Qualche tempo fa, Giovanna Frene, tra le voci più originali della poesia italiana contemporanea, ma anche studiosa e critica letteraria di arguta sottigliezza, mi informava di essersi messa alla guida della curatela di un volume molto particolare, uno studio di semiotica applicata, per la prima volta, a una zona storica monumentale della guerra, quella del monte Grappa, accompagnata da una serie di scatti appositamente commissionati a Giuseppe Dall’Arche e da un intenso testo poetico della stessa Frene. Ciò che lega la poetessa a quel luogo non è solo l’imperativo della memoria civica ma anche un pugno di ricordi privati e un nostalgico orgoglio personale: Crespano del Grappa (ora Pieve del Grappa), che si trova ai piedi del Massiccio, è per lei un luogo dello spirito a cui spesso fa ritorno; e non solo: la serie di cime che formano il Massiccio sono i territori dove combatté il nonno paterno di Giovanna, Francesco, alpino del 7’ reggimento, IV Armata, l’“Armata del Grappa”. Sono quindi i luoghi della sua vita, oltre che della vita e della morte di altre migliaia di persone.
“Cima Grappa. Architetture della memoria” (ZeL edizioni, pp. 156, € 25), il lavoro di cui oggi parliamo – rielaborazione della tesi di laurea magistrale di Paola Sozzi presso l’Università di Bologna, sotto la guida di Patrizia Violi – è un viaggio attraverso i segni con cui l’ideologia (le ideologie) marcano gli spazi, ma è pure un’annotazione sulla qualità della memoria storica inserita nello scorrere di un flusso cronologico che può anche – come fa il liquido che erode – giungere a cancellare le testimonianze del passato. Per il semplice motivo che, a volte, i segni lasciati diventano col tempo inintelligibili.
Per capire meglio ciò che è accaduto con la memoria storica del monte Grappa, abbiamo quindi deciso di dialogare con Paola Sozzi che, attraverso il suo lavoro, ha voluto costruire “un testimone ideale e concreto da trasmettere alle nuove generazioni”, quelle che non potranno mai più confrontarsi con la viva voce dei protagonisti dell’immane tragedia umana che è stato il primo conflitto mondiale.
Come è nata l’idea di trasformare la tua indagine semiotica sul complesso monumentale del Monte Grappa nel volume che ora teniamo tra le mani?
L’idea non è nata da me, si è trattato di una di quelle interessanti coincidenze della vita. La professoressa con cui mi sono laureata e addottorata in semiotica a Bologna, Patrizia Violi, ha inserito la mia tesi magistrale nella bibliografia di un suo libro del 2014, “Paesaggi della memoria”. Quel libro è finito in mano a una persona cresciuta sotto il Grappa, una poetessa e studiosa, con la bellissima abitudine di leggere per intero le bibliografie: Giovanna Frene. Giovanna si è messa in contatto con la mia professoressa e poi con me per poter leggere questo lavoro sul Grappa e da subito ha immaginato che potesse essere trasformato in questo libro. Ha seguito la riscrittura della mia tesi, ma ha soprattutto pensato al gruppo di lavoro che lo avrebbe portato alla luce: il sindaco di Crespano del Grappa Annalisa Rampin con il suo staff, lo storico ed ex sindaco Lorenzo Capovilla, lo storico Daniele Ceschin e poi ovviamente il fotografo Giuseppe Dall’Arche. Giovanna ha curato l’intero testo, scritto l’introduzione e una poesia inedita. È lei che si è immaginata che quel mio lavoro acerbo potesse diventare questo lavoro corale di ri-costruzione di memoria.
Senza nulla togliere ai tanti, tantissimi luoghi teatro di micidiali scontri della Prima guerra mondiale, possiamo dire che il monte Grappa riveste un ruolo speciale, non foss’altro per il numero impressionante di vittime che l’Armata del Grappa sacrificò nella battaglia di Vittorio Veneto?
Possiamo sicuramente dire che il sacrificio dell’Armata del Grappa durante la fase finale della guerra, e in particolare durante la battaglia di Vittorio Veneto, che sul monte ebbe inizio quasi una settimana prima dell’avanzata sul Piave, fu uno degli episodi più cruenti di tutta la guerra. Ma a mio parere anche un paio di altri fattori resero da subito il Grappa “un luogo speciale”: la sua posizione e la capacità dell’esercito italiano di bloccare sul monte un nemico molto più forte.
Fu infatti chiaro a tutti, all’esercito, ai soldati sul fronte e sicuramente a buona parte del popolo italiano, che il monte Grappa stava in una posizione strategica e che se fosse stato perso si sarebbe probabilmente sfaldata l’intera linea di difesa italiana: ai piedi del monte, la pianura veneta si apre e giunge fino a Venezia. Inoltre, la IV Armata si schierò sul Grappa nei primi giorni di novembre del 1917, dopo la tremenda ritirata di Caporetto. Non solo la linea di difesa non era ancora del tutto approntata e già coperta di neve, ma soprattutto l’esercito nemico veniva da quello che era un clamoroso successo: la ritirata dal Tagliamento al Piave degli italiani. L’armata austro-ungarica schierata sul Grappa era quindi più numerosa, meglio armata, più riposata e con il morale decisamente più alto dell’armata di italiani e alleati. Eppure, gli italiani resistettero ai loro assalti, per un lungo mese, e arrestarono la loro discesa in Italia.
Fu facile quindi trasformare questo incredibile fatto di guerra, avvenuto in un punto così strategico, in un gesto eroico da narrare a tutta la nazione, trasformando l’armata del Grappa, a guerra ancora in corso, in un emblema della difesa patria.
Così inizia, quindi, il processo di mitizzazione nazionale del Monte Grappa. Si parla addirittura di ‘monte sacro’: ma in quale accezione?
Come dicevo, il processo di mitizzazione inizia sicuramente a partire dalla capacità degli italiani di bloccare la discesa impetuosa degli austro-ungarici sulla linea Piave-Grappa-Montello, a novembre-dicembre 1917. Ma il monte Grappa era in qualche modo già un monte particolare: sulla sua cima era presente da inizio secolo un santuario dedicato alla Madonna, alla quale la popolazione locale era particolarmente affezionata. Il santuario si trovava nel 1917 a coincidere con il punto di comando dell’esercito italiano, spesso sferzato da granate nemiche. Nel 1918, una granata fece cadere la statua dal tetto del santuario, rompendone alcuni pezzi. La statua venne così portata a valle, nella chiesa di Crespano del Grappa, e nacque il mito della “Madonnina ferita”, simile nelle sue ferite ai soldati e in qualche modo “schierata” dalla parte degli italiani. La sua immagine fu fatta girare per tutta Italia, venne impressa sulle medaglie al valore di chi combatteva in zona, e poi stampata sulle cartoline distribuite in trincea ai soldati perché fossero inviate alle famiglie. Fu il modo, sapiente, che trovò il comando dell’esercito per tenere alto il morale dei soldati e degli italiani, in qualche modo “santificando” la battaglia combattuta contro l’invasore straniero.
Inoltre, si scrisse la Canzone del Grappa che fu diffusa in radio per tutta la nazione, la quale identificava il monte con la patria stessa, ripeteva “o montagna per noi tu sei sacra”, dava per certa la vittoria italiana e glorificava il sacrificio degli impavidi italici cuor che si occupavano di difenderla.
El Canfin – Gruppo folkloristico di canti popolari, musica popolare e coreografie uniche eseguite con maestria – La canzone del Grappa
A guerra finita, quindi, le vicende del Grappa si prestavano bene a diventare esempio del sacrificio dei vittoriosi italiani durante la guerra, della loro tenacia ed eroismo, del loro patriottismo. La cima del monte, con altre 7 cime, divenne Zona Monumentale del Regno d’Italia nel 1922: da quel momento fu consacrata a diventare un monumento perenne, un luogo di memoria e in qualche modo di “educazione” del popolo italiano. Il Grappa fu quindi considerato un monte sacro in un’accezione estesa, che seppe fondere la fede cristiana al culto patrio, facendo diventare il monte una sorta di luogo mitico per la nazione, un utile strumento di pedagogizzazione del popolo italiano.
Il Sacrario del monte Grappa è stato (lo è ancora?) un luogo di culto della memoria. Ma di quale tipo di memoria? Anch’essa ha subito un’evoluzione nel corso dei decenni?
Prima di tutto bisogna capire cosa s’intende per memoria e luoghi della memoria. Da un punto di vista collettivo e sociale, la memoria è quella narrazione del passato sulla quale si basa l’identità stessa della collettività. È una selezione di alcuni fatti passati, poco importa che siano accertati, verosimili o reali. Quei fatti passati vengono scelti perché permettono di mettere in luce alcuni dei valori sui quali si vuole che la società stessa si basi. Se pensiamo alla ripresa del passato romano durante gli anni del fascismo, il discorso si fa forse più chiaro, ma questa caratteristica non è propria solo dei totalitarismi del Novecento o delle istituzioni statali, lo è di ogni gruppo sociale.
I luoghi della memoria sono quindi quei luoghi che hanno il compito di perpetrare questa narrazione, scolpendola nel paesaggio in cui la società vive. Sono in qualche modo dei luoghi sacri per quella collettività che in essi trascrive i propri valori fondanti. A volte questi luoghi vengono costruiti in posti non particolarmente significanti, altre volte si scelgono i luoghi in cui quei fatti sono accaduti, in modo che possano raccontare la storia “in modo diverso”. Quest’ultima opzione è spesso presa in considerazione in occasione di eventi traumatici per la collettività, eventi davanti ai quali il luogo serve non solo come testimone del passato ma anche come spazio di elaborazione collettiva.
Era questo il significato dei moltissimi monumenti sorti nei vent’anni successivi alla Prima guerra mondiale in Italia, in quel fenomeno che è stato definito monumentomania. Si voleva salvare la memoria della guerra, ma si aveva anche bisogno di elaborare la prima e più grande delle perdite collettive che il popolo del Regno d’Italia avesse mai vissuto. Con questo spirito s’iniziò a discutere del monumento o cimitero da costruire su Cima Grappa e negli anni Venti s’iniziò un progetto completamente diverso da quello attuale, fino a che il governo fascista bloccò i lavori, cambiò progetto e in meno di un anno costruì il sacrario.
Il fascismo seppe quindi cogliere il portato valoriale che una certa memoria della Prima guerra mondiale poteva trasmettere, in questo luogo ma non solo: la guerra si presentava come il massimo esempio dello spirito patriottico e di sacrificio che il regime intendeva promuovere nell’animo del perfetto cittadino italiano. Inoltre, con l’inizio delle guerre coloniali in Africa coincidente con il periodo in cui si costruirono i sacrari del Grappa e di Redipuglia, il soldato italiano divenne il “martire fascista” che, come il soldato della Prima guerra mondiale, dedicava la sua vita alla gloria patria. Quindi, la lettura di quel fatto storico che fu la Grande Guerra venne sfruttata dal fascismo per trasmettere l’idea di un sacrificio quasi sacro, che facesse meritare ai soldati degna sepoltura e gloria eterna.
Nemmeno l’intero anno di lotta partigiana combattuto sul monte o il terribile rastrellamento del settembre 1944 poterono fare molto nel trasformare questa memoria iscritta nel luogo. Il monte Grappa restò presente nella memoria degli italiani, che ne imparavano la canzone a scuola, ancora per qualche decennio dopo la Seconda guerra mondiale, ma fu sempre connesso soltanto alla Prima guerra mondiale. Se pensiamo alla memoria del Grappa oggi, dovremmo dire non solo che la memoria della Resistenza non è riuscita a fondersi con quella della Prima guerra mondiale nelle narrazioni legate al monte, ma anche che l’importanza stessa del Grappa nell’immaginario collettivo nazionale va scemando e perdendosi, di generazione in generazione.
Possiamo dire che dalla strategia pedagogizzante della propaganda fascista si è passati al turismo di guerra (che appartiene ancora forse a una forma di interpretazione emozionale dei luoghi) fino ad arrivare oggi a un genere di approccio incapace di cogliere la stratificazione storica riducendo anche un sito così carico di significato come la Cima Grappa in uno dei tanti non-luoghi da usare come sfondo di un selfie da ricollocare nella geografia virtuale e autoreferenziale dei social network?
Possiamo dirlo e infatti il mio testo inizia con un’immagine: quella di una giovane mamma che scatta una foto scherzosa alla figlia facendola mettere in posa nel bel mezzo del cimitero italiano, cosa alla quale mi capitò di assistere anni fa. La mia ricerca nasce anche dall’essermi chiesta cosa stesse succedendo in quel momento: la capacità di quel luogo di trasmettere una certa memoria era così debole che la donna non si accorgeva di dove fosse? Oppure sentiva quei fatti come fossero lontanissimi? C’era qualche dispositivo semiotico che l’aiutasse a cogliere il senso di quel luogo? Come lo aveva visitato per comportarsi così?
Certo si potrebbe rispondere a questa domanda dicendo che oggi molti luoghi della memoria sono visitati perché è quasi di moda, ed effettivamente si riscontra vedere una tendenza internazionale al turismo di guerra o in generale al turismo della memoria. Eppure non la vedrei come una tendenza di per sé negativa e spettacolarizzante, come una pratica automaticamente senza valore. Forse nella perdita di molti punti di riferimento ideologici, questo ritorno e questa riscoperta del passato potrebbero anche essere visti come una sete d’identità e di valori comuni, come la ricerca di uno spirito collettivo.
Quel che è certo è che si potrebbe far sì che questa moda diventi un’occasione, cavalcando l’onda di questo interesse con interventi strutturali che predispongano percorsi educativi. E rispetto a questo non posso non notare che il sistema monumentale di Cima Grappa, per come è oggi, è una sorta di occasione persa: questo luogo potrebbe raccontare la storia di cent’anni d’Italia e invece è proposto e presentato ai visitatori come un luogo per una scampagnata, cosa che poi i visitatori fanno.
A un certo punto del tuo lavoro, definisci il complesso monumentale del Grappa come un ‘discorso ideologico’, svelando, sulla scorta di alcuni maestri della semiologia, i rischi che si annidano di fronte al concetto stesso, ancor più quando esso è veicolato da un ‘testo’ tanto grandioso – e di conseguenza tanto capace di ‘parlare alla pancia’ di chi ne usufruisce – com’è l’architettura del Sacrario.
In realtà i discorsi ideologici sono molto più frequenti di quanto non si pensi. Cerco di spiegarmi. Umberto Eco sosteneva che un’ideologia è una certa visione di mondo basata su certe premesse prese per buone, assunte indipendentemente dal fatto che potrebbero esserci altre premesse contraddittorie. I sistemi religiosi, le teorie politiche, se ci pensiamo anche i teoremi matematici, partono da premesse assunte “a priori”, ma possono essere espressi e comunicati in modi diversi, in diversi tipi di discorsi o testi. Tra questi, un discorso ideologico è un discorso che nasconde tali premesse “parziali” e che propone una certa ideologica visione di mondo come se fosse assoluta, naturale, ovvia. Questo è uno dei più comuni modi di fare propaganda politica, in generale è esattamente il modo in cui si propone un qualsiasi sistema politico totalitario o scarsamente democratico.
Nel libro sostengo quindi due cose: da una parte, che quasi sempre i luoghi della memoria sono dei “discorsi ideologici”; dall’altra, che c’è una serie di caratteristiche del sacrario di Cima Grappa (il suo essere costruito nel luogo esatto dei combattimenti, il suo essere fatto di pietra del Grappa, il suo essere appoggiato in modo armonico sulla Cima come se “naturalmente” emergesse da essa, e altro ancora) che contribuisce a creare questo senso di “naturalità” del messaggio che porta avanti, come se fosse effettivamente l’unico possibile.
Rispetto al primo punto, già dicevamo che fare memoria è selezionare una certa porzione del passato (quando non crearla appositamente) e inserirla in una storia che la utilizzi come esempio di determinati valori fondanti. Questa stessa selezione è arbitraria, non “logica” e ovvia, motivo per il quale sostengo che, in generale, i luoghi della memoria rischino di essere discorsi ideologici. Certamente, ci sono luoghi della memoria in cui si riesce a mettere in discussione il proprio punto di vista, a proporne di molteplici, a esplicitare il lavoro compiuto sulla storia e sul passato, ma questo non è così comune e sicuramente non è quello che si propone in questo luogo, o in generale nei monumenti fascisti: la visione della storia, del cittadino, del mondo è una e una soltanto.
Il fatto che questo discorso venga portato avanti da un monumento lo rende poi, in qualche modo, ancora più potente. Siamo abituati a vedere un libro o un quadro come un’opera uscita dalle mani di qualcuno e che incarna una determinata visione della vita o del mondo, che esprime un punto di vista. Siamo meno soliti farlo con un sistema di leggi, con l’organizzazione dello spazio urbano, con i riti sociali che cimentano la nostra collettività. Ma ciascuna di queste sfere, ciascuno di questi linguaggi o pratiche incarna una certa prospettiva, individuale o collettiva. Come dicevamo, la modifica e l’organizzazione dello spazio di vita di una società è uno dei meccanismi più efficaci per cimentare una determinata ideologia, per tramandare una memoria, per costruire un modo di vivere e quindi un’identità collettiva. Dovremmo abituarci a “denaturalizzare” lo spazio nel quale viviamo, per cogliere davvero quali partite si giocano dietro alle decisioni su come utilizzarlo o costruirlo, dietro alle frequenti contese tra spazi “nostri” e spazi “loro”.
Più in generale: funzionano ancora, oggi, i luoghi della memoria? Che problemi abbiamo con la memoria? Che ruolo gioca l’ignoranza storica, o l’incapacità di metterci in sintonia con il messaggio che il luogo vorrebbe trasmettere? Come può un luogo di memoria diventare efficace?
Come dicevamo, l’iscrizione della memoria di una collettività nello spazio in cui vive è un tratto tipico di qualsiasi società. Forse potremmo chiederci quali sono i più recenti luoghi della memoria italiana, quali sono i valori fondanti della nostra odierna identità nazionale e dove vengono trasmessi; mi chiedo se faremmo fatica a trovarli. Penso che al momento assistiamo a un’incapacità del sistema politico di costruire narrazioni che oltrepassino le divisioni partitiche, la durata di un governo, e che si rifacciano a un sistema di valori superiore e condiviso.
Difficile quindi capire se l’ignoranza storica sia una causa o una conseguenza di un sistema che sembra avere poca memoria, dove chiunque può essere nel giro di qualche anno il contrario di quel che era, dove all’emergenza presente difficilmente si contrappone la conoscenza della storia o la coerenza nel tempo. A chi spetterebbe quindi l’onere di costruire un sistema educativo e culturale in grado di raccontare la nostra storia? Al cittadino o allo stato? Al singolo e alle istituzioni? Dove inizia il cortocircuito? Per formazione, tendo a vedere l’origine del problema più nel secondo polo, che nel primo.
L’efficacia di un luogo della memoria sta quindi nel suo essere parte di un sistema della memoria, un sistema di testi di vario genere che perpetra la narrazione di quel passato che il luogo ricorda. Non è quindi che un punto, in grado di raccontare la storia “a modo suo”, ma che rischia pur sempre di perdere linfa vitale se staccato dal tessuto culturale della società che lo vive.
Come hai accennato, non tutti sanno che il Grappa è stato anche lo scenario di un’epica battaglia tra colonne nazifasciste numericamente soverchianti (ne fecero parte truppe delle SS, battaglioni della famigerata Tagliamento e la XXII Brigata Nera) e partigiani. Solo nel 1974 venne eretto un monumento in ricordo della Resistenza sul Grappa, ma la posizione stessa riservata alla costruzione ci dice qualcosa sul differente valore o sulle differenti modalità di raccontare la storia veicolate dal Sacrario e dal Monumento al Partigiano.
Esatto. Questo è uno degli aspetti che volevamo sottolineare nel libro: non volevamo un altro libro che parlasse solo di Prima guerra mondiale, ma dell’intera storia del luogo e di tutto quel che vi è stato costruito. Sono molto affezionata alla ricostruzione del rastrellamento, che ho approfondito grazie all’aiuto di Lorenzo Capovilla, che vi ha dedicato molta parte della propria carriera.
Come dici, il rastrellamento è stato uno degli episodi più cruenti e terribili della Resistenza veneta. Si trattò di giorni in cui non solo i partigiani, ma anche il territorio intorno al Grappa pagarono carissimo il prezzo della lotta per la liberazione dal Nazifascismo che si organizzò sulle pendici del massiccio. Eppure, negli anni Cinquanta venne posto solo un piccolo cippo nella piazza antistante il museo di guerra, sulla Cima, e poi non se parlò più, come in tutta Italia d’altronde, fino agli anni Settanta.
Per costruire il sacrario della Grande Guerra, vennero raccolti fondi in tutta la nazione, la città di Roma donò un portale e poi lo Stato fascista si fece carico dell’intera, immane opera di costruzione. Per erigere il monumento al Partigiano, ci volle l’iniziativa dell’ex comandante partigiano e assessore regionale, l’on. Gino Sartor, che costituì un comitato per i trent’anni dall’eccidio con lo scopo di erigere finalmente un monumento alla memoria di quel terribile sacrificio.
Se guardiamo quindi a come e a cosa è stato costruito sulla Cima per la memoria di un fatto storico e per quella dell’altro, se consideriamo anche solo le soverchianti dimensioni del primo e le modeste dimensioni del secondo o i materiali di esecuzione (pietra del Grappa in un caso, cemento nell’altro), capiamo che la memoria della Grande Guerra è stata di fatto privilegiata rispetto a quella della Resistenza. La cosa triste è che questo avviene ancora oggi: nella mappa della zona monumentale posizionata nel parcheggio, che si trova sopra il Monumento al Partigiano e che è più visibile, non si trova il Monumento al Partigiano, raggiungibile in un paio di minuti a piedi. Nel museo non si menziona la Resistenza, mancano anche i cartelli stradali. Quindi, molte persone se ne vanno dalla zona senza accorgersi della presenza di quest’altro monumento.
Ho dedicato un’intera sezione del libro a questo punto: fondere la narrazione fascista della Prima guerra mondiale con la memoria della Resistenza è sicuramente un compito arduo. Come mettere insieme il valore sacro della morte di uomini che obbedirono al volere statale con il sacrificio di uomini che resistettero a un’organizzazione statale fascista? Chi costruì il Monumento al Partigiano cercò di armonizzarlo il più possibile, dal punto di vista architettonico ma anche valoriale, con il sacrario. Si scelse di creare un ponte tra le due vicende storiche attraverso il valore del sacrificio e di quello della ricerca di libertà, operazione che in questo contesto servì a poco: l’assenza di una nuova narrazione inclusiva e super partes non fa che rimarcare la gerarchia di una memoria sull’altra.
Il testo è corredato dai magnifici scatti fotografici di Giuseppe Dall’Arche: immagini a tutta pagina o sviluppate su due facciate che danno conto della maestosa presenza del complesso monumentale. Dal punto di vista semiotico quale tipo di messaggio offrono al lettore?
Credo che il libro sia un esperimento interessante, da un punto di vista semiotico, per la compresenza di tre diversi linguaggi: il mio testo saggistico, la poesia di Giovanna Frene e infine le fotografie di Giuseppe Dall’Arche. Ognuno di noi tre autori ha usato il linguaggio che gli è più proprio per parlare dello stesso posto, in una composizione a sei mani. Ognuno ha aggiunto una sua prospettiva personale, un suo punto di vista; per esempio, nel testo sottolineo spesso che il sacrario sfrutta la dimensione dell’ascesa e della verticalità, invece lo sguardo di Giuseppe ne mette in luce una certa orizzontalità. Ma non esiste una versione giusta, si tratta di diversi spunti e prospettive che però insieme riescono a raccontare una stessa storia, a fungere a uno stesso scopo.
Devo dire che la ricchezza di questa compresenza di linguaggi mi ha stupito e penso sia la componente principale dell’originalità del libro. Non conoscevo Giuseppe Dall’Arche e non potevo quindi immaginare quel che sicuramente Giovanna Frene aveva intuito nel pensare di costruire un libro tutti insieme. Le fotografie di Giuseppe non solo ricreano l’esperienza di visita o accompagnano il lettore nella lettura, ma creano una visita completamente nuova. Accostano alla mia visione una visione altra. Raccontano una storia che, anche se s’intreccia a quella del mio testo, non si appiattisce su di esso, ma la riempie e la trascende.
Oggi, nel 2019, qual è o quale sarebbe – per fare una variazione sul concetto echiano di ‘lettore modello’ – il visitatore ideale del Monte Grappa?
Il visitatore o lettore modello è un’astrazione: è una figura che si crea riempiendo i vuoti di un testo. Chiunque comunichi qualcosa deve dare per scontate una serie di conoscenze e capacità in chi lo ascolta: che parli una stessa lingua, che colga il contesto in cui si comunica, che sappia una serie di nozioni, in modo da non doverle trasmettere, e così via.
Questa domanda quindi coglie un punto essenziale: non è stato fatto niente recentemente per adattare il luogo al visitatore odierno. Si dà in qualche modo per scontato che chi arriva in cima conosca la storia, sappia cosa è stata la Prima guerra mondiale o chi la combatteva qui. Il museo prova da parte sua a raccontare una parte di questa storia, ma in modo quantomeno discutibile, e comunque tralasciando sia le vicende di costruzione del sacrario che quelle legate alla Resistenza.
Il sacrario, di per sé, non trasmette queste informazioni storiche o di contesto: non solo trasmetterle non era funzionale a ciò che il sacrario voleva fare, ma in qualche modo era anche inutile. Nel 1935, quando fu inaugurato, non c’era bisogno di spiegare ai visitatori cosa fosse successo sul monte vent’anni prima. Il sacrario fu quindi progettato pensando a un visitatore modello che conoscesse quella storia. Anche se, già allora, si pose il problema di parlare del luogo ai bambini e ai giovani che lo avrebbero visitato durante le gite scolastiche degli anni a venire e fu così scritto un manuale per insegnanti che fornisse le informazioni necessarie a presentare il luogo come era importante che fosse presentato. Solo lo storico Vanzetto, in collaborazione con Manesso, ha pubblicato nel 2001 un manuale simile, dedicato agli insegnanti, in modo che possano raccontare agli alunni non solo la storia della Grande Guerra, ma anche dei monumenti che si trovano sulla cima e della Resistenza.
Esattamente quest’ultima operazione sarebbe necessaria per permettere al visitatore di oggi di cogliere lo spessore storico di un luogo come Cima Grappa. E invece è mancato fino ad ora un intervento sistematico, in grado di costruire un percorso di visita pensato per un nuovo visitatore modello, o per più visitatori modello, che si avvicinino al profilo dei visitatori odierni. L’assenza di questa operazione è però di per sé un fatto interessante: evidentemente non si sente il bisogno di “modificare” o prendere una qualche distanza dalla lettura fascista della Grande Guerra, anche se anche questa raggiunge il visitatore di oggi in modo depotenziato e quasi contraddittorio.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato lunedì 20 Maggio 2019
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