Nel riportare d’attualità la figura di Enrico Martini Mauri, va anzitutto spiegata l’origine di Partigiani penne nere, opera frutto dell’ampliamento di un breve saggio memorialistico scritto di getto in tre giorni nel maggio ’45, praticamente all’indomani della sfilata della Liberazione a Torino, il 1° di quel mese. Una sorta di reportage in tempo quasi reale, come del resto era l’imperativo assoluto nella stagione d’oro del neorealismo, “mettere al passo” la storia del Paese con la sua narrazione e divulgazione attraverso il mezzo espressivo più popolare, il cinema. Quel piccolo nucleo, Noi del 1° Gruppo Divisioni Alpine, vide poi la luce nel 1947, mentre il volume sviluppato fu pubblicato da Mondadori nel 1968. Il merito della ristampa di entrambi va ora a Pier Franco Quaglieni, giornalista, docente e storico del liberalismo piemontese, che ne ha curato le prefazioni.
L’ufficiale del corpo degli Alpini, promosso al grado di maggiore per meriti di guerra, Enrico Martini (Mondovì, classe 1911) – “Mauri” era il suo nome di battaglia, che poté aggiungere all’anagrafe con decreto del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi – dopo aver preso parte al tentativo della difesa di Roma all’indomani dell’8 settembre, fu preso prigioniero, fuggì dal campo di concentramento di Apuania e riuscì a tornare al suo Piemonte, dove organizzò i primi raggruppamenti partigiani delle valli monregalesi secondo un criterio rigorosamente militare. Attenzione, però: non rigidamente “militarista”. E ne è prova, curiosamente, oltre alle testimonianze di chi lo ha conosciuto e ne è stato guidato, lo stile di scrittura letteraria, quanto di più lontanamente immaginabile dal modo di esprimersi e dalla forma del “rapporto”. Insieme all’analisi del territorio d’operazione, fin nelle caratteristiche geomorfologiche, come in quelle sociali e produttive, con riferimento alle necessità di approvvigionamento, non meno che nella visione naturalistica e sentimentale, emergono infatti pure i ritratti umani.
È il caso di figure leggendarie come Ignazio Vian, comandante della banda di Boves e poi suo vice al 1° Gruppo, impiccato dai tedeschi e Medaglia d’Oro al Valor Militare: “alla testa del gruppo c’è un giovanotto alto, con l’impermeabile chiaro e due occhi accesi (…) che nella discussione ha fatto non meno di tre citazioni letterarie”, i suoi uomini partiti in azione “li aspetta fino al mattino, li sgrida perché non dormono, lui che alle cinque è già sempre in piedi” e “al tramonto, sulla valle coperta dal fumo degli incendi, si spande il suono delle campane … è Vian che le fa suonare a distesa: inno di vittoria e di fede, richiamo ai dubbiosi”. Oppure del phisique du rôle corpulento e inconfondibile di Folco Lulli, “grosso e giocondo con due poderosi baffi alla tricheco… improvvisa infocati discorsi a un popolo abbastanza esiguo, ma prodigo di applausi”, alle improvvisate lezioni di sci “riempie il campo di buche gigantesche e la sua risata arriva fino al comando”: non pensa ancora a far l’attore, ma lo ameremo poi ritratto così nei film del dopoguerra, Caccia Tragica, Fuga in Francia, I compagni.
La seconda parte di Partigiani penne nere affronta il periodo successivo ai rastrellamenti del marzo ’44 che costringono i resistenti ad abbandonare le valli, disperdersi e riorganizzarsi sulle colline delle Langhe, nell’intero arco del fiume Tanaro, da Ceva ad Asti, dando vita al 1° Gruppo Divisioni Alpine, appartenente alle Formazioni Autonome Militari. Denominati “apolitici” o “badogliani”, in realtà i combattenti “azzurri” erano per lo più liberali, monarchici e cattolici moderati. Nera, invece, era la penna che “Mauri” portava sempre sul suo berretto di alpino: “Stiamo bene tutti insieme, con le nostre opinioni, perché la mèta è la stessa e sogniamo un Paese che somigli un poco a questa nostra idea. Stiamo bene tutti insieme perché siamo tutti partigiani, tutti volontari della libertà”.
Daniele De Paolis, giornalista
Pubblicato venerdì 17 Febbraio 2017
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