È il primo parlamentare socialista ucciso dallo squadrismo fascista, eppure fuori dai confini della Puglia il suo nome dice poco o nulla, se non agli studiosi. Strano destino quello di Giuseppe Di Vagno, ucciso ad appena 32 anni dopo un comizio a Mola di Bari il 25 settembre 1921, quattordici mesi prima della marcia su Roma. Un delitto studiato a tavolino da agrari e fascisti di cui nessuno ha mai pagato. Eppure si conoscevano nomi e cognomi di esecutori e mandanti (tra loro pure Giuseppe Caradonna, esponente del “rassismo” provinciale, vicino alle posizioni di Farinacci, e il cui figlio Giulio sarà a lungo parlamentare del Msi). A lasciare il delitto impunito nel novembre 1922 intervenne l’amnistia generale concessa dal re. Tutti i reati commessi “per un fine nazionale, immediato o mediato” venivano cancellati con un colpo di spugna. E purtroppo, bisogna dirlo, non andò meglio nemmeno nell’immediato dopoguerra. Il processo che si aprì nell’Italia liberata dal nazifascismo si concluse con un’altra amnistia, firmata dal guardasigilli Palmiro Togliatti. A ricostruire la storia e la figura del giovane parlamentare ammazzato è ora il giornalista della “Gazzetta del Mezzogiorno” Fulvio Colucci, in Giuseppe Di Vagno. Martire socialista, uscito pochi mesi fa per le edizioni Radici Future.
Quale motivo ti ha spinto ad affrontare la vicenda di Di Vagno, il “Matteotti del sud”?
Ho voluto scrivere qualcosa che restituisse il suo percorso. Tutte le biografie partono dalla morte di Di Vagno, l’episodio più eclatante. Ho cercato di fare il contrario, di parlare della vita di quest’uomo, un politico a tutto tondo che ha detto e realizzato cose importanti. Una persona di grande cultura e intelligenza, un ottimo giornalista che aveva una vita culturale intensa. Su Di Vagno gli scritti sono stati più agiografici che biografici: il parlamentare che aveva studiato con grandi sacrifici, che si era fatto da solo e così via…
Non è così?
Veniva da una famiglia che aveva raggiunto un certo benessere attraverso il duro lavoro per mettere a valore una terra non generosa. Il padre di Giuseppe aveva le mani piene di calli per lo spietramento dei campi, non era un socialista ma era vicino alle posizioni della Sinistra storica e in lui c’era già l’idea del riscatto sociale, dell’opposizione al latifondo. Questo retroterra fu fondamentale per il percorso politico del giovane Di Vagno.
Difendere le ragioni dei lavoratori, dei “cafoni” in Puglia, dove in ogni ambito della vita sociale contava il potere dei proprietari di infinite distese di terreni non doveva essere facile negli anni Venti.
Per anni si è pensato al Sud come un’area del Paese immersa in un sonno medievale. Nulla di più sbagliato. In Puglia, come in Emilia, il grande scontro tra il socialismo e gli agrari passa attraverso il filtro violento del fascismo. E non è un caso che proprio qui il fascismo presenti la sua doppia identità: quella violenta agraria nella realtà della Capitanata e quella borghese nelle città come Bari. Malgrado tutti questi elementi storici importanti, la perifericità della Puglia – nonostante sia la regione che ha espresso leader nazionali, da Di Vittorio a Moro – ha contribuito a far sì che quella di Di Vagno fosse una storia “minore”, per lungo tempo ridotta a faida territoriale. Il suo assassinio invece è una vicenda che ci interroga tutti e lo fa ancora oggi con particolare acutezza. Nella sua vita e nella sua morte possiamo leggere in controluce il tormentato Novecento italiano. Di Vagno è stato assassinato perché l’odio dei padroni e quello dei fascisti sono le due teste di un unico mostro politico che divora da sempre il Paese e che ha nel riformismo, nella sua ansia di rinnovamento, il nemico peggiore. L’omicidio Di Vagno è deciso da alcuni “galantuomini” diventati fascisti per mantenere il potere, proteggendosi dietro lo scudo squadrista e utilizzando lo squadrismo come arma di offesa.
Quanto ha pesato l’amnistia di Togliatti, o meglio la larghissima interpretazione che ne fecero la magistratura e una burocrazia ancora intrisa di fascismo, nella chiusura senza giustizia della vicenda Di Vagno?
Nel dopoguerra il processo Di Vagno, spostato per legittima suspicione alla Corte d’Assise di Potenza si conclude il 31 luglio 1947 con la condanna di sei imputati. Le pene si aggirano intorno ai 10 anni di reclusione, ma i condannati non faranno un solo giorno di carcere, beneficiando dell’amnistia Togliatti disposta dalla Cassazione con sentenza del 28 marzo 1948. Nelle intenzioni, l’amnistia doveva stare a valle di un processo di pacificazione del Paese. Nella realtà finì che la nomenclatura fascista, non fatta solo di gerarchi ma insediata nel profondo della vita istituzionale degli uffici e della burocrazia, non fu mai epurata. È gente che nel dopoguerra ha ripreso il suo posto tranquillamente. Il risultato è che fino agli anni 70 e 80 noi ci siano trovati negli apparati dello Stato, e in ruoli chiave, molti funzionari legati al regime mussoliniano. La mancata defascistizzazione ha rappresentato un rischio sistemico per il paese e per la democrazia italiana.
In Il fascismo eterno Umberto Eco, era il 1995, ammoniva sul modo di pensare e le pulsioni ricorrenti che sono dietro un regime e la sua ideologia. Per sconfiggerli occorre una battaglia culturale importante. L’Anpi la conduce da tempo.
L’Anpi fa un ragionamento culturale giusto che bisogna ampliare. La sua battaglia è una occasione storica per la democrazia italiana. È un interrogativo che deve essere, prima ancora che politico, culturale. L’opinione pubblica deve avere gli strumenti culturali affinché possa comprendere che esiste un fascismo intrinseco e va sradicato, altrimenti continueremo ad avere un’enorme difficoltà a immaginare il futuro con occhi diversi. Come diceva Aldo Moro, bisogna guardare non solo al domani ma anche al dopodomani. E se non estirperemo quell’elemento reazionario, che avvelena i pozzi della società e della politica italiane come una specie di riflesso condizionato, questa operazione di verità non sarà possibile. Il non aver fatto i conti fino in fondo col fascismo non ha permesso al nostro Paese di raggiungere una maturità politica.
Nel tuo libro parli di poteri reazionari della conservazione, un filo nero che va da Di Vagno a piazza Fontana, al delitto di Pasolini di cui quest’anno ricorrono i 100 anni dalla nascita.
Quel potere reazionario, come scrivo nel libro, intreccia fatti di sangue apparentemente lontani tra loro nelle dimensioni, nello spazio e nel tempo. Il potere reazionario della conservazione guida la mano degli assassini di Di Vagno e quella degli attentatori di Piazza Fontana. È lo stesso potere che nel 1975 guida la mano assassina di Pier Paolo Pasolini all’Idroscalo di Ostia.
Che riformismo è quello di Di Vagno? La sua vicenda umana e politica ci parla di un riformismo radicale che culturalmente si rifà a Salvemini e al pensiero più alto del meridionalismo italiano.
Nei confronti dell’establishment che vuole farne un intellettuale “paglietta”, Di Vagno esercita quella che poi Pasolini definirà “l’essenziale gesto del rifiuto”. Il giovane avvocato socialista punta a disarticolare lo schieramento agrario-feudale, sfida cioè la “santa alleanza” tra classe dirigente e clero. Il suo un affronto e lo pagherà con la vita. Di Vagno era stato espulso dal Psi massimalista per esserne riammesso qualche mese prima delle elezioni del 1921. Quella vicenda lo segnò profondamente. Certo è che fu cacciato dal partito non perché – come si disse – avesse citato autori reazionari durante una lettura pubblica e nemmeno perché si era legato a Salvemini. Di Vagno, come Salvemini, criticò quella parte del partito che faceva da sponda al governo nella politica dei dazi, garantendo l’élite operaia del nord e sfavorendo i contadini al Sud. Questo è un sistema di potere che Di Vagno denuncia quasi escatologicamente.
Citi il Pasolini del “Vangelo secondo Matteo” perché è l’intellettuale che avverte con acutezza la marginalità del Sud nella nuova “modernità” del boom economico?
Cito Pasolini non a caso, ritengo che Il vangelo secondo Matteo, che il regista e poeta girò proprio nelle Murge, sia il manifesto di un meridionalismo non cedevole ma pronto alla battaglia contro una presunta modernità vuota e senza memoria. Il Vangelo è un’opera d’arte che fa suo un messaggio evangelico. E giova ricordare che Di Vagno per volontà dei genitori doveva diventare sacerdote e poi a un certo punto si ribellò, però in lui rimase sempre una visione evangelica dalla forte carica sociale e di denuncia. Allo stesso modo il riformismo nel pensiero di Pasolini è un riformismo radicale che passa in primo luogo per la difesa del Mezzogiorno come valore del Paese e non come serbatoio di manodopera o territorio da colonizzare. E non si può non pensare all’Ilva e alle tante imprese industriali che tanti scompensi e squilibri ci hanno consegnato negli anni a venire.
Pubblicato venerdì 11 Marzo 2022
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