Un bene può dirsi culturale perché una comunità lo riconosce come tale. La fruibilità, l’essere a disposi­zione di tutti è un’altra delle sue caratteristiche. È su questo principio che si sviluppa l’ultimo libro di Francesco Erbani, profondo conoscitore del sistema culturale italiano, dall’emblematico titolo “Lo stato dell’arte. Reportage tra vizi, virtù e gestione politica dei beni culturali”, edito da Manni.

Il giornalista Francesco Erbani, autore de “Lo stato dell’arte” (2024). Sullo sfondo “La Primavera” di Sandro Botticelli (1480 circa)

Si parla di musei e di archivi, di aree archeologiche e di biblioteche, di soprintendenze e di centri storici. L’autore mette in evidenza gli elementi innovativi che tendono a configurare il bene culturale come un servizio pubblico, che può alleviare una fame di cultura e diventare fattore che mitiga le disugua­glianze, che facilita le relazioni fra le persone, com­prese quelle che approdano in Italia da altri mondi. Si affrontano anche gli sforzi di comunità e di associazioni che prendono in carica il recupero, la custodia e la messa a valore sociale e culturale di un bene mal curato o abbandonato e che invece può assicurare persino il ri­scatto di un territorio.

Pompei (Imagoeconomica, Carlo Carino)

Il libro tenta di trattare il tema dei beni cul­turali in Italia assecondando il bisogno di un pubblico diventato molto ampio e curioso e che soprattutto è interessato ad accedere al bagaglio di conoscenze che il nostro patrimonio può garantire e anche al contributo che esso può fornire affinché si fortifichi il senso di cittadinanza. Erbani parte da un’analisi della situazione (i dati in forte crescita dei visitatori, gli scarsi finanziamenti, un contraddittorio susseguirsi di riforme) e conduce un’inchiesta che, attraverso esempi concreti, tocca i punti nodali: i musei e i siti archeologici, il paesaggio, gli archivi e le biblioteche, le soprintendenze. Racconta un sistema al limite del collasso per carenza di personale e che abusa del lavoro precario; lo sfruttamento anche a fini commerciali dei beni culturali; l’incontrollata pressione del turismo. Un reportage su un bene pubblico per eccellenza, su un’immensa risorsa spesso mal gestita, in cui si intrecciano questioni culturali e politiche, amministrative e giuridiche.

L’ex ministro della cultura Sangiuliano (Imagoeconomica, Sara Minelli)

Un dato su tutti che rappresenta il paradigma della gestione politica dei beni culturali è dato dalle riforme che hanno interessato il dicastero della Cultura. Ebbene, dal 1998 ai primi mesi del 2024 il ministero dei Beni culturali (che negli anni ha cambiato più volte nome) ha conosciuto 15 riforme. Mediamente una ogni anno e sei mesi. Con relativi scossoni sulla struttura del ministero e quindi anche delle soprintendenze, accorpate, spacchettate, poi di nuovo accorpate. Sono state istituite le direzioni regionali, poi declassate a segretariati regionali, e così via. Fino ad arrivare all’ultima riforma del 2024 fortemente voluta dall’ex ministro Sangiuliano, che l’ha firmata pochi giorni prima delle sue dimissioni, ma ancora non entrata in vigore. Un salto indietro di vent’anni. Le di­rezioni regionali sono state equiparate ai musei autonomi. Le biblioteche vengono inquadrate fra le attività culturali, gli archivi, invece, passano alla tutela. Un’inutile e dannosa frammentazione che causerà enormi difficoltà a tutte le istituzioni culturali.

(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

Concentrato sul fronte dei riassetti bizantini della nuova struttura ministeriale, l’ex direttore del Tg2, illustre rappresentante del governo Meloni, ha pensato bene di tagliare i fondi destinati ai servizi culturali, dopo anni di costante incremento della spesa pubblica, e nonostante l’indice italiano, pari allo 0,7% sia inferiore alla media euro­pea dell’1% e ci colloca in graduatoria di poco sopra Cipro, Portogallo e Grecia. Eppure la fantomatica battaglia contro la cosiddetta, presunta e pericolosa “egemonia culturale” della sinistra alla fine è scivolata su una buccia di banana senza aver prodotto alcun risultato apprezzabile o quantomeno visibile. I problemi, fa presente Erbani, permangono e anzi si aggravano.

(Imagoeconomica, Livio Anticoli)

Uno su tutti quello del personale. Laureato, specializzato, precario, mal retribuito e con scarse prospettive di crescita professionale. Eppure la passione di giovani e meno giovani garantisce alti livelli di professionalità nei settori museale, bibliotecario, archivistico. È paradossale che a fronte della ricchezza del patrimonio culturale del Belpaese non venga riconosciuta l’importanza di un settore fondamentale per la crescita individuale e collettiva.

(Imagoeconomica, Alessandro Paris)

In generale, dal reportage di Erbani emerge un quadro desolante, un universo parcellizzato del mondo culturale, a volte sovrapposto, disomogeneo, contraddittorio che produce come effetto lo svilimento della cultura, intesa come sistema con tutte le sue ramificazioni, centrali e periferiche, maggiori e minori, metropolitane e provinciali. Dai musei alle biblioteche, dagli archivi alle pinacoteche, dai teatri alle gallerie nazionali.

Carenza di personale in diversi settori su tutto il territorio nazionale, e di conseguenza ricerche e attività scientifiche ridotto all’osso, mancanza di vigilanza, limitati orari di apertura al pubblico e così via. Un Paese che perde il passo al confronto con altri Paesi europei, che non solo non ha una politica culturale in grado di valorizzare il suo patrimonio materiale e immateriale ma che in diversi casi lo sminuisce non trovando soluzioni per la costruzione di una comunità “cittadina” in grado di creare connessioni “creative” con il tessuto urbano.

Uno delle centinaia di paesi italiani abbandonati

Contro questo stato di cose, e a costo di essere banali, è necessario ricordare che le attività culturali svolgono un ruolo fondamentale nel coltivare connessioni sociali, promuovendo una società resiliente e coesa. Queste attività, attraverso le loro dimensioni emotive, creative, espressive e collaborative, creano spazi per il dialogo e la condivisione, contribuendo a costruire il capitale sociale che tiene unite le comunità. Gli investimenti in attività culturali supportano obiettivi di coesione sociale, intervenendo in settori chiave come istruzione, salute e assistenza sociale.

Le attività culturali e creative contribuiscono a coltivare identità civiche e democratiche, mostrando un’associazione positiva con comportamenti civici come il voto e il volontariato. Queste attività ispirano individui di diverse età e background, ampliando prospettive e dando voce a punti di vista diversi. Stimolano il pensiero critico e contribuiscono allo sviluppo di competenze personali e sociali, tra cui consapevolezza, fiducia, autostima, comunicazione ed empatia sociale, essenziali per il coinvolgimento civico e democratico. In altre parole, il futuro si costruisce oggi.

Andrea Mulas, storico Fondazione Basso