Tre anni or sono furono raccolti in un volume i risultati di una ricerca promossa dall’ANPI sul contributo del Mezzogiorno alla Resistenza (La partecipazione del Mezzogiorno alla Liberazione d’Italia, a cura di Enzo Fimiani, Le Monnier, 2016): in diversi saggi, venivano riportate alla luce pagine meno note o del tutto sconosciute della mobilitazione antifascista del popolo meridionale e della diverse forme in cui si manifestò l’opposizione all’occupante tedesco e ai manutengoli repubblichini, e venivano altresì riproposte storie di singole figure di combattenti provenienti dal Mezzogiorno e condotti dalle vicende legate alla dissoluzione dell’Esercito regio all’indomani dell’8 settembre a entrare nelle bande partigiane, assumendovi in non pochi casi compiti di responsabilità. L’ipotesi di fondo della ricerca consisteva in una riconsiderazione critica di una lettura della Resistenza come evento circoscritto al Centro Nord, e, corrispettivamente, di un Sud Italia rimasto, nel suo complesso, passivamente in attesa degli eventi, salvo episodi luminosi, ma isolati e territorialmente circoscritti, come le operazioni militari condotte dalla Brigata Maiella o le Quattro giornate di Napoli. I vari contributi raccolti nel volume suggerivano conseguentemente un’ipotesi di lavoro volta a evidenziare il carattere nazionale del movimento di liberazione e le diverse forme, non solo militari, attraverso le quali si manifestò l’opposizione alle forze dell’Asse e l’aspirazione a una nuova e più avanzata forma di democrazia, in grado di liquidare definitivamente il fascismo e svellerne le radici politiche e sociali.

Dopo quella pubblicazione, altre iniziative di ricerca hanno ulteriormente approfondito e articolato questi argomenti, sviluppando momenti specifici di studio e di confronto sulle vicende di singoli territori, in tal modo contribuendo a sottrarre all’oblio fatti e personaggi per lungo tempo ignorati o la conoscenza dei quali si era andata rivelando, alla luce dei successivi approfondimenti, parziale e lacunosa. Per la Sardegna, un importante contributo in questa direzione viene dall’attività dell’Istituto sardo per la storia dell’antifascismo e della società contemporanea, che ha dato come primo importante risultato un volume collettivo La Sardegna e la guerra di Liberazione: studi di storia militare, a cura di Daniele Sanna, che approfondisce alcune questioni essenziali per comprendere la posizione dell’Isola e dei suoi abitanti nel travagliato periodo compreso tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, concentrando meritevolmente l’attenzione su aspetti relativamente poco conosciuti, a partire dalla situazione militare dell’Isola (materia non molto frequentata dagli studi sulla storia del movimento di liberazione) all’indomani dell’armistizio.

A questo tema è dedicato l’ampio saggio di Daniele Sanna e Giuseppe Sassu (Il Comando militare della Sardegna fra cobelligeranza e guerra di Liberazione) che offre un quadro esauriente ed equilibrato della condotta dei vertici delle Forze Armate italiane di stanza in Sardegna, all’indomani dell’8 settembre 1943. La situazione nell’Isola si presentava in modo del tutto differente dal resto del Paese, soprattutto in quanto l’ingente forza militare presente (oltre 200mila uomini) non si era dissolta all’annuncio dell’armistizio e aveva continuato, pur tra mille difficoltà, ad assolvere ai compiti di presidio del territorio che il cumulo dei poteri militari e civili in capo al Comando territoriale dell’Esercito aveva reso di particolare rilievo, ma di non facile esecuzione, considerato anche il difficile rapporto con la popolazione, aggravato dalle tensioni derivanti dalla cronica penuria di beni alimentari, spesso oggetto di contesa tra civili e militari. In un quadro di obiettiva difficoltà, il comandante delle Forze armate, generale Antonio Basso, mantenne un atteggiamento ispirato a un ambiguo attendismo, dapprima autorizzando l’evacuazione pacifica del contingente tedesco (poco più di 90mila uomini al comando del generale Lungerhausen) verso la Corsica – dove peraltro il generale Magli, al comando delle truppe italiane di occupazione e poi successore di Basso in Sardegna, si riprometteva di adottare il medesimo atteggiamento passivo – poi perseguendo una condotta temporeggiatrice e dilatoria, ma di sostanziale disobbedienza, nei confronti dell’ordine proveniente dallo Stato maggiore, o meglio di quel che rimaneva di esso, di attaccare e liquidare il contingente tedesco.

Il generale Antonio Basso (da https://sardegna.admaioramedia.it/ elezioni-politiche-del-1948-ritorna- in-sardegna-il-generale-basso-angelo-abis/)

Il generale Basso si giustificò nel dopoguerra invocando la necessità di evitare un inutile spargimento di sangue quale si sarebbe verificato nello scontro tra il contingente italiano e quello tedesco, numericamente inferiore ma in condizione di maggiore efficienza offensiva, anche se, come fanno notare gli autori, è un dato di fatto che tale atteggiamento consentì un rafforzamento della presenza militare tedesca nella Penisola. All’inerzia dei vertici militari si contrappose la volontà di alcuni ufficiali (tra cui Leonardo Motzo, che si era distinto durante la prima guerra mondiale nei ranghi della Brigata Sassari) di impegnare i tedeschi in ritirata, sfociata in episodi di resistenza spontanea di singoli reparti: alla Maddalena (inizialmente individuata come possibile rifugio del re in fuga da Roma), alcune batterie italiane al comando del maggiore Barsotti, aprirono il fuoco contro le postazioni tedesche, dando luogo a una vera e propria battaglia; un analogo episodio si ripeté sul ponte Mannu del Tirso, dove il tenente colonnello Sardus Fontana fece aprire il fuoco sulle truppe germaniche in movimento. Né mancarono, anche nell’Isola, tracce della scia di sangue che avrebbe accompagnato la ritirata tedesca in tutta la Penisola, con l’eccidio di due genieri italiani nei pressi della cantoniera di Oniferi, ricostruito dettagliatamente nel saggio di Francesco Ledda (I tedeschi in Sardegna: movimentazione dei reparti dopo l’8 settembre e il fatto di sangue di Oniferi) e l’uccisione in circostanza mai chiarita di Anselmi Lampus, un giovane contadino di Baressa (Oristano). Malgrado gli sporadici episodi di resistenza, tra il 17 e il 18 settembre i tedeschi poterono alla fine imbarcarsi indisturbati verso la Corsica, con il tragicomico epilogo dell’apertura del fuoco delle batterie italiane contro i natanti della Wehrmacht, ormai fuori tiro.

La scarsa capacità offensiva palesata da quanto era avvenuto in Sardegna offrì inoltre argomenti agli Alleati per ritardare il trasferimento di gran parte del contingente italiano nel Continente e il suo utilizzo sul fronte. In questione non era tanto l’affidabilità delle truppe, che si rivelarono in larga misura impermeabili ai tentativi di infiltrazione di emissari  provenienti dalla repubblica sociale (salvo il caso dell’ammutinamento di un reparto del battaglione di paracadutisti Nembo, unitosi ai tedeschi dopo avere trucidato il colonnello Bechi Luserna, che aveva tentato di riportare l’ordine), quanto l’intenzione degli angloamericani di utilizzare quel che rimaneva nell’esercito italiano nella logistica, e quindi non in prima linea, ma nelle retrovie, come lavoratori. Solo nella primavera del 1944, dopo che l’insediamento di un Commissario civile nella persona del generale Pietro Pinna, insistentemente richiesto dagli Alleati, ebbe posto fine al governo militare dell’Isola, iniziò il trasferimento nel Continente di truppe che, in seguito al miglioramento dei rapporti con il vertice militare anglo americano, furono impiegate al fronte, prima nel Corpo italiano di Liberazione (Cil) e successivamente nei Gruppi di combattimento. L’alto numero di caduti e di decorati sardi – ricordano gli autori del saggio – testimonia la rilevanza del contributo dell’Isola alla liberazione d’Italia.

Nino Garau con le chiavi della città di Spilamberto, da lui liberata nel 1945 (da http://www.lanuovasardegna.it/cagliari/cronaca/2015/04/24/ news/liberazione-il-racconto-di-nino-garau-partigiano-di-cagliari-1.11297644)

A questi combattenti, si aggiungono i numerosi sardi che, coinvolti nella crisi dell’Esercito Regio successiva all’armistizio, parteciparono in prima fila alla guerra di Liberazione, nei ranghi della Resistenza armata. L’ampio saggio di Walter Falgio (Nino Garau. Un comandante partigiano sardo nel Modenese) restituisce alla memoria collettiva una vicenda resistenziale rimasta a lungo nell’ombra, anche per la riservatezza del protagonista che solo recentemente ha fissato i punti chiave della sua storia in un memoriale inedito (Diario di un giovane sardo che scelse di combattere per la libertà e la democrazia) e in un documentario-intervista (Geppe e gli altri. Storia di vita di un comandante partigiano) prodotto dall’Istituto per la storia della Resistenza e dell’autonomia e dal Laboratorio di etnografia visiva dell’Università di Cagliari. Il saggio di Walter Falgio ricostruisce la vicenda di Nino Garau, dallo sbandamento dopo l’8 settembre all’adesione alla Resistenza, nel Modenese, dove si era rifugiato presso i parenti della madre, e dove, entrato in contatto con esponenti dell’antifascismo locale, aveva preso parte alla formazione della 13a brigata “Casalgrandi” di cui era poi diventato comandante. Arrestato e torturato dai tedeschi, Garau riuscì a evadere e a riprendere il suo posto nelle file della brigata, svolgendo infine un ruolo determinante nella liberazione di Spilamberto. La vicenda partigiana di Nino Garau ebbe peraltro un seguito drammatico: rientrato a Cagliari, fu arrestato con l’accusa di omicidio di un fascista modenese, ma subito scagionato, essendosi accertato che all’epoca dei fatti egli si trovava già a Cagliari, dove era giunto viaggiando sull’aereo del commissario civile Pinna. Solo tardivamente, nel 1969, con il conferimento della medaglia di bronzo al valor militare, è stato riconosciuto il ruolo del partigiano Geppe (questo il nome di battaglia di Garau), che nel frattempo, continuando a mantenere il riserbo sui suoi trascorsi resistenziali, era diventato segretario generale del Consiglio regionale della Sardegna.

Al nome di Nino Garau deve essere aggiunto quello di un altro sardo, il colonnello Luigi Cano, del quale è riportato in appendice lo stralcio della relazione sull’attività svolta dal 25 luglio all’8 settembre, come ufficiale dello Stato Maggiore, nonché la relazione sulla mancata difesa di Roma, un fondamentale documento di denuncia dell’inerzia e della responsabilità del generale Carboni e del generale Cadorna, all’epoca comandante della Divisione “Ariete”, stanziata nei pressi della città. Dopo la caduta della capitale, Cano, insignito dopo la guerra della medaglia d’argento al valor militare, fu infaticabile organizzatore di formazioni partigiane nel Lazio e nel centro Italia; caduto nelle mani dei tedeschi, torturato nella prigione di via Tasso a Roma, riuscì a fuggire dal treno che lo deportava in Germania e si unì ai partigiani toscani della 3ª Brigata Rosselli, con i quali combatté fino alla Liberazione.

Giuseppa Manias e Daniele Sanna ricostruiscono in un documentato saggio (I soldati sardi sbandati nel Lazio dopo l’8 settembre 1943. Il caso dei martiri di Sutri) la vicenda dei 18 militari sardi (non solo avieri, come si è erroneamente ritenuto per molto tempo), trucidati dalle SS nei pressi di Sutri, insieme a un abitante di Capranica. Avvalendosi di carte di archivio e della testimonianza dell’unico sopravvissuto, Rinaldo Zuccas, gravemente ferito ma miracolosamente scampato alla fucilazione, gli autori hanno ripercorso la vicenda dei soldati sbandati nell’area a Nord di Roma, inquadrandola nel contesto delle attività di rastrellamento antipartigiano condotte dalle SS nella zona, contrastate dalla solidarietà della maggioranza della popolazione ma anche supportate dalle delazioni che molto probabilmente determinarono la cattura dei 18 militari. Sempre nel medesimo quadro si collocano anche i tentativi di reclutamento di volontari sardi nell’esercito di Salò, nel battaglione “G. M. Angioy” (tentativi peraltro fallimentari, come si evince dalla relativa documentazione riportata in appendice), condotti con particolare impegno dal cappellano militare fascista, Luciano Usai, fiduciario del sottosegretario alla presidenza del consiglio della repubblica sociale, Francesco Barracu e protagonista di missioni di spionaggio nell’Italia liberata, e forse non estraneo ai fatti che portarono al massacro di Sutri.

Il cappellano militare fascista Luciano Usai (da https://it.wikipedia.org/wiki/Luciano_Usai# /media/File:Padre_Luciano_Usai_in_Libia.jpg)

Un breve saggio di Daniele Sanna è dedicato, infine, alla distribuzione territoriale delle formazioni partigiane intitolate a Antonio Gramsci (Le Brigate Gramsci nella Resistenza. Una rappresentazione geografica): in esso sono riportati dati relativi alla presenza e alla consistenza di formazioni, anche all’estero, intitolate al dirigente comunista, che documentano la notorietà di Gramsci, ancor prima della pubblicazione dei Quaderni dal carcere, come una delle vittime più illustri del regime fascista, insieme a Giacomo Matteotti, Giovanni Amendola e a Carlo e Nello Rosselli.

Completa il volume un’appendice documentaria che, oltre alle già citate relazioni di Luigi Cano e a documenti relativi al fallito tentativo di dare vita alla citata formazione di volontari sardi in seno alle forze armate della repubblica sociale, riproduce due ordinanze del Comando militare della Sardegna, la prima del 26 luglio 1943, sull’assunzione della direzione dell’ordine pubblico nell’Isola e la seconda, del 21 ottobre dello stesso anno, sulla consegna ai prefetti del materiale del disciolto partito fascista avente attinenza con l’attività politica. Viene infine pubblicata una memoria del comunista sardo Luigi Polano sull’incarico, ricevuto dalla direzione del PCI nel settembre 1941, di inserirsi nelle trasmissioni radiofoniche dell’EIAR sovrapponendo al notiziario gestito dal giornalista Mario Appelius, una delle firme giornalistiche più note del regime, quello dell’emittente antifascista “La Voce della verità”, in modo da smascherare le false notizie ufficiali sull’andamento della guerra.

I diversi saggi, nel complesso, si collocano positivamente in un ampio filone di ricerca sulla storia della Sardegna nel biennio 1943-45 (di cui è dato ampiamente conto nella Nota bibliografica) integrandolo e approfondendolo soprattutto su due versanti: in primo luogo quello della storia militare, spesso non adeguatamente valorizzata nell’ambito degli studi sulla Resistenza, ma molto rilevante nel caso della Sardegna, per la particolare posizione in cui si trovarono i reparti stanziati nell’Isola all’indomani dell’8 settembre. In secondo luogo, vengono opportunamente colmate le lacune relative alla conoscenza di figure eminenti di combattenti nelle file della Resistenza: personalità come Nino Garau o Luigi Canu meritano di certo un’attenzione maggiore di quella che è stata dedicata loro fino a oggi. Il volume pubblicato dall’Istituto sardo per la storia dell’antifascismo e della società contemporanea rappresenta dunque un importante contributo alla riflessione sulla partecipazione del Mezzogiorno alla Resistenza, ed è auspicabile che esso solleciti ulteriori iniziative di ricerca in questo ambito, per pervenire a una più approfondita conoscenza di quello che è stato il concorso della Sardegna e dei sardi, non solo sul versante militare ma anche su quello etico e politico, alla lotta di liberazione nazionale e alla costruzione della democrazia repubblicana.