“Fino ad oggi non è pervenuta alcuna comunicazione in merito agli avvenimenti svoltisi ieri a Barletta; pregasi pertanto rimettere urgenza mezzo corriere dettagliato rapporto predetti avvenimenti”. Scriveva così il Comando Territoriale del IX Corpo d’Armata il 12 settembre 1943 al colonnello Francesco Grasso, dopo aver comunicato, il giorno prima, l’ordine di “considerare le truppe germaniche come truppe nemiche”. Dopo di che il silenzio.
Senza piani, senza ordini e mezzi, con la fuga a Brindisi di Vittorio Emanuele III, di Pietro Badoglio e dei vertici militari, gli uomini che all’indomani dell’8 settembre si trovarono allo sbando furono moltissimi, formati dalla rigida disciplina militare e abituati dunque ad obbedire. Non fu così per il colonnello Francesco Grasso e il suo reparto che riuscirono a respingere l’attacco del Gruppo Combattente nazista Kurtz sulla città pugliese. Poi, consapevole della scarsità di uomini, armi e munizioni richiesti e mai arrivati, Grasso ordinò la resa il giorno successivo, quando arrivò la vendetta tedesca per lo smacco subito. Una scelta secondo coscienza che lo portò a dover prendere autonomamente decisioni in uno dei momenti più controversi della storia italiana. Scelse, pertanto, da che parte stare, ma questo non bastò perché venne dimenticato e abbandonato nei lager nazisti, ignorato e guardato con diffidenza al rientro in patria.
Una storia taciuta che prende voce dalle annotazioni giornaliere del colonnello Grasso, divenuto il libro “Novecinquesei. Diario della Resistenza di un soldato” (Durango Edizioni), curato da Roberto Tarantino, presidente Anpi della provincia Barletta-Andria-Trani, che attraverso “la limpidezza degli argomenti, rappresenta il patrimonio più grande di umanità che ha saputo trasferirci” scrive nella prefazione del testo Vincenzo Calò, responsabile Anpi per il Sud Italia.
Tornando a quel 12 settembre 1943 che fu il giorno in cui Grasso, come si diceva, ordinò la resa del Castello del presidio militare della sua Barletta.“Le truppe nemiche, occupata Barletta, per ritorsione trucidarono barbaramente 13 inermi cittadini che unirono così il loro sacrificio al valore dei militari in un comune anelito di libertà” afferma la motivazione che ha conferito alla città, “splendido esempio di nobile spirito di sacrificio ed amor patrio”, la Medaglia d’Oro al Merito civile nel 1998 e la Medaglia d’Oro al Valor Militare nel 2003.
E fu anche il giorno che segnò il lungo viaggio del colonnello Francesco Grasso verso i lager tedeschi, dove fu prigioniero numero 956, uno dei 650 mila Internati Militari Italiani (Imi) che a seguito della firma dell’armistizio si rifiutarono di continuare a combattere la guerra al fianco dei tedeschi e che non accettarono di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, andando incontro a un durissimo destino come quello dei lager, stipati nei vagoni dei treni merci, incrociando il loro destino con quello di ebrei e prigionieri politici.
Per i nazisti furono traditori da ridurre alla condizione di schiavi da destinare al lavoro coatto e da lasciar morire di inedia, di stenti, di malattie nelle baracche dei campi di prigionia, senza che fosse riconosciuta loro alcuna protezione e tutela sancita dalla Convenzione di Ginevra.
“Ho le gambe gonfie e non posso calzare gli stivali. Preoccupato mi sono fatto visitare. Il dottore mi rassicura, dicendomi che tutto è da attribuirsi alla denutrizione” scrive Grasso il 15 aprile 1944 nel lager di Tschenstochau, in Polonia, a cui fanno eco le parole del direttore dell’infermeria, in una relazione riportata dal testo: “Forte fu la percentuale degli ufficiali che furono colpiti da edemi da fame. Senza tema di errori, si può calcolare che nei mesi febbraio-marzo 1944 essa arrivò all’80 per cento dei presenti nel campo”.
Ma per Francesco Grasso tutto ciò non fu l’unica sofferenza: ad attenderlo in patria vi fu l’infamia di un processo che lo accusò di resa ai nazisti, sempre quel 12 settembre 1943, senza aver esaurito i mezzi di difesa e senza aver fatto quanto gli era imposto dal dovere e dall’onore. “Di fronte a questo – scrive ancora Vincenzo Calò – Grasso sceglie di stare da una parte, ancora una volta non per astrazione ma per verità, quella verità che si evince dalle parole di questo diario”. Grasso uscì indenne dall’istruttoria, ma non volle mai più parlare del dolore che gli portò, ammutolito dall’ingratitudine dei comandi di un esercito che era la sua casa.
Triste eppure lucido, Grasso riuscì a redigere il suo diario tra gli stenti, negli spazi bianchi di un minuscolo messale e che oggi è un importante contributo di memoria e verità di chi vedeva il dovere come servizio verso la sua gente “la cui protezione e salvezza era il cardine della lotta, della resistenza e dell’onore di un soldato e di un uomo civile”. Che, scrive Calò, “ha potuto dire d’aver combattuto aspramente contro quel nemico, ma di non essere comunque diventato come lui”.
Mariangela Di Marco, giornalista
Pubblicato sabato 2 Marzo 2024
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/numero-956-io-imi-nel-lager-nazista/