Al suo secondo libro su Primo Levi, Sergio Luzzatto intende restituire all’indagine storica, dopo tanti studi sulla sua ‘letterarietà’, quel capolavoro universale che è Se questo è un uomo. In particolare, Luzzatto è andato alla ricerca della tridimensionalità storica e biografica dei ‘compagni’ di Levi nel lager: i compagni del Kommando 98, che lavorarono con lui a Buna-Monowitz e altri incrociati nell’inferno di Auschwitz. Lo stesso Levi ne stilò una lista in una lettera al celebre Pikolo, cioè Jean Samuel, l’ebreo alsaziano studente di farmacia. Ecco perciò lo storico Luzzatto andare alla ricerca di ciò che è stato di loro.

Primo Levi con il libro tradotto in tutto il mondo e continuamente ristampato

Luzzatto ripercorre la descrizione che Levi fa di come ciascun prigioniero cerchi di procurarsi in ogni modo da mangiare: c’è chi sopravvivrà estremizzando le proprie doti di egoismo e cinismo e c’è chi, come lo scrittore torinese, sperimenterà la cooperazione e l’agire in comune, conservando, dunque, un residuo di umanità. Ci si imbatte così negli indimenticabili ritratti del francese Henri e del “nano” Elias. Il primo eviterà la morte applicando la sua notevole intelligenza e l’organizzazione, impietosendo e rubando: è un solitario e per Levi è diventato un «tristo». Per lui Levi allude, inoltre, a una sorta di prostituzione. L’altro, Elias, è alto un metro e mezzo, brutale e bestiale, poco intelligente ma scaltro: un demente  fuori dal lager vivrebbe ai margini della società, ma lì invece «prospera e trionfa», Elias è un prominent, cioè di quei prigionieri che nel lager avevano una posizione privilegiata sugli altri.

Deportati a Buna-Monowitz, uno dei tre campi principali che formavano il complesso concentrazionario situato nelle vicinanze di Auschwitz

I ritratti sono, sebbene per ragioni diverse, negativi: ma che fine hanno fatto, si è chiesto Luzzatto, quei due uomini? Il polacco Elias Lindzin, nato nel 1919, dopo la liberazione da Auschwitz arriva in Germania e poi emigrerà negli Stati Uniti, dove lo ritroviamo con il nome di Edward Lindson. A Detroit lavorerà nel settore automobilistico. Quando Elias-Edward, che negli anni americani fu in cura dal dottor Henry Cristal specializzato nei traumi post-lager, leggerà la traduzione inglese di Se questo è un uomo, come si sarà sentito di fronte alla propria descrizione scritta dal suo compagno del Kommando 98?

Sapeva Levi quanto avesse sofferto Elias? Aveva, infatti, perso i genitori, la moglie, il figlio, sorelle e fratelli a causa della Soluzione Finale. Quel ritratto poco lusinghiero era forse dovuto anche a uno scontro fisico accaduto tra i due e di cui Elias racconterà in un’intervista (reperibile all’Holocaust Survivor Oral History dell’università del Michigan)? Non basta: dal canto suo Elias ricorderà Levi come un «presuntuoso damerino» che ad Auschwitz si vantava del suo francese.

Diversa la questione di Henri: Paul Steinberg (questo il suo vero nome) era un ebreo francese e quando arriva ad Auschwitz, nell’ottobre del ’43, ha 22 anni. Qui, diversamente da quello che scriverà Levi, Henri aveva perso non il fratello ma un carissimo amico. Con le famigerate marce della morte arriverà a Bunchewald e poi, dopo la liberazione, a Parigi su un camion americano. Anche lui leggerà la versione francese del capolavoro leviano, Si c’est un homme, e non potrà non riconoscersi nel nome d’invenzione di Henri. In un’intervista del 1995 ‘Henri’ ammetterà con lucidità e senza rancore che in lager «era diventato un tipo freddo, calcolatore, con una teoria completa sulla vita del campo e sui comportamenti da tenere. Che è poi quanto ha notato Primo Levi, ciò che essenzialmente mi rimprovera. Essendo arrivato tre mesi dopo di me, lui non ha saputo quel che avevo passato all’inizio, e comunque mi vedeva da spettatore neutrale».

A Buchenwlad (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Nel suo interessante libro di memorie Chronique d’ailleurs, Steinberg sembra dare a ragione allo scrittore torinese circa la durezza che in lui aveva ispirato la vita del campo, obietta solo sull’allusione a presunte prestazioni sessuali e conclude dicendo di non avere nessun ricordo di Primo Levi. Infine, per incredibile correttezza, aggiunge che forse è proprio perché lo vedeva dall’esterno che lo scrittore riuscì a darne una descrizione autentica. Del resto – scriverà – per sopravvivere nel lager fino a uscirne vivi si pagava un prezzo altissimo, si poteva diventare simili a mostri. Cosa che certo non è successa a Levi.

E tuttavia, dopo la morte di ‘Henri’, Jean Samuel (il Pikolo) ricorderà che in una lettera Levi gli aveva scritto che «sarebbe stato felice di rivedere Paul». E Levi stesso, in un’intervista del 1983, dirà che aveva voluto trasformare, fatta salva la verità fattuale, i compagni del lager in rappresentazioni idealizzate del bene e del male, un po’ come le figure dantesche della Commedia.

Quando, a distanza di anni, Levi scrive I sommersi e i salvati e riflette sulla categoria fondamentale di «zona grigia» le cose avranno una luce diversa, anche l’intensità giudicante del soggetto che aveva scritto Se questo è uomo si attenua, si fa più sfumata e complessa: «sempre meno Levi ha aderito all’idea di una contrapposizione frontale tra la figura del carnefice assoluto e della vittima assoluta, sempre più è stato colto dal dubbio che il male, in una misura o nell’altra, si annidasse dentro la vittima».

Primo Levi durante una visita al lager di Buchenwald

Lo stesso Luzzatto si chiede se Levi avrebbe riscritto tale e quale il capitolo IX di Se questo è un uomo, intitolato proprio I sommersi e i salvati. Avrebbe forse avuto più indulgenza e avrebbe valutato di più «il costo morale della sopravvivenza al campo di sterminio». Forse in Henri, ma non certo in Elias, Levi avrà potuto vedere quello che il campo avrebbe potuto fare di lui, renderlo pronto a ogni indegnità e disumanità pur di salvarsi. Levi, al tempo del saggio I sommersi e i salvati, ha riflettuto sulle forme di prevaricazione che a tutti capitava di commettere per uscire vivi dal lager, ma nel testimone e scrittore che noi onoriamo la violenza e la sopraffazione nei confronti degli altri non sono mai diventate metodo e sistema. Questo non è accaduto e questo rende ancora più oneste e universali la testimonianza e la personalità di Primo Levi.

Irene Barichello