Perché mai uno storico dovrebbe andare a vedere una guerra? È la domanda che più spesso hanno posto a Gastone Breccia, professore di storia bizantina all’Università di Pavia, prima di intraprendere il suo viaggio in alcune aree del Kurdistan iracheno e siriano, impegnate nella guerra al sedicente Stato islamico.
Lo storico deve stare a distanza, riflettere e studiare fatti già accaduti e non in continuo sviluppo. Breccia però, seguendo le sue ricerche sulla guerriglia, ha appena pubblicato per l’editore Il Mulino Guerra all’Isis. Diario dal fronte curdo.
L’autore sa di compiere un’operazione rischiosa: cita anche il famoso capitolo della Certosa di Parma di Stendhal su Fabrizio Del Dongo a Waterloo, che pur essendo parte dell’evento non capisce cosa stia accadendo attorno a lui. Però la guerra in Kurdistan è un caso particolare perché sui curdi – pur essendo un popolo del Medio Oriente da sempre coinvolto in tutte le vicende/guerre/spartizioni dell’area – non c’è una solida tradizione storiografica, dato che non ci sono molti testi scritti. Quando, tra le altre cose, non puoi utilizzare liberamente una lingua è facile che si creino ricche tradizioni orali ma nulla di consultabile dai posteri. Quindi Brecci decide, un po’ come fanno i sociologi e gli antropologi, di fare osservazione sul campo.
Il libro che viene fuori è un diario di viaggio durato una ventina di giorni, ed è un primo approccio – così spiega l’autore – di una analisi più approfondita che verrà in seguito. Si parla di tecniche di guerriglia (l’autore ha scritto anche L’arte della guerriglia su questo tema, ndr) e delle formazioni curde che stanno dando filo da torcere all’Isis. Ci sono i peshmerga del KRG, il Kurdistan Regional Government iracheno (l’unica zona attualmente riconosciuta a livello internazionale in cui i curdi si autogovernano con capitale Erbil, ndr), i combattenti del PKK cioè il Partito dei lavoratori del Kurdistan (formazione originaria del Kurdistan turco e considerata terrorista da Europa e Stati Uniti), poi i guerriglieri del PYD cioè il Partito dell’Unione democratica (curdi siriani) le cui ali militari sono YPG e YPJ, queste ultime sono le formazioni femminili che hanno difeso Kobane, la città siriana martire diventata un simbolo nella guerra contro Isis.
Senza dilungarci sulle differenze tra le varie formazioni e organizzazioni di difesa curde, appena citate, è importante dire che emerge un racconto in presa diretta di una “guerra agli uomini neri” tanto fotografata, twittata, spiegata dagli occidentali e poi vista attraverso lo schermo dei media come fosse una puntata di Homeland (la serie tv americana che parla di terrorismo, ndr) che sembra pure un po’ finta, cioè combattuta con i soliti droni e altra strumentazione d’avanguardia. Breccia invece nel libro ci fa sentire la povertà dei mezzi dei ragazzi con le scarpe rosse, i loro ideali – mischiati certo a un po’ di propaganda – e la loro voglia di guadagnarsi il terreno. Qui si sta in trincea, si aspetta il nemico per ore e, come scrive il professor Breccia, si ragiona come dei cacciatori. Nei campi di addestramento dell’HPG (le forze di difesa del popolo ovvero l’ala militare del PKK, ndr) si impara ad adattarsi al terreno, combattere non tentando di imporre la propria forza – data anche la mancanza di armi pesanti, aviazione e mezzi corazzati – ma sfruttando i vantaggi che l’ambiente può offrire a chi lo conosce meglio dei suoi avversari. Per i curdi siriani e non solo questa guerra è comunque una grande occasione: oltre alla sopravvivenza c’è in ballo la loro identità e il loro posto in quell’area. I curdi del Rojava (la zona autonoma non riconosciuta dei curdi siriani al confine con la Turchia, ndr) hanno fermato e respinto a caro prezzo l’avanzata dell’Isis.
Una combattente dice a un certo punto: “noi sappiamo che non vivremo a lungo” ma la crudeltà del nemico non ha fatto che aumentare la loro determinazione. Questa gente ha coraggio, come si racconta nel libro. Con solo armi leggere ragazzi e ragazze, e qualche centinaio di volontari arrivati dall’estero, difendono questa striscia di territorio. Non hanno scelta. In fondo i curdi sono il popolo più numeroso al mondo senza una patria e vivono divisi tra Turchia, Iraq, Iran e Siria.
Pubblicato mercoledì 1 Giugno 2016
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