Micol Sarfatti ha scritto, per la collana Mosche d’oro di Giulio Perrone Editore, una breve monografia dedicata a Margherita Sarfatti. È ovviamente una sua antenata ma il percorso genealogico – nonostante il cognome – non è perfettamente lineare. Intanto la famosa Margherita non faceva Sarfatti alla nascita, ma era una Grassini; assunse e mantenne con orgoglio l’altro cognome dopo le nozze con l’avvocato veneziano Cesare Sarfatti. La strada che porta da Margherita a Micol passa attraverso il padre di quest’ultima, Gino – celebre pioniere del design italiano –, e vira in direzione di un prozio di questi, che era appunto lo stimato penalista di Venezia. Una parentela – confessa l’autrice – non sempre facile da gestire o, meglio, da giudicare, soprattutto in virtù di un certo pregiudizio morale che il nome della Sarfatti (Margherita) suscita, in quanto malauguratamente (e sempre e solo) associato a quello di Mussolini. “Così un uomo, desiderato, ma tragicamente sbagliato, ha offuscato per decenni la sua figura e il suo pensiero”. Ed è un doppio peccato: il primo disceso dal fatto di essersi innamorata del peggior uomo che l’Italia abbia avuto nella sua storia; il secondo – al primo strettamente connesso – consistente in uno spreco di energie talentuose, quelle appunto di Margherita, che, se non si fossero tragicamente intrecciate alla sorte del duce, avrebbero regalato al secondo dopoguerra una figura femminile di altissimo livello. Il libro di Micol Sarfatti lavora dunque in questa direzione, e si inserisce in coda a una serie di volumi, quasi tutti usciti a partire dagli anni Novanta, con i quali finalmente si è iniziato a scrostare il nome di Margherita Sarfatti dalla fanghiglia con cui era stato imbrattato dopo la rovinosa caduta del regime fascista.
È un profilo biografico che, prima di tutto, dissalda dal ritratto della donna l’ombra nera di Mussolini; qui è lei la protagonista e lui – quando c’è – è un’odiosa comparsa. Si inizia dai dati biografici, dalla descrizione dell’ambiente, quello veneziano e quello ebraico in cui nasce e cresce, da sempre però caratterizzato da un respiro più ampio. Margherita, nata nel 1880, è la più piccola in famiglia – ha due sorelle e un fratello; il padre, Amedeo Laudadio Grassini, è uno che vede lontano, anche negli affari: fa l’avvocato – come il futuro marito della bella Margherita –, è amico di papa Pio X (nonostante le origini ebraiche), e sa fare i soldi: per dirne una, è cofondatore del gruppo imprenditoriale che finanzierà la costruzione del famoso Hotel des Baines, quello della Morte a Venezia di Thomas Mann. Anche la madre è ebrea, un’ebrea della mitteleuropea Trieste; si chiama Emma Levi, figlia di Giuseppe Isacco Levi e Dolcetta Namias.
Quel ramo lì della famiglia, per Margherita, è fondamentale; specialmente la parte femminile. La nonna Dolcetta influenza notevolmente il carattere della nipote, stimolandone le doti intellettuali (forse non a caso è anche nonna dello scienziato Giuseppe Levi e bisnonna di Natalia Ginzburg) e forgiandone alcuni aspetti del carattere: “da lei Margherita […] impara a frenare con la mente le emorragie del cuore” e a costruire la propria vita non in funzione degli uomini ma assoggettandoli. Come peraltro fa anche con Benito Mussolini: “Lo sgrezza, lo domina culturalmente, lo educa, lo inserisce negli ambienti che contano e sa pure prendersi gioco di lui”. Sì, perché lei è una donna raffinata, di buon gusto – a soli undici anni si innamora di un ritratto di Maddalena che poi si scoprirà essere un dipinto di Guido Reni –, parla cinque lingue (sebbene nei documenti risulti analfabeta, dacché non frequenta nessuna scuola) e legge la Commedia dantesca in cerca di segni per il futuro. Tra le sue frequentazioni dentro o fuori Palazzo Bembo, sul Canal Grande, in cui la famiglia Grassini si trasferisce quando Margherita è adolescente, si annoverano Amelia Pincherle Rosselli (madre di Carlo e Nello), Antonio Fogazzaro e, più tardi, Anna Kuliscioff.
Arte, socialismo e soprattutto femminismo (quest’ultimo purtroppo abbandonato nella seconda metà degli anni Dieci) sono le parole d’ordine che informano la tarda adolescenza e la prima età adulta di Margherita: donna quindi da sempre eclettica, fuori dal comune, interessata a un cattolicesimo vicino agli ultimi e a un socialismo energico ma elegante. Appena diciottenne arriva anche l’amore: Cesare Sarfatti è un ebreo sefardita di origine francese. Si sposano nel 1898 e hanno tre figli, Roberto (poi morto in guerra, sull’Altopiano di Asiago), Amedeo e Fiammetta. Il loro salotto veneziano in Calle del Rimedio diventa il ritrovo abituale delle personalità più raffinate del tempo, da Matilde Serao a Gabriele D’Annunzio, da Josephine Baker a Eleonora Duse, con la quale – si vocifera – nasca una relazione amorosa. E se a Venezia i Sarfatti si avvicinano ancor più alla corrente riformista di Turati, sarà a Milano che Margherita troverà la consacrazione e, insieme, la propria rovina.
Il socialismo è di nuovo la carta giocata sul tavolo della sua esistenza. Margherita e Cesare frequentano Filippo Turati e Anna Kuliscioff (quest’ultima non apprezza lo sfoggio d’eleganza della signora Sarfatti), anche se il socialismo e, soprattutto, il femminismo che ha in mente Margherita si scosta di molto da quello, canonico, della rivoluzionaria russa: per quest’ultima l’emancipazione della donna segue i dogmi dell’indipendenza economica e del diritto di voto, mentre per la prima – insofferente all’ortodossia – il femminismo è una questione più individuale, meno politica (nonostante nel 1913 approdi a Londra come sostenitrice delle suffragette) – se si vuole, più capricciosa, ma non superficiale; un abbrivio, insomma, vitalistico e aggressivo, quello a cui darà forma Valentine de Saint-Point nel suo – a tratti discutibile – Manifesto della donna futurista (e poi in quello della Lussuria): Margherita Sarfatti impersonerà appunto questo tipo di femmina, libera negli istinti, capace di svincolarsi dai legami matrimoniali e di far propria l’idea che essa, sulla scorta del proprio fascino e della propria sensualità erotica, possa dominare gli uomini e il mondo.
Così il rapporto della coppia col futurismo si fa sempre più stretto; quando cambiano abitazione – grazie all’eredità del padre di lei – ne acquistano una vicinissima alla Casa Rossa di Marinetti (di cui tra l’altro Cesare, nonostante alcune frizioni con la moglie, assumerà la difesa nel processo intentatogli per la pubblicazione di Mafarka il futurista) e il loro salotto vede transitare il meglio dell’avanguardia italiana di inizio secolo: non solo Marinetti, ma Boccioni (col quale i maliziosi dicono ci sia del tenero), Carrà, Palazzeschi e Adolfo Wildt; e poi ancora Sironi, Funi e Bucci, di cui Margherita – ormai critica stimata – intuisce l’evoluzione artistica, il superamento delle avanguardie e quel ritorno all’ordine che sarà la base di diverse correnti pittoriche e letterarie (quella di Novecento, appunto, ma anche del classicismo della «Ronda» di Baldini, Bacchelli, Cardarelli e Cecchi) e che, dal punto di vista politico – sfortunatamente –, verrà frainteso e strumentalizzato dal nascente regime dittatoriale.
L’incontro tra lei e il Duce avviene alla redazione dell’Avanti nel dicembre del 1912 e, come l’autrice tiene a sottolineare più volte nel corso del volume, è la donna a comandare tra i due (almeno all’inizio), è lei a prenderlo come uno sporco bambino di strada e a ripulirlo per dargli un aspetto presentabile: cerca di ottunderne il maschilismo, il razzismo, l’adorazione della violenza (senza riuscirci), mentre sembra avere più successo nell’iniziarlo alla filosofia e alla letteratura, e nel ripulirlo dal turpiloquio nonché da quel tono sgraziato e lamentoso che già dispiacque a un’altra donna, Maria Giudice, quando lo conobbe a Lugano a casa di Angelica Balabanoff; fu insomma Margherita Sarfatti a fargli conoscere il pensiero politico, da Machiavelli a Marx, Bakunin, Proudhon e Smith, a convincerlo dell’importanza dello studio delle lingue straniere e, almeno in un primo momento, di un’arte di Stato. Gli ha persino insegnato a stare a tavola e a vestire: camicie bianche immacolate al posto di quelle lise, giacche ben tagliate, fiori all’occhiello.
Ed è lei, purtroppo, a spingerlo nella mischia, a sostenerlo quando lui tituba, a persuaderlo, nell’ottobre del 1922, al colpo di Stato. E di fronte all’evidenza Micol Sarfatti si pronuncia per una sorta di colpevolezza dell’antenata, seppur addolcita da qualche attenuante (“è comunque caduta tragicamente nella rete di Mussolini”), ritraendola, forse senza convincere fino in fondo, come la vittima di un uomo che l’aveva ammaliata e, per così dire, stordita (in fondo Dux, la monografia dedicata a Mussolini, sembra più lo scritto di una mistica che il ritratto vergato da una intellettuale), per poi travolgerla e dimenticarla.
Le ultime pagine del volume sono un mesto canto del cigno, in sordina, nonostante i preziosi aneddoti sulla lunghissima decadenza – durata quasi trent’anni – di questa donna: perduto il marito, morto nel 1924, anche l’amore con Mussolini finisce; lei seguita a scrivere articoli e a tenere conferenze, ma non è più la stessa di prima. Viaggia, irrequieta, da una parte all’altra del mondo. A Roma incontra Albert Einstein, intavolano una discussione seria, lucida, sul disastro in cui la Germania sta precipitando l’Europa e l’Italia in particolare. “Lui per riportare serenità le regala tre rose bianche e le suona Beethoven al violino, come mai aveva fatto”. Poi è negli Stati Uniti, alla Casa Bianca, ospite di Franklin Delano Roosevelt, quindi torna in patria dove si inizia a parlare di leggi razziali. Lei è ebrea e l’antico affetto che la legava al capo non serve a nulla. Le viene giusto concesso di partire di nuovo, attraversare l’Atlantico e non farsi più vedere, mentre Nella, la filantropa, la sorella più grande di sei anni, morirà lo stesso giorno di fine inverno in cui un convoglio nazista la conduce ad Auschwitz.
Micol Sarfatti chiude quindi il racconto di questa “vita incredibile” con una pensosa lettera all’antenata; e tra le cose che scrive riporto questa, forse la più importante, per il riferimento alla situazione presente:
“Ci sono stati giorni in cui ho scritto con il sottofondo di una brutta campagna elettorale [le Politiche 2022, ndr], in cui si è parlato ancora di un pericoloso ritorno al fascismo. Tu lo hai vissuto e, almeno all’inizio, lo hai sottovalutato. Era quanto di più lontano da te e dai tuoi valori potesse esserci, eppure ci sei cascata. Allora che la tua parabola ci sia da monito, anche le menti più brillanti e preparate possono essere accecate da un grande inganno. Stiamo all’erta. Tu lo sai, hai pagato tutto. Anche con la damnatio memoriae. Ma oggi, finalmente, Margherita, si parla di te come meriti”.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato sabato 2 Settembre 2023
Stampato il 24/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/margherita-che-da-donna-e-giornalista-cerco-di-educare-mussolini/