Nell’imminenza del cinquantesimo anniversario, la strage di Piazza Fontana continua a proiettare la sua ombra inquietante sulla storia della Repubblica e a sollevare interrogativi che non sempre hanno ottenuto risposte esaurienti. Processi, commissioni parlamentari di inchiesta, indagini giornalistiche e, ormai, l’impegno degli storici, hanno fatto certamente compiere passi in avanti nell’accertamento della verità, ma la cortina di nebbia che circonda alcuni di quegli eventi e le responsabilità di esecutori e mandanti, continua a rimanere fitta e, per alcuni aspetti, impenetrabile.

Quello che è certo è che gli attentati del 12 dicembre 1969 furono il passaggio cruciale di un percorso eversivo che affonda le sue radici nell’origine stessa della Repubblica, nei conti mai fatti con il passato, nel riciclaggio indolore, a pochi anni di distanza dalla Liberazione, di figure gravemente compromesse con il regime fascista, poste nuovamente ai vertici degli apparati di sicurezza dello Stato, in nome della dicotomia amico/nemico portata alle sue estreme conseguenze delle logiche della guerra fredda: così, non c’è da stupirsi che nel 1969  la carica di questore di Milano fosse ricoperta da Marcello Guida, negli anni ’40 direttore della colonia confinaria di Ventotene, ovvero carceriere degli uomini della Resistenza e della Liberazione; né che Silvano Russomanno, l’uomo dell’Ufficio Affari riservati del Ministero dell’interno precipitatosi a Milano per indirizzare le indagini in direzione della pista anarchica (di cui fu uno degli ideatori), avesse un passato, scrive Brogi “tra Repubblica Sociale di Salò e  addirittura l’arruolamento in una formazione militare tedesca”, un battaglione antiaereo della Wehrmacht.

La storia di Piazza Fontana e dello stragismo degli anni successivi è certamente la storia dei gruppi eversivi di estrema destra intenzionati a gettare nel caos il Paese e ad attentare alle istituzioni democratiche, ma è anche e forse soprattutto la storia delle connivenze, dei silenzi e degli insabbiamenti, maturati nelle pieghe di istituzioni alle quali era affidata la tutela dell’ordine democratico, e nelle quali hanno allignato per anni tendenze più o meno dichiaratamente eversive e nostalgiche, mosse dall’intento ultimo di ridimensionare e se possibile sopprimere le libertà conquistate con la Resistenza e sancite nella Costituzione.

Pinelli a Genova in viaggio di nozze nel 1955. Fotografia da Licia Pinelli

E proprio da insabbiamenti e depistaggi prende le mosse il recente volume di Paolo Brogi, Pinelli, l’innocente che cadde giù (Roma, Castelvecchi, 2019) che fa rivivere un evento emblematico del clima dei giorni successivi alle bombe di Milano (Pinelli morì nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, quindi quattro giorni dopo la strage), e ne ricostruisce i principali momenti con l’ausilio di un ampio apparato di fonti documentali, presentati al lettore nella forma piana e scorrevole dell’inchiesta giornalistica. La scoperta di alcuni verbali di interrogatori e altri documenti riservati conservati presso l’Archivio centrale dello Stato ha consentito infatti all’autore di delineare un quadro dettagliato delle vicende politiche e giudiziarie che seguirono la morte di Pinelli, e che nel libro si intrecciano con la narrazione, più intima e personale, della vita privata della famiglia Pinelli, della moglie Licia e delle figlie Silvia e Claudia che, all’epoca dei fatti, avevano rispettivamente nove e otto anni. Ed è merito non piccolo dell’autore di avere restituito al lettore non soltanto la storia di dignità e di coraggio di una famiglia così duramente colpita, ma anche un ritratto a tutto tondo di una persona che merita di essere ricordata al di là della dimensione simbolica alla quale è stata consegnata in conseguenza di una tragica fine. Giuseppe Pinelli era infatti una figura rappresentativa di un certo ambiente politico e intellettuale e del fervore che aveva accompagnato gli anni della contestazione a Milano: staffetta partigiana, da sempre militante anarchico, ferroviere – appartenente quindi a quella che si è sempre considerata un’élite della classe operaia – si era fatto conoscere per il suo impegno politico, per il suo rigore etico, per la correttezza nei rapporti professionali e per una fervida curiosità intellettuale, che gli aveva consentito di stabilire una estesa rete di contatti e di amicizie nell’ambiente politico e culturale della sua città, ben oltre la ristretta cerchia della piccola comunità anarchica.

La banca dell’Agricoltura dopo la strage (http://www.linformazione.eu/2019/05/il-libropiazza-fontana-quando-un-innocente-cadde-dalla-finestra-della-questura/#iLightbox[gallery13135]/0)
Il libro di Paolo Brogi ricostruisce con dovizia di particolari le ultime ore di un uomo mite e idealista: prelevato dalla polizia la sera del 12 dicembre, con modalità che non fanno certo pensare all’arresto di un colpevole (segue in motorino la macchina di servizio del commissario Luigi Calabresi, capo della squadra mobile, dove ha preso posto l’anarchico Pasquale Valitutti anch’esso condotto in Questura), Pinelli viene illegittimamente  trattenuto in stato di fermo, ben al di là della scadenza del termine legale oltre il quale è richiesta la convalida del magistrato, in un clima che tutti i testimoni si sono affannati a dichiarare disteso e amichevole. In realtà, da quanto emerge dalla ricostruzione dell’autore, gli inquirenti, e in particolare il capo dell’ufficio politico della questura di Milano, Antonino Allegra, si prodigano per attribuire a Pinelli (che lo stesso Allegra definirà “fortemente indiziato per la strage di piazza Fontana” nel rapporto inviato il 16 dicembre al Ministero dell’interno, a poche ore dalla morte dell’anarchico milanese) la responsabilità delle bombe collocate su alcuni treni in agosto (e per le quali successivamente verrà riconosciuta la colpevolezza dei fascisti di Ordine nuovo) nonché delle bombe del 25 aprile alla Fiera di Milano. Poi, probabilmente verso le 19,30 del 15 dicembre, il tentativo di forzare la situazione: Calabresi, nella cui stanza si sta svolgendo l’interrogatorio, comunica a Pinelli la falsa notizia della confessione di Pietro Valpreda per le bombe di Piazza Fontana. Pinelli è colpito, e mormora che si tratta della fine del movimento anarchico: o almeno questa è la versione fornita dai presenti (quelli noti sono cinque: i sottufficiali di polizia Vito Panessa, Carlo Mainardi, Pietro Muccilli e Giuseppe Caracuta, insieme al tenente dei carabinieri Savino Lograno), successivamente riproposta dalla Questura per sostenere la tesi del suicidio del colpevole ormai smascherato. Alcune ore dopo, Pinelli muore, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, certamente dopo la mezzanotte, quindi almeno quattro ore dopo la falsa rivelazione di Calabresi. Questi peraltro, secondo numerose e concordanti testimonianze, non si trovava nella stanza al momento del fatto.

Le circostanze della tragedia sono tali da suscitare subito alcuni interrogativi: come si passa da un clima che tutti i testimoni oculari (o presunti tali) convengono nel definire sereno e disteso, alla tragedia? Chi era presente al momento della caduta dalla finestra della stanza del quarto piano, dove si svolgeva l’interrogatorio? A che ora è avvenuta la caduta? Per quale motivo nessuno dei presenti si è spostato nel cortile dove l’anarchico è precipitato? Per quale ragione nell’ambulanza che trasporta Pinelli all’ospedale è presente un agente che lo piantona persino in sala operatoria, durante l’estremo tentativo di salvare l’uomo, che sarebbe spirato pochi minuti più tardi?

Quello che è certo, spiega Brogi, è che subito dopo la morte di Pinelli, gli inquirenti cercano di trarre vantaggio dall’accaduto e, nella conferenza stampa convocata immediatamente, alle 2 del mattino del 16 dicembre, si sforzano di accreditare la tesi per cui il suicidio del ferroviere milanese è il gesto disperato di un colpevole che si sente perduto, gesto che peraltro starebbe a confermare l’esattezza dell’intuizione iniziale e la giustezza della pista anarchica, intrapresa subito dopo gli attentati, senza prendere in considerazione altre ipotesi investigative. Il tono disteso e quasi salottiero con cui Marcello Guida fornisce la versione della Questura non convince nessuno dei presenti: Corrado Stajano, che prende parte alla conferenza stampa con Camilla Cederna, Giampaolo Pansa e pochi altri giornalisti, ha ricordato, alcuni anni dopo: “Sembrava una cerimonia dal film di Buñuel. […] Un salotto macabro”.

Camilla Cederna (da http://www.artspecialday.com/ 9art/2016/01/21/giornalisti-che-hanno-fatto-la-storia -e-camilla-cederna/)

Tutti intuiscono che la versione della Questura è un castello di carte destinato a crollare al primo scossone. Nella descrizione che Brogi offre di quelle ore emerge come la linea investigativa subito seguita dagli inquirenti, e con particolare zelo da Guida e da Allegra, sia risultata sin dalle prime battute assai poco fondata, ma funzionale a operazioni politiche ambigue e strumentali: contro di esse, nei mesi immediatamente successivi, inizia a coagularsi  un fronte ampio e variegato di forze politiche e sindacali, di associazioni, comitati e di singole personalità, che reclamano la verità sulla morte di Pinelli, nella convinzione che le forzature e le contraddizioni della pista anarchica sono servite a coprire i veri attentatori, quelli che hanno progettato ed eseguito atti terroristici volti a creare il clima di incertezza e paura indispensabile per avviare una svolta autoritaria. In questo fronte di opposizione si iscrivono personalità di primo piano della cultura: tra di esse, Dario Fo che, insieme a Franca Rame, metterà l’intera vicenda in scena, nella sua “Morte accidentale di un anarchico”, una incisiva denuncia degli abusi e delle sopraffazioni del potere, e il pittore Enrico Baj che dipinge, dedicandolo alla moglie e alle figlie dell’anarchico milanese, il grande quadro “I funerali dell’anarchico Pinelli”, una riproposizione attualizzata dei “Funerali dell’anarchico Galli” di Carlo Carrà. Il dipinto, peraltro, ebbe un esordio alquanto travagliato: la sua presentazione al pubblico avrebbe dovuto infatti avere luogo il 17 maggio 1972, ma in quello stesso giorno venne assassinato il commissario Calabresi, ragion per cui la mostra venne rinviata, e negli anni successivi l’opera apparve solo in occasione di alcune esposizioni.

La mobilitazione dell’opinione pubblica ebbe comunque un ruolo decisivo nello smantellamento della versione della Questura e nella dimostrazione dell’infondatezza della tesi del suicidio di Pinelli e, con essa, del dubbio insinuato dagli inquirenti sull’ammissione di colpevolezza implicita in tale gesto. Il volume ricostruisce dettagliatamente anche due passaggi giudiziari che, pur senza essere risolutivi, hanno però consentito di fare emergere, al di là dell’esito finale, le contraddizioni e le omissioni che si affastellarono nella prima ricostruzione dei fatti. Il primo passaggio è costituito dal processo per diffamazione intrapreso da Luigi Calabresi contro il settimanale Lotta continua, nella persona del suo direttore responsabile Pio Baldelli, per le reiterate affermazioni del giornale sulla diretta responsabilità della capo della squadra mobile della Questura nella morte di Giuseppe Pinelli, per la quale il periodico aveva parlato esplicitamente di omicidio; il secondo passaggio riguarda l’istruttoria condotta dal giudice Gerardo D’Ambrosio in seguito alla denuncia per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso d’ufficio presentata da Licia Pinelli, rappresentata dall’avvocato Carlo Smuraglia, contro Calabresi e i cinque rappresentanti delle forze dell’ordine presenti nella stanza dove era stato interrogato il marito.

La ricostruzione del processo Calabresi-Lotta continua è condotta con estrema puntualità e conduce a una conclusione assai poco soddisfacente: infatti, a fronte del crollo della originaria ipotesi del raptus suicida (consegnata agli atti giudiziari anche da una prima istruttoria, terminata con la richiesta di archiviazione, condotta dal giudice Antonio Amati nel 1970) conseguente all’emergere delle contraddizioni nelle testimonianze dei poliziotti presenti, ciascuno dei quali si contraddice in modo palese e in alcuni casi fornisce una versione quasi grottesca degli eventi,  non si giunge ad alcun accertamento di responsabilità: il processo, interrottosi nel 1971 per la ricusazione del presidente del tribunale Carlo Biotti, da parte dell’avvocato Lerner, difensore di Calabresi, si concluderà nel 1976, in un clima profondamente mutato dopo l’assassinio dello stesso Calabresi (e successivo dopo la fine dell’istruttoria condotta dal giudice D’Ambrosio) con la condanna del direttore di Lotta Continua a poco più di un anno di reclusione con la condizionale.

Le stesse ambiguità e le stesse incertezze vengono ravvisate nella conclusione delle indagini condotte da Gerardo D’Ambrosio, che esclude la tesi del suicidio, per sostenere invece quella della caduta accidentale riconducibile a un malore, a sua volta causato da una concomitanza di fattori di stress, con la conseguente assoluzione dei cinque poliziotti presenti. L’autore non nasconde la sua perplessità su tale conclusione (sulla cui incompletezza registra la successiva ammissione dello stesso D’Ambrosio), e mette in rilievo come diversi elementi di fatto, non adeguatamente presi in considerazione dal magistrato inquirente, consentissero sin da allora di sostenere una tesi ben diversa e di ipotizzare una caduta conseguente ad atti di violenza perpetrati contro Pinelli nel corso dell’interrogatorio.

In sostanza, l’attività giudiziaria è stata utile per confutare in radice la tesi del suicidio e per provare l’innocenza di Pinelli, ma si è fermata a mezza strada, non ha avuto il coraggio di andare oltre e di perseguire i possibili autori di un reato e i loro complici; resta però aperta la questione dell’origine della pista anarchica e del gigantesco depistaggio che ha consentito di occultare per anni la matrice fascista delle stragi, il coinvolgimento di settori dei servizi di sicurezza  e i nomi degli esecutori materiali.

Su questo punto, il lavoro di Paolo Brogi si avvale della documentazione reperita negli archivi per segnalare soprattutto il ruolo dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’interno, un vero e proprio servizio di intelligence posto all’epoca dei fatti sotto la guida nominale di Elvio Catenacci e quella effettiva del vice capo Federico Umberto D’Amato: l’attivismo di questo organismo emerge nelle carte processuali di due inchieste, quella del giudice Carlo Mastelloni sull’abbattimento, nel 1973, dell’aereo militare Argo 16 e sulla morte dei quattro uomini dell’equipaggio (che si incrocia in diversi punti con la vicenda del 12 dicembre 1969) e quella condotta dal giudice istruttore Guido Salvini e successivamente dai Pm milanesi Pradella e Meroni, nell’ambito della nuova  inchiesta sulle bombe di piazza Fontana, sfociata nel processo di primo grado del 2001, conclusosi con la condanne all’ergastolo dei neofascisti Delio Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, poi cancellate in appello e, in via definitiva, dalla Cassazione.

Federico Umberto D’Amato

Dai numerosi interrogatori emerge con chiarezza il ruolo determinante svolto dai funzionari dell’Ufficio Affari riservati nell’indirizzare in senso univoco le indagini verso la pista anarchica: già nelle prime ore successive alla strage (probabilmente la stessa sera del 12 dicembre), giunge a Milano da Roma il citato Silvano Russomanno, braccio destro di D’Amato, nonché intimo amico di Antonino Allegra, in compagnia del collega Francesco D’Agostino; contestualmente, arriva sempre da Roma una squadra di una dozzina uomini, guidata da un altro funzionario, Guglielmo Carlucci, che si coordina con il cosiddetto gruppo 54, ovvero con la struttura milanese dell’Ufficio affari riservati, guidata dal brigadiere Ermanno Alduzzi, figura chiave dell’intera vicenda. Spetta infatti ad Alduzzi il compito di gestire il confidente Enrico Rovelli (nome in codice “Anna Bolena”), manager musicale, infiltrato tra gli anarchici milanesi e informatore sia della Questura di Milano, sia dell’Alduzzi e, per il tramite di quest’ultimo, del Russomanno. Tra mezze ammissioni, reticenze, smemoratezze e omissioni, nelle quali ci si imbatte con frequenza nei verbali giudiziari citati da Brogi, emerge il quadro della presenza assidua, pervasiva ma anche discreta e sottotraccia degli uomini del Viminale. Questi ultimi, resisi invisibili sia ai giudici del processo Calabresi-Lotta continua, sia all’istruttoria condotta da D’Ambrosio, risultano tuttavia essere “i veri padroni” dell’inchiesta milanese: così si esprimerà, interloquendo con il giudice Mastellone, Guglielmo Carlucci, il funzionario posto a capo della task force romana. Questi, nella sua deposizione, conferma anche quanto riferito da un altro dei testimoni ascoltati dal magistrato, il segretario pro tempore dell’ufficio affari riservati Giuseppe Mango, ovvero che per rintracciare l’origine della pista anarchica occorre risalire alle informative fornite da “Anna Bolena” sulle quali Alduzzi e Russomanno costruiscono il teorema accusatorio, comprensivo dell’indicazione del nome di Pinelli come possibile indiziato.

Il dettagliato lavoro di Paolo Brogi consente dunque di fare dei passi in avanti importanti nella ricostruzione della macchina di bugie, omissioni e depistaggi i cui ingranaggi stritolarono la vita di Giuseppe Pinelli. Sono tuttavia occorsi molti anni perché l’innocenza dell’anarchico milanese venisse affermata senza ombra di dubbi, anche nelle sedi istituzionali: si deve giungere fino al quarantesimo anniversario dell’eccidio, quando, in occasione della Giornata del ricordo delle vittime del terrorismo, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, alla presenza di Licia Pinelli e delle figlie Claudia e Silvia, pronuncia parole importanti sull’argomento: “Rispetto e omaggio dunque per la figura di un innocente, Giuseppe Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine”. Parole importanti, ma anche rivelatrici di quanto lunga e tortuosa sia la strada per l’accertamento della verità.

È dunque un bene che, a cinquant’anni dalla strage di Milano, lavori come quello di Paolo Brogi contribuiscano a tenere a mantenere vivo il ricordo di una stagione che fu certamente di grave minaccia all’ordine democratico, ma anche di forte mobilitazione politica e di altrettanto forte tensione etica contro le trame criminali dei nemici della Repubblica, occulti o espliciti. Non si tratta soltanto di rivendicare il diritto, peraltro fondamentale, di conoscere fino in fondo la verità sulle trame che per anni hanno insanguinato il nostro Paese, ma anche di ricordare, a molti anni di distanza, che la sconfitta della strategia della tensione e del terrorismo nero e rosso fu dovuta alla tenacia di donne e uomini, partiti, sindacati, associazioni che non scivolarono nell’indifferenza e nella rassegnazione, e che seppero vedere in eventi come la morte di Giuseppe Pinelli insieme all’atroce dramma di un uomo e della sua famiglia, il sintomo di una malattia che, se non affrontata subito e con determinazione, avrebbe potuto soffocare in una spirale di violenza le libertà conquistate dalla lotta di Liberazione e sancite dalla Costituzione repubblicana.