, sottraendosi alla giustizia. Estradato in seguito in Italia e imputato per crimini di guerra e di “concorso in violenza con omicidio continuato”, pagò con l’ergastolo.
Lo fece anche Michael Seifert, “la Belva di Bolzano”, come lo hanno definito le persone sopravvissute al lager nelle testimonianze crude che l’omonimo libro riporta, fino alla fine degli Anni Novanta, quando la Procura militare di Verona apre il suo fascicolo pregno di crimini così violenti e circostanziali – omicidi, violenza sessuale, sevizie – che lo indaga, arrivando ai vertici di comando del Lager di Bolzano. Seifert, addetto alla vigilanza del campo di transito, non è che “un pesce piccolo, – afferma lo storico Eric Gobetti nella postfazione del testo – uno dei tanti pezzi dell’ingranaggio dell’oppressione nazista” che però “non è un uomo come gli altri, in quelle celle buie è Dio. Può decidere della vita e della morte di chiunque” e “sa che qualunque comportamento, anche il più brutale, non sarà mai deprecato, non verrà mai punito”. Per questo è importante che a distanza di molti anni quel comportamento sia stato invece giudicato e condannato, benché Misha Seifert abbia scontato l’ergastolo per quei pochi anni che gli restarono nel carcere di Santa Maria Capua Vetere senza mai avere un pentimento e continuando, anzi, a ritenersi vittima di un complotto ebraico.
È un libro che si interroga profondamente, quello di Stefano Catone, che analizza i meccanismi storici e politici che hanno portato alla grande contraddizione di un luogo di barbarie, come quello di Bolzano, quasi raso al suolo, di un carnefice osannato, della costruzione del Sacrario dell’Armata Silente di Capua, in provincia di Caserta, dedicato a esponenti della Repubblica Sociale Italiana, sostenuto dall’Associazione Combattenti Decima Flottiglia Mas-Rsi con il supporto di alcune istituzioni, e di quanto avvenne per la sepoltura di Priebke, divenendo “un grido d’allarme, un segnale di avvertimento per il nostro presente e per il nostro futuro”, continua Gobetti, perché “in quanto Paese democratico, consentiamo l’esercizio della memoria, mostriamo pietà umana per tutte le vittime, ma non possiamo permetterci di confondere gli ideali di chi lottò per la libertà e di chi riteneva giusto lo stermino di milioni di persone sulla base di una presunta superiorità”.
Mariangela Di Marco, giornalista
Pubblicato giovedì 8 Agosto 2024
Stampato il 03/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/quel-lager-che-in-alto-adige-apriva-le-porte-allo-sterminio/