Piccole storie, le storie di ognuno, eppure straordinarie perché intrecciate alla grande storia. Quanto vale una vita se riesce a metterne in salvo altre? Quanto vale una scelta durante una guerra ai civili? Quanto vale la risposta senza timori di un bambino a un soldato occupante? Quanto è facile dimenticare il dolore?

A molti anni di distanza, leggendo una raccolta di testimonianze e ricordi e interrogandosi su quelle vite di decenni prima così pragmatiche, così risolute, così dure eppure composte e dignitose, ci si riesce a connettere con i sentimenti di altri esseri umani ed essere lì con loro, partecipare.

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Il lavoro di Diego Lavaroni in Voci popolari della Resistenza. Testimonianze e ricordi dai paesi occupati, pubblicato da Gaspari editore, ha il pregio di raccogliere e consegnare agli archivi frammenti di storia e di memorie condivise lasciandoci entrare nelle case, nei fienili, nei boschi, sulle colline, nei paesi, tra le strade del Nord-Est italiano dopo l’8 settembre del 1943 e fino alla fine della guerra.

“Non che prima fossero rose e fiori – racconta Lavaroni nell’introduzione al volume – però da quello spartiacque gli eventi presero un corso ancora più tumultuoso e drammatico. Alla dichiarazione dell’armistizio i nazisti occuparono militarmente gran parte del Paese e annessero al Terzo Reich la macro regione chiamata Adriatisches Küstenland, che comprendeva il Friuli, la Venezia Giulia e il litorale adriatico fino alla Dalmazia”.

I territori compresi nell’Ozak (wikipedia)

La Zona di operazioni del litorale adriatico (Ozak) che comprendeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, era sottoposta alla diretta amministrazione militare tedesca e quindi sottratta al controllo della Repubblica sociale italiana. Questo nuovo assetto organizzativo toglieva quindi alla Repubblica di Salò un’area molto importante dal punto di vista militare e strategico – dato che si trattava delle vie di comunicazione tra il Reich e la Jugoslavia – ed ebbe delle conseguenze drammatiche sulla vita delle persone di questo nuovo territorio posto “sotto il tallone del Terzo Reich”.

“Pur avendo provato fin dal 1922 un pessimo padrone, il nuovo si dimostrò ancora più brutale di quello vecchio che adesso veniva usato dal Gauleiter Rainer (il governatore) per le operazioni di manovalanza. I repubblichini e la X Mas erano soltanto i lacchè, i servi disprezzati del nuovo capobanda, disponibili a compiere ogni efferatezza pur di compiacere i nazisti” scrive ancora Lavaroni.

Il Comando della Divisione Garibaldi Natisone

In quel momento però, sulle montagne al confine con la Slovenia, si stavano già organizzando i primi nuclei di quella che sarebbe diventata la Divisione Garibaldi-Natisone. Nascono in queste terre, puntellate di organizzazioni patriottiche che i tedeschi chiamavano sprezzantemente Banditen, i primi nuclei della Resistenza armata in Italia.

Partigiani jugoslavi

“La trama resistenziale prese forma a partire dal modello offerto dall’organizzazione dei partigiani sloveni, che erano dislocati nelle zone di confine – scrive l’autore –. I tedeschi dapprima avevano considerata insignificante la resistenza patriottica, interpretata come mera esibizione folcloristica ma, dopo l’umiliante sconfitta di Peternel (22 maggio 1944), che avevano poi sfogato in un eccidio, il primo di molti altri (Forni di Sotto, Esemon di Sotto, Malga Pramosio, Paluzza, Torlano, Attimis, Nimis… via Ghega e la Risiera di San Sabba a Trieste eccetera) decisero di intraprendere operazioni in grande stile per annientare i banditi che avevano avuto l’improntitudine di creare due Repubbliche libere, in Carnia e nel Friuli orientale”.

I territori delle Repubbliche partigiane della Carnia e del Friuli (Anpi Udine)

Così leggiamo la testimonianza di Adelchi Pezzarini di Oleis di Manzano e del rastrellamento della Wermacht: “Nel ’44 avevo sei anni e marciavo ancora come Balilla. Durante la notte, talora, si riceveva la visita sgradita dei tedeschi accompagnati dai loro cani. In casa nostra si nascondevano spesso dei partigiani. Stavano nel fienile”. Adelchi, che non è il personaggio della tragedia manzoniana, fa parte della storia con i suoi gesti e parole di bambino: “Un giorno che ero a scuola – continua – avvertii che stava accadendo qualcosa di grave. Quando uscimmo a ricreazione, mi resi conto che i tedeschi stavano per iniziare l’accerchiamento del paese. Pensai a Dorino: era appena tornato a casa dalla montagna per una ferita al piede. Indossava sicuramente i calzoncini dei partigiani e se l’avessero preso sarebbe finito male. Senza dire niente alla maestra né a nessuno, sono sgusciato via attraverso un percorso che conoscevo bene sono corso a casa e ho detto a Dorino di scappare, ché i tedeschi stavano iniziando il rastrellamento. Lui ha inforcato una bicicletta scassata ed è corso su in collina”.

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Via via che si leggono le testimonianze raccolte nel libro si avverte il senso dell’eroicità quotidiana, della vita che scorre e che si aggrappa ogni momento alla più flebile luce di speranza. C’è Carlo Basso detto Tancredi, nato in Romania da padre emigrato dal Friuli, che dalla milizia fascista passa alla Resistenza. Racconta delle difficoltà legate alla fame e al freddo, ai pidocchi: “Nelle cuciture della maglia le loro uova formavano colonie di madreperla”. Poi leggiamo la storia di Umberto Bon detto il “Bensi” che diede origine al gruppo omonimo e che fu tra quelli che misero in piedi e coordinarono le varie anime della Resistenza in Friuli.

O ancora la storia e il coraggio di Angela Vago, detta Lina, che riuscì a riportare all’ordine una pattuglia di soldati delle SS che stavano per violentare alcune ragazze. Ogni frammento, ogni ricordo rievocato aggiunge, moltiplica i riflessi, serve a ricomporre una memoria collettiva, a raccontare l’identità dei luoghi ormai diversi, a rievocare dei volti, a esercitare il ricordo martellante degli orrori, delle privazioni, delle ingiustizie e a testimoniare perché non si ripetano.

Diego Lavaroni, psicologo e psicoterapeuta, autore di saggi e volumi, con questo libro ha voluto raccogliere diverse piccole storie, di vita e di morte durante una guerra, per riannodarne pazientemente i fili così da comporre un quadro di vita quotidiana all’ombra della grande storia.

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“Ascoltando le narrazioni dei testimoni e i loro racconti a più di settanta anni dallo svolgimento dei fatti (e sapendo che la memoria non è un registratore devoto) – scrive Lavaroni – viene da pensare che per i protagonisti quelle esperienze siano ancora intense, vive, indifferenti al passare del tempo. Sentimenti, ferite, lacerazioni che non si sono mai sopiti, ma solo attenuati, sempre pronti – continua – a irrompere come se non fosse passato un tempo lunghissimo, ma solo qualche istante”.

Antonella De Biasi, giornalista e autrice di vari libri tra cui: “Astana e i 7 mari – Russia, Turchia, Iran: orologio, bussola e sestante dell’Eurasia”, Orizzonti Geopolitici, 2021; e “Zehra – la ragazza che dipingeva la guerra”, Mondadori, 2021