L’estate che sta volgendo al termine ha visto l’opinione pubblica quasi costantemente catalizzata sull’argomento dell’immigrazione. Il presidente del Consiglio de facto Matteo Salvini ha voluto dimostrare agli italiani che lui mantiene le promesse e che il cambio rispetto ai governi “buonisti” è cosa concreta. “La pacchia è finita” quindi, via libera ora ai respingimenti, linea dura con l’Unione europea “facendo la voce grossa” e, ad un secolo esatto dalla fine della Grande Guerra, difesa dei (sacri) confini. Una tale mobilitazione ideologica presuppone che ci troviamo nel pieno di una vera e propria invasione. Ma è proprio così? Per avere un’idea di quanto sta accadendo senza i condizionamenti perniciosi dell’avvelenato clima politico appare davvero opportuna la lettura di un saggio agile e allo stesso tempo molto denso di due studiosi padovani, Giampiero Dalla Zuanna e Stefano Allievi, il primo professore di demografia presso l’Università di Padova – oltre che ex senatore prima della lista Monti e poi del Pd – il secondo titolare della cattedra sociologia e del master sull’Islam in Europa sempre nell’ateneo patavino.
Partiamo dalla domanda che ci eravamo posti: siamo davvero in piena emergenza? Gli autori, dati alla mano, lo smentiscono nel modo più assoluto. I paesi dell’Ue infatti ospitano una percentuale davvero esigua di rifugiati rispetto ad altri Paesi del mondo, basti pensare al piccolo Libano che ne ospita oltre 800 mila, mentre Malta, a torto considerata paese con le frontiere chiuse, risulta invece, con 23 rifugiati per 1000 abitanti, uno dei Paesi con la percentuale più alta.
La logica emergenziale nasce dal fatto che si considera l’immigrato sempre e solo come forza lavoro, e questo è vero per tutte le leggi che si sono succedute a partire dalla metà degli anni ’80 fino ad arrivare al capolavoro della logica emergenziale, la Bossi-Fini del 2002 che ha paradossalmente creato irregolarità tramite la legge, vincolando il permesso di soggiorno al lavoro. “A tutt’oggi – scrivono gli autori – non esiste una legge sull’immigrazione che prenda in considerazione, anche solo collateralmente, gli effetti culturali e religiosi della presenza immigrata”; suggeriscono così il riconoscimento di religioni come l’Islam all’interno del sistema delle Intese (paradossale che siano riconosciute piccole chiese con poche migliaia di aderenti e non l’Islam che invece ne ha milioni), anche per contrastare fenomeni di radicalizzazione.
Come spesso accade fenomeni complessi rischiano di non essere compresi nel loro significato profondo a causa dell’insorgere di falsi miti di cui se ne fa un uso pubblico distorto. L’immigrazione è sicuramente uno di questi. Conosciamo bene quanto abbia fatto presa nell’opinione pubblica la questione dei 35 euro al giorno per migrante. Appare opportuno ribadire, come fanno gli autori, che questi sono soldi che provengono dall’Europa, denaro in più immesso in circolo nell’economia italiana, non in meno sottratto al nostro welfare, proveniente da un fondo speciale spendibile solo in questo modo. Altri “miti” vengono sfatati, per esempio quello in base al quale gli immigrati avrebbero abbassato il costo del lavoro, mentre invece studi della Banca d’Italia e dell’Università di Padova dimostrano che proprio perché gli immigrati accettano i lavori che gli italiani non vogliono fare più – i cosiddetti ddd jobs (dirty, dangerous, demeaning, cioè sporchi, pericolosi e umilianti) – i salari negli altri lavori più qualificati (appannaggio soprattutto degli italiani) sono cresciuti.
In perfetta linea di continuità con la volontà di scardinare luoghi comuni, gli autori non si esimono nemmeno dal fare considerazioni che cozzano contro chi invece, in risposta al razzismo strisciante, nega l’affacciarsi di fenomeni di devianza nell’immigrazione. Per esempio: è vero che gli stranieri delinquono di più degli autoctoni? I numeri non sembrano lasciar spazio a dubbi: sì, almeno tra le prime generazioni di immigrati questa propensione sembra essere confermata, e proprio nei reati contro il patrimonio (rapine a mano armata, furti in casa) che destano maggiore allarme sociale. Al 31 agosto 2015 (ultimi dati disponibili per il libro che è uscito nel 2017) il 33% dei detenuti nelle nostre carceri era straniero contro un 9,5% della popolazione straniera in Italia. Bisogna però contestualizzare i dati: infatti non si tratta di fenomeni inediti, ma che interessano e hanno interessato ogni generazione di migranti, anche i nostri connazionali andati in America a fine ‘800. La spiegazione ce la danno le scienze sociali, e riguarda la diminuzione di freni inibitori dovuta al fatto di essere all’estero. Ad aggravare il tutto sono anche i particolari legami etnici tra neo-arrivati e altri già presenti in loco che portano alla formazione di vere e proprie organizzazioni criminali, come lo è stata la Mafia negli Usa. Ma questo riguarda soprattutto i primi arrivati, la prima generazione di migranti, quella con i maggiori problemi di integrazione. La tendenza scende ovviamente man mano che aumentano reddito e ricongiungimento familiare.
Gli autori inoltre sfatano anche un altro tabù, ossia quello della negatività del conflitto. Il tentativo di negarne la valenza positiva nasce in noi europei dal fatto che dopo due guerre mondiali e 70 anni di pace abbiamo paura anche solo a nominarla una parola simile. In realtà i tanti cambiamenti che si stanno verificando – in primis la presenza di minoranze religiose dalla forte identità come l’Islam – inevitabilmente portano a conflitti, cosa che è fisiologica nelle società, anzi, fondamentale. Il conflitto infatti “anche se non è bello, è utile, perché ci permette di arrivare a comprendere qualcosa o qualcuno, facendoci arrivare ad un grado maggiore di consapevolezza. E’ una componente ineliminabile della vita sociale” ed è tipico della democrazia, “instabile per definizione”. Il problema è che purtroppo ci sono anche coloro che rifiutano a prescindere la risoluzione delle ostilità e questo perché molti ci guadagnano in visibilità e in consenso. Questo può accadere, di fatto accade, sia nella popolazione autoctona sia all’interno delle comunità immigrate. “I radicali delle varie sponde, in sostanza, hanno interesse a non risolvere i conflitti, ma precisamente a farli nascere e a farli durare. E poiché i conflitti hanno un costo sociale ed economico per le società, questi gruppi provocano alla società seri danni, che durano nel tempo”.
L’immigrazione non viene presentata come fenomeno a sé ma collocata nel contesto dei cambiamenti di medio–lungo periodo che stanno caratterizzando la nostra epoca. Per questo gli autori preferiscono parlare di processi migratori, in quanto chi emigra dal proprio Paese in cerca di condizioni migliori tende ad assimilarsi sempre di più ai nativi autoctoni finché le differenze scompaiono del tutto nei loro discendenti. A loro volta i nativi vengono modificati dall’incontro con i migranti e questo porta così alla creazione di una popolazione dalle caratteristiche nuove. Gli studiosi citano a tal proposito i risultati del Rapporto Itagen 2, la prima ricerca statistica nazionale su un campione di 10mila ragazzi stranieri e 10mila ragazzi italiani in età preadolescenziale (11-14 anni), dalla quale si evince l’omologazione dei comportamenti tra i due gruppi: entrambi ad esempio privilegiano la carriera rispetto alla famiglia (tendenza che si accentua addirittura nelle donne). Casomai – notano gli autori – il modello della donna “angelo del focolare” sembra essere più introiettato nei giovani italiani che non negli stranieri. Il saggio allarga ulteriormente gli orizzonti spazio-temporali dando conto di un altro fenomeno “non previsto”: il ritorno delle religioni sulla scena pubblica. Questo fenomeno è innescato soprattutto dalla presenza di consistenti minoranze che praticano religioni diverse, in particolar modo l’Islam. Anche l’Italia che si è ritenuta quasi monoliticamente cattolica fino a poco tempo fa deve fare i conti con questa presenza. Tuttavia è anche vero che l’Islam è sottoposto ad una miriade di sollecitazioni: legislazioni differenti dai suoi paesi di origine, economia di mercato, scuola laica, inclusione dei cittadini nei regimi di welfare, senza contare gli effetti dei matrimoni misti e della stessa distanza dalla propria patria. Tutto questo fa sì che l’Islam “tradizionale” si stia trasformando in un Islam diverso, un vero e proprio Islam d’Europa che si candida “a diventare parte dell’identità culturale della nuova Europa”. Di questo gigantesco processo di cambiamento però la produzione culturale attuale (sia da Paesi musulmani che non musulmani) non sa cogliere le implicazioni.
Il libro propone anche delle soluzioni che dovrebbero essere prese coraggiosamente a livello politico. Tra queste segnaliamo il permesso di soggiorno vincolato alla disponibilità di un garante (persona fisica o giuridica) residente in Italia, che regolarizzi automaticamente il permesso di soggiorno quando gli immigrati trovano lavoro regolare e alloggio stabile. Naturalmente dovrebbe fungere da garante anche quando questo lavoro lo perdono: la loro presenza in Italia sarebbe infatti irregolare e il garante sarebbe a questo punto corresponsabile di una loro permanenza irregolare. C’è da chiedersi però quanti, in un Paese che non spicca certo per virtù civiche, sarebbero disposti ad accollarsi un simile impegno per i migranti, considerati, come abbiamo visto, come semplice forza lavoro e non come portatori di diritti.
In definitiva, questa pubblicazione sembra essere il libro giusto al momento giusto: chi vuole informarsi e contrastare efficacemente il pericoloso razzismo fomentato da chi ha responsabilità di governo non può esimersi dal leggerlo. Nei 10 capitoli che si susseguono, ognuno dei quali soffermantesi su una tematica precisa, tutte le affermazioni sono suffragate da dati statistici sapientemente contestualizzati e suffragati con la metodologia delle scienze sociali. L’aver inserito la mobilità e i processi migratori in corso anche in Italia in una dimensione globale appare il pregio maggiore del libro, la cornice che fa da sfondo a tutte le 150 pagine e che ci permette di guardare ai processi migratori con fiducia. Malgrado tutto – concludono gli autori – l’Italia ha rappresentato un modello di integrazione originale ed efficiente, che non ha provocato “ghettizzazione” come ad esempio nella vicina Francia: questo grazie alla sua scuola “pubblica ed interclassista”, alla sua realtà di piccole imprese (in cui dipendenti e datori di lavoro lavorano a stretto contatto) e al fitto reticolo di organizzazioni di volontariato.
Davide Gobbo ha conseguito il dottorato di ricerca in scienze storiche in età contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Siena. Ha pubblicato per i tipi Cierre “L’occupazione fascista della Jugoslavia e i campi di concentramento per civili jugoslavi in Veneto. Chiesanuova e Monigo (1942-43)”, 2011 e “Tra anarchismo e socialismo. Carlo Monticelli nel movimento operaio italiano”, 2013
Pubblicato venerdì 7 Settembre 2018
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/migranti-come-sopravvivere-alle-false-narrazioni/