C’era una volta – sono trent’anni – un gruppo di scrittura tutto al femminile: “nove donne, diverse per età, storie di vita, gusti letterari”. Ne facevano parte alcune splendide voci del giornalismo, del saggismo e della narrativa italiana del secondo Novecento (ma anche pittrici, come Simona Weller), tutte menti energiche che hanno combattuto perché la parola “donna” significasse qualcosa di diverso e molto di più rispetto a quanto l’atavico maschilismo della società italiana (e non solo) era solito attribuirle. C’erano dunque Clara Sereni, Elena Gianini Belotti, Adele Cambria, Maria Rosa Cutrufelli – è suo il libro di cui mi appresto a parlare – e, tra le altre, Goliarda Sapienza. Si riunivano a turno a casa di questa o di quella e discutevano attorno a una tavola imbandita.
Ecco, la cornice in cui Cutrufelli (Maria Giudice, Giulio Perrone Editore) inserisce la storia che ci vuole raccontare è questa: un gruppo di scrittura femminile che si riuniva due volte al mese per parlare di storia e di libri, letteratura (tra esercizio di trascendenza e affondo nella dura quotidianità) e amore, politica e guerra (in televisione andavano in diretta le bombe dalla Guerra del Golfo) o, più in generale, per applicarsi nell’ascolto reciproco.
Una cornice che apre e chiude il libro – quasi alla Boccaccio – e che offre il destro all’autrice per puntare l’attenzione su una delle compagne del gruppo, Goliarda Sapienza e sul suo taciturno e ciclico scivolare “dietro al muro del tempo”, verso il passato di staffetta partigiana della brigata Vespri (comandata dal padre, Giuseppe Sapienza), di giovane allieva dell’Accademia di arte drammatica, e prima ancora di adolescente scolpita dal sole siciliano e dal fiero amore di una madre straordinaria: Maria Giudice, appunto.
Così la storia di questa donna esemplare diventa il grande centro del libro, scandito in otto capitoli (quasi otto novelle) ognuno dei quali prende le mosse da una fotografia per tracciare l’intera parabola esistenziale di una “leonessa del socialismo”, dall’infanzia alla morte, avvenuta a Roma il 5 febbraio 1953. Nata a Codevilla, ai piedi delle colline dell’Oltrepò pavese, la giovanissima Maria assorbe dai genitori Ernesta ed Ernesto il meglio che entrambi possono offrirle: dal papà la passione e la moralità dell’azione politica come chiave di accesso al mondo, e dalla mamma l’amore per la lettura e la scrittura. Perciò, quando è ora di scegliere il proprio futuro – siamo alla fine dell’Ottocento –, Maria decide di studiare per diventare maestra ma, allo stesso tempo, si appassiona alla scuola del socialismo, che è sorella della vita. Siamo all’ultimo decennio dell’Ottocento, quello che assistette all’inasprirsi del conservatorismo e delle misure repressive nei confronti delle proteste socialiste, anarchiche e pure quelle “dello stomaco”, gli anni dei governi Pelloux, del marchese di Rudinì e delle tragiche cannonate di Bava Beccaris; e Maria, da quel 1898 in avanti sembra trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto (o, a seconda dei punti di vista, nel posto sbagliato al momento sbagliato).
Il 5 maggio assiste dunque a Milano all’uccisione di Muzio Mussi che darà il via all’inasprirsi delle proteste per il rincaro del pane e alla dichiarazione dello stato d’assedio. Le settimane e i mesi successivi sono una carambola di sensazioni e di idee che spingono Maria, sempre più vicina al Partito socialista, da una parte, e dall’altra al mondo del giornalismo; inizia a scrivere per L’uomo che ride di Ernesto Majocchi (che già aveva tra i collaboratori personalità di spicco come Pellizza da Volpedo) e poco dopo per il quindicinale socialista La parola dei lavoratori.
È sulla carta stampata ma pure nella militanza più infaticabile (si iscrive al Partito nel 1902) che Maria si fa le ossa, finendo segnalata – com’è consuetudine per i socialisti più attivi – dalle prefetture di mezza Italia. Frequentissimi diventano i suoi interventi pubblici come sindacalista (nel 1903 è segretaria della Camera del Lavoro di Voghera) e altrettanto assidui sono gli interventi della polizia a cui lei, naturalmente, oppone resistenza passiva.
In questo senso, celebre è l’immagine di Maria Giudice vestita di bianco, trascinata a terra, piegata sulle ginocchia e tenuta per i polsi da un paio di guardie in uniforme; altre sono a cavallo lì di fianco (si tratta di uno squadrone del Reggimento Savoia Cavalleria) e intorno c’è un nugolo di persone che sta assistendo, davanti alla villa dell’ingegner Magni, alle proteste seguite ai licenziamenti di alcune operaie della Manifattura Lane Borgosesia.
Resistere passivamente è per Maria il modo migliore di dimostrare la superiorità della propria determinazione sui barbari soprusi delle forze dell’ordine. E non solo; Maria, pur non avendone mai fatta una bandiera, è sempre attenta alla parità dei sessi e quando può manda le sue tiratine d’orecchi, anche dalle colonne del giornale, ai compagni di partito: “Già so che vi brucia quando ve lo diciamo… Ma voialtri signori uomini siete così socialisti quando si tratta di voi, così poco socialisti quando si tratta di noi!”.
Tant’è che, quando conosce Carlo Civardi, il primo amore della sua vita, i due rifiutano il matrimonio, per come era allora, in quanto (sono di nuovo parole di Maria) “atto pubblico” solo capace di “profanare” i veri sentimenti e l’affetto sincero. Carlo, “anarchico e noto lettore di opuscoli sovversivi”, si sta allora avvicinando al socialismo, essendo l’afflato libertario in parte rientrato (o dislocato altrove) dopo i colpi di rivoltella di Gaetano Bresci e il conseguente giro di vite governativo. “L’amore per Carlo lo sente come un bisogno irresistibile, ma vuole che resti una gioia spontanea e superbamente libera”.
Di lì a poco arriva il primo frutto della loro passione: un bambino che Maria porta in grembo e che rischia di dover far nascere in carcere. Per sfuggire alla detenzione, allora, mette le sue poche cose in valigia e prende la via dell’esilio. Senza Carlo. Ma in Svizzera, dove Maria si rifugia, i fuoriusciti italiani formano una vera e propria comunità che la accoglie e la affida all’esule russa Angelica Balabanoff, ardente propagandista che “non chiama mai nessuno per nome, solo compagno o compagna, e indossa camicette rosso scarlatto”.
Le due, sebbene di primo acchito non si fossero annusate pacificamente, presto diventano amiche e fondano a Lugano un nuovo giornale, Su Compagne!. Lì scrivono per incitare alla lotta e, una volta tornate all’appartamento condiviso, l’attività di sostegno ai compagni continua. Quando possono, aiutano fuoriusciti e fuggiaschi che provengono da ogni angolo del mondo e transitano in cerca di un piatto caldo e di una buona discussione politica. Tra gli altri, ospitano Lenin e sua moglie, e più tardi un lamentoso e trasandato Benito Mussolini, che a Maria non piace per via del “suo vittimismo, il turpiloquio e, soprattutto, il suo modo di concepire la lotta di classe che, nelle sue parole, diventa una semplice rivalsa contro i ricchi: ‘Quelli bevono, mangiano e se la godono… Come li odio!’. Ma l’invidia di classe, secondo lei, non ha niente a che spartire con il socialismo”.
Stare a Lugano senza Carlo è comunque un peso e Maria, sottotraccia, nutre un velo di risentimento contro i maschi, contro gli uomini come classe, incapaci di abbandonare la loro ancestrale padronanza; perciò, in fondo, il ritorno in Italia, la conseguente incarcerazione per scontare la vecchia condanna e la consegna della piccola Josina tra le braccia del padre, rappresentano una sorta di liberazione. Sennonché negli anni successivi gravidanza e carcere si abbinano di continuo, prima con Cosetta, poi con Licia, e ancora con José e Ivanoe. Le parentesi di libertà sono l’occasione per cambiare casa. Maria da Torino si trasferisce a Milano dove, naturalmente, inizia a lavorare per l’Avanti! (ma Mussolini le commissiona solo articoletti di poco conto) e dove rincontra Balabanoff, per la quale tra l’altro tenta di organizzare un matrimonio bianco, espediente per dare parvenza legale a una gravidanza imbarazzante (qualcuno ha sostenuto che in grembo portasse la figlia di Mussolini stesso, Edda Ciano).
Tra il 1911 e il 1913 nascono altri due figli di Maria, Danilo e Olga, e le spese sono sempre di più in una città, Milano, che per la donna, anziché essere lo specchio della modernità, diventa quello della miseria: e meno male che c’è la scuola a darle lo stipendio. Per questo abbandona il capoluogo lombardo e torna in Piemonte, per qualche tempo in Valsesia (la valle di chi scrive) a fianco degli operai della manifattura lane e nella redazione della rivista La Campana.
Ma la Grande guerra è alle porte: Maria è schierata coi pacifisti mentre Carlo decide di partire (dal fronte, tra l’altro, prenderà la cantonata di approvare le smargiassate di Mussolini pubblicate sul Popolo d’Italia). Lei è di nuovo sola ma gli appuntamenti con l’impegno politico si moltiplicano – dirige a Torino la Camera del Lavoro e la segreteria del partito – specie, ancora una volta, dalle colonne del principale organo di stampa dei socialisti piemontesi, Il Grido del popolo, all’interno del quale i battibecchi con Gramsci sono all’ordine del giorno: se per lui, infatti, il giornale serve a divulgare le proprie elaborazioni teoriche, per Maria è prima di tutto “strumento di formazione della classe operaia, perciò lo vuole spigliato e snello”, affinché il popolo riconosca il proprio ruolo e i propri obiettivi. Obiettivo che si realizzerà con gli scioperi dell’agosto 1917, in seguito ai quali verrà nuovamente arrestata con l’accusa gravissima di insurrezione contro i poteri dello Stato. Ancora la galera e un nuovo dolore: la notizia della morte di Carlo in zona di guerra. Alla fine del conflitto arrivano però l’amnistia e un nuovo amore, conosciuto a Volterra: Peppino Sapienza.
Col 1919 si apre così una nuova fondamentale fase nella vita di Maria; le viene infatti assegnata la nomina di propagandista per la Sicilia, l’isola di Peppino. Lui, vedovo, ha già tre figli, Goliardo, Libero e Carlomarx, e fa l’avvocato dei poveri (la madre era stata vivandiera dei garibaldini). E qui Maria conosce un nuovo tipo di proletariato, non più quello operaio, ma quello dei braccianti che si spaccano la schiena sui campi dei padroni, spesso – se non sempre – appoggiati dalla mafia e dalle prime camicie nere. La loro è di nuovo una storia d’amore e di politica. Ma questa volta i figli, di lei e di lui, sono ormai grandi e portano gioie e dolori strazianti: Goliardo annega tra le sue amate onde, e Cosetta che odia la madre e “le si avventa addosso per morderle il seno, quel seno grande che promette accoglienza a tutti tranne che a lei”. Decidono quindi di averne uno loro di figlio e quando nasce – è una bambina – le danno il nome di Goliarda in memoria del ragazzo morto in mare. Ma anche Goliarda, dopo pochi giorni muore, e intanto la vita prosegue, i fascisti si legano agli uomini di potere e Maria viene ancora una volta arrestata. Quando esce, la Marcia su Roma ha già portato Mussolini a capo del Governo.
Come scrive Maria Rosa Cutrufelli, “è il deserto che avanza” e che le fa il vuoto intorno; e meno male che una nuova bambina arriva a lenire la solitudine: la chiamano di nuovo Goliarda, ed è la Goliarda Sapienza che tutti noi conosciamo, quella che più tardi si trasferirà a Roma per studiare all’Accademia di arte drammatica e che diverrà l’attrice e la poliedrica scrittrice la cui fama è purtroppo maturata dopo la sua morte.
Negli anni in cui la guerra infuria e Mussolini è alla fine, Maria è a Roma con la figlia: anni in cui inizia anche ad accusare i primi sintomi della malattia mentale. “Un giorno Goliarda la scopre nel giardino dell’Accademia a litigare con una statua, e si spaventa”, perciò viene ricoverata in una clinica e Goliarda raggiunge il padre che lì nella capitale dirige una formazione partigiana, la Brigata Vespri: per lui lavora come staffetta ed è a fianco del padre in quel mitico giorno in cui gli uomini della Brigata fanno irruzione a Regina Coeli e liberano, tra gli altri, Sandro Pertini e Giuseppe Saragat.
Con la fine della guerra Maria Giudice, nei periodi in cui la malattia sembra più clemente, riesce a riprendere l’attività politica, a scrivere e a riallacciare i rapporti con Angelica Balabanoff. Poi Peppino muore e la vedova va a vivere con Goliarda e il compagno Citto Maselli. Sono anni importanti, sereni, malinconici.
Come malinconiche sono le ultime pagine di questo delicato libro, un ritratto racchiuso nella preziosa cornice di una figlia, Goliarda, che Maria Rosa Cutrufelli ha conosciuto davvero, ha conosciuto fino in fondo, capace di scorgere in filigrana le tracce – forse – di “un vecchio conflitto con quella madre che ti aveva nutrito a intelligenza e volontà di ferro”.
Ma ormai sul campo di battaglia eri rimasta solo tu. Con i tuoi libri sofferti, la nostalgia confusa, quel desiderio mai sazio… La voglia di essere lei. Il bisogno di non essere lei.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato domenica 17 Aprile 2022
Stampato il 25/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/mariagiudice-goliardasapienza-antifascistepartigiane-contro-guerra/