È un “manifesto di cura” quello a cui Antonio Decaro – sindaco di Bari e presidente di Anci, l’unione degli ottomila comuni italiani – pensa riflettendo su cosa sono, cosa saranno le città italiane dopo la pandemia. Perché è innegabile – e ben lo racconta Giovanna Casadio, giornalista di Repubblica e autrice di Diario di bordo dei sindaci. Le città nella pandemia (edito da Treccani), per il quale Decaro ha firmato la prefazione, che sono loro, i sindaci, a essere stati, insieme a medici e infermieri, i primi sul fronte delle decisioni da prendere, dei servizi da garantire in qualsiasi caso, delle risposte da dare.
Ai loro cittadini, impauriti e sconcertati dal primo lockdown tra marzo e aprile 2020, certo, ma via via anche dalle zone rosse – meno impressionanti, ma ripetute – delle stagioni seguenti, delle continue modifiche alle norme da tenere, i rapporti con le Asl e con le Regioni, per non parlare dei decreti del governo.
E ne ha intervistati ben 44 di sindaci Giovanna Casadio. Per raccontare da Nord a Sud l’Italia in emergenza covid e poi il Paese dei vaccini (e dei no vax) e della riapertura con la voce diretta dei sindaci delle comunità più emblematiche. Amministratori di realtà grandi e piccole, da Codogno e Trieste a Casal Di Principe, da Bergamo a Napoli e Palermo, da Firenze e Bologna a Taranto e Favignana. Domanda Casadio, cerca di capire, chiede di ieri e di ora. Sollecita sul futuro, che vuol dire salute, servizi sociali, scuola, welfare e lavoro, e pure l’ambiente e il verde, i trasporti, la qualità abitativa, la cultura.
Impossibile dimenticare quel video in cui Decaro, sul lungomare di Bari, andava a convincere di persona la gente ad andare a casa, a non rischiare, a mantenere le distanze e a tener fede alle ordinanze.
Decaro lo scrive: nel libro ci sono “storie di sindaci impauriti, come me, che hanno cercato, con gli strumenti che avevano, di portare in salvo la propria gente provando allo stesso tempo a non perdere mai di vista il domani. Sindaci che si sono inventati soluzioni di emergenza per combattere un’emergenza”.
Quell’emergenza che si profila mentre Giuseppe Conte, allora a capo del governo gialloverde Lega-M5S, annuncia agli italiani ciò che sembrava indicibile: c’è un virus mortale, là fuori, l’unica cosa da fare è chiudersi in casa. Tutti.
Giovanna Casadio, una lunga e attenta esperienza di cronista politica sempre sensibile al risvolto umano di quanto accade nei palazzi, riporta cosa arrivò, in quella sera di marzo, sui gruppi WhatsApp dei sindaci italiani.
“Beppe Sala consegna in chat la sua costernazione: Ussignùr. Per dirla alla milanese. La chat è quella dei sindaci civici e di centrosinistra creata da Matteo Ricci, il primo cittadino di Pesaro, che ribolle da ore la sera del 9 marzo 2020, alla vigilia della conferenza stampa in cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annuncerà il lockdown. (…) C’è la chat dei sindaci metropolitani e quella dell’Anci, l’associazione dei Comuni. ‘Ok, però calma. L’importante è la catena di comando. In guerra si fa così: ci sono i generali, i colonnelli e i soldati semplici’, annota Dario Nardella, che si trova nel suo ufficio di Palazzo Vecchio a Firenze e ama citare SunTzu e l’arte della guerra. ‘E noi adesso siamo i soldati, com’è noto’, taglia corto Antonio Decaro, sindaco di Bari, e presidente di Anci, appellandosi alla concretezza”.
Non sarà facile per loro. Sala per primo dovrà ammettere che l’hashtag #milanononsiferma lanciato nelle settimane precedenti è orgoglioso, sì, ma ingannevole. E che la realtà del lockdown, come d’altronde dovrà accorgersi con dolore Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, è quella della morte che si porta via le prime decine, poi centinaia di vittime.
D’altronde lo stesso Sala commenta, rispondendo alle domande dell’autrice: “Noi sindaci dobbiamo prenderci sempre tutte le responsabilità, rischi, oneri e onori che derivano dall’amministrare le nostre città, ma dobbiamo soprattutto avere il coraggio di fare un passo indietro se commettiamo, anche se in buona fede, degli errori”.
Come si poteva evitare di commetterne? Impossibile. Ma l’idea è anche quella del come fronteggiare una realtà mai vista. Così l’allora sindaco riminese Andrea Gnassi: “In giro non c’è nessuno. Le merci, le varie attività ritorneranno. Ma il turismo è quell’unico settore che non esporta merci ma importa persone. Si fonda sulle relazioni. E quindi siamo davvero colpiti al cuore. Noi abbiamo 2.500 alberghi, 2.000 tra bar, ristoranti e pubblici esercizi, più l’indotto. È stato stimato un giro di 32 milioni di persone. Dovremo rialzarci. So che lo faremo”.
Oggi, vedendo l’assalto che si profila sui litorali italiani, si può dire che Gnassi aveva ragione. Ma è innegabile che gli effetti della pandemia sulle città e sui cittadini si sentiranno ancora a lungo.
Anche per le scelte che, sul momento, hanno creato disagi, peraltro necessari: come ad Aosta, dove il sindaco Fulvio Centoz aveva deciso di chiudere la città ai milanesi e torinesi sfollati nelle seconde case; o a Trento, dove un’ordinanza del primo cittadino Alessandro Andreatta proibiva di sedersi sulle panchine di parchi e giardini.
Necessità imposte da un contagio che sembrava inarrestabile; difficoltà – se non impossibilità – di farsi comprendere. Eppure, andare avanti, necessariamente andare avanti. Sperando in bene.
E seguendo le “bussole”, cioè le regole, le normative via via aggiornate a Roma, il confronto quotidiano con gli altri colleghi.
Forse, quel manifesto di cura di cui parla Decaro, sta tutto nelle parole proprio del bergamasco Giorgio Gori: “Pur nell’estrema difficoltà della situazione in cui mi sono trovato ad operare, pur con tutti i miei limiti, credo di essere stato utile alla mia comunità. La vicenda del covid ha dato un significato inatteso al mio secondo mandato: passata la fase più critica, oggi avverto la responsabilità di accompagnare Bergamo nel suo percorso di ricostruzione e rilancio”.
E per fortuna che ci sono, i sindaci.
Anita Fonzi
Pubblicato martedì 24 Maggio 2022
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