Nanni Balestrini è stato il più grande inventore del Novecento letterario. E ha continuato a inventare anche negli anni Duemila, sperimentando col linguaggio, anzi coi linguaggi: il vero oggetto di tutta la sua ricerca verbovisiva e della sua continua ridefinizione del campo poetico (sin da Linguaggio e opposizione, il suo primo testo di poetica, del ’60, pubblicato in calce ai Novissimi). Scoprendo, anticipando, contaminando esperienze, arti, territori, orizzonti fisici e virtuali, ostile solo all’aspetto convenzionale, sclerotizzato, comunicativo dell’arte. La sua tecnica era il collage: la frantumazione e la ricombinazione sulla pagina (o sulla tela) delle parole, «obbligate a mostrarsi nude, a mimare l’insensatezza» aveva scritto nel 2003 Giuliani. Tra le ultime cose che ha inventato Nanni, c’è una bella definizione della poesia come «emozione intellettuale». Non credeva invece che spettasse alla poesia cambiare il mondo: «Ma perché quest’idea bizzarra, perché proprio lei dovrebbe farlo? Perché non la scultura, il balletto o il giardinaggio», aveva detto nell’Intervista 1972 ripubblicata sul monografico del «Verri», nel 2018). Compito del poeta è invece «stuzzicare le parole […] imporre violenza alle strutture del linguaggio […] provocare quei nodi e quegli incontri inediti e sconcertanti che possono fare della poesia una vera frusta per il cervello del lettore, che quotidianamente annaspa immerso fino alla fronte nel luogo comune e nella ripetizione» (così ancora in Linguaggio e opposizione).
Nanni è stato il primo in Italia a scrivere una poesia al computer, Tape Mark I, nel ’61; un romanzo al computer, il Tristano, nel ’66; una nuova edizione di quello stesso romanzo, nel 2007, in copie tutte diverse una dall’altra. Ha sperimentato una forma embrionale di social network prima che venisse inventato, nella mostra Les Immatériaux dell’84, con Lyotard. Negli ultimi anni sono state ripubblicate da DeriveApprodi, la casa editrice a lui più prossima, le Poesie complete in tre volumi: un’opera meritoria e monumentale, che smentisce l’assunto di Eco e di altri secondo cui sarebbe stato «lo scrittore più pigro mai esistito, perché di suo non ha mai scritto una sola parola e ha soltanto ricomposto brandelli di testi altrui». Nanni in realtà da avanguardista ultrà aveva importato il cut-up rifacendosi a precocissime esperienze tedesche e angloamericane con un proprio stile riconoscibile, ricombinando materiali e pezzi di realtà e forme e strutture della tradizione (fino alle sestine e agli Asonetti): così dai volantini venne fuori nel ’71 il romanzo Vogliamo tutto e dai post dei social network uno dei suoi ultimi scritti combinatori, Giustizia è fatta (sugli sgomberi di piazza Indipendenza, due anni fa). Il suo ultimo libro in versi, Caosmogonia, era uscito nel 2010 per Mondadori: segno dei tempi e del fatto che l’avanguardia non fosse più un babau, se uno dei suoi più vivaci esponenti approdava all’editore massimamente mainstream.
Nanni non era uno snob e se è dato, a chi lo ha conosciuto, riferire aneddoti personali, quando organizzò un poetry slam all’Horus (un centro sociale poi sgomberato), oltre dieci anni fa, e con altri lamentavo l’accoglienza a dir poco tiepida tributata a poeti più cerebrali rispetto ad altri “clowneschi e saltellanti” ci rispose: non lamentatevi perché la vostra poesia non è arrivata, siate contenti di aver portato la poesia in un posto dove non sarebbe proprio arrivata mai. La poesia era il suo mantra, proprio lui che non ne avrebbe scritte mai di suo pugno, a sentir quegli altri: sin dalla saga della Signorina Richmond (60 poemi), negli anni Settanta e Ottanta, grande mitologema, «labirinto o ciambella», ibrida creatura senza tempo e insieme perfettamente calata nel proprio, l’immagine più viva e feconda della poesia degli ultimi cinquant’anni (con la memorabile conclusione in caps: «LA POESIA FA MALE/MA PER NOSTRA FORTUNA/NESSUNO CI VORRÀ CREDERE MAI»). Il tempo è insieme al linguaggio il grande rovello delle avanguardie sin dalla premessa all’antologia dei Novissimi, nel ’61, e Nanni era l’ultimo dei neoavanguardisti rimasti. Ha saputo restituire in ogni occasione questa idea di poesia come spazio di libertà assoluta e come gioco che non appartiene minimamente alla sensibilità contemporanea, perlomeno a quella egemone. In un’intervista recente aveva detto che la poesia va letta spiegata e insegnata a partire dai contemporanei, dal momento che è sapendo cos’è la poesia oggi, perché si legge e com’è diventata, che si può ridare senso a quella di Dante.
Quello che colpiva di lui era il punto di vista diretto, chiaro e mai prevedibile, l’andatura sempre avanti di un passo, in un cammino che lo prevedeva sempre e comunque, dagli anni Cinquanta e Sessanta a oggi. Moltissime volte mi è capitato, fino agli ultimissimi mesi, di sentir dire di un’iniziativa, una rassegna, un progetto, un reading, una rivista, un evento, un’occasione culturale: “è un’idea di Nanni”. Nanni era un collettore formidabile di energie e di esperienze poetiche diverse, ha intercettato tante voci di altrettante generazioni, da Lello Voce a Tommaso Ottonieri, Aldo Nove, Lidia Riviello, Sara Ventroni, Adriano Padua, gli Sparajurij, Jonida Prifti e ne dimentico di sicuro innumeri. Rispetto ad altri scrittori totalmente disinteressati al dialogo con i loro simili, ha di sicuro pienamente incarnato il concetto di «contemporaneità dilatata» (così la definizione di Antonio Prete di uno spazio di coesistenza fra più generazioni poetiche, un quindicennio fa). Nanni Balestrini è stato per un periodo contemporaneo di Montale e per un altro dei poeti emersi negli anni della rete, della prosa in prosa, delle installazioni, del googlism e dell’asemic: ha saputo, insieme alla neoavanguardia, incidere, coi compagni d’avanguardia, sul primo (che non avrebbe scritto Satura, probabilmente) e lasciarsi contaminare dai secondi, che a loro volta devono a Nanni la riscoperta del cut-up e della poesia come dispositivo, procedimento, materia e produzione di senso attraverso il linguaggio e la sua messa in verifica permanente. «Si deve poter fare tutto non esistono limiti», dice un verso di Empty Cage, una delle sezioni di Caosmogonia. Sarà un po’ meno possibile da oggi, senza Nanni.
P.S. C’è un video molto bello in rete in cui i “Novissimi” si incontrano a un festival vent’anni dopo l’antologia, siedono attorno a un tavolo e parlano tra di loro. Sanguineti è, al solito, il più loquace, seguito da Giuliani, poi c’è Pagliarani che borbotta, Balestrini praticamente non parla, ma Sanguineti lo chiama in causa a un certo punto perché per lui l’occasione era stata propizia alla scrittura di un nuovo testo. Nanni a quel punto ride, ed è tutto.
*Testo pubblicato su http://www.leparoleelecose.it/?p=35676 e riprodotto su Patria indipendente per gentile concessione dell’autrice
Gilda Policastro è nata a Salerno, vive a Roma. Italianista e critica letteraria, ha pubblicato studi su vari autori, tra cui Dante, Leopardi, Sanguineti, Pasolini. Redattrice della rivista «Allegoria», collabora con quotidiani e supplementi (dal «Manifesto» al «Corriere della Sera»). La sua prima silloge, Stagioni, presentata in vari reading nel 2007, è edita insieme ad altri testi nel Decimo quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2010). Nel 2009 vince il Premio Delfini e il Premio d’if, del 2010 è il suo primo romanzo, Il farmaco (Fandango). Nel 2011 pubblica con Transeuropa Antiprodigi e passi falsi, libro di poesia e letture con musica. (Da https://www.pordenonelegge.it/tuttolanno/censimento-poeti/88-Gilda-Policastro)
Pubblicato giovedì 13 Giugno 2019
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