“Ci avevano detto mai più guerre mai più persecuzioni, genocidi…Logora, ipocrita retorica”, ci dice Arturo Benvenuti nella presentazione del suo K Z – Raccolta di disegni degli internati nei campi di concentramento nazifascisti. “L’uomo continua ad ammazzare, a massacrare, a perseguitare con cresciuta spietatezza”.
Pittore noto e poeta di rilievo di Oderzo, rivelatosi nel panorama culturale dagli anni 60 con una fitta e ricchissima attività artistica, Benvenuti ha sempre tenuto dentro di sé il rammarico di non aver salvato a suo tempo, da ventenne, nel 1943, quei fantomatici esseri umani che vedeva nei vagoni piombati in sosta nella stazione ferroviaria di Treviso. Con questo libro di 272 pagine di fotografie in bianco e nero realizzò negli anni 80 il pregnante progetto di riunire e riprodurre i disegni dei prigionieri, andando a scovarli per mezza Europa, viaggiando sul suo camper con la moglie Marucci, in doveroso pellegrinaggio per le varie terribili tappe concentrazionarie, incontrando reduci, sopravvissuti, visitando musei, archivi, biblioteche alla ricerca di testimonianze figurate. L’iniziativa di Benvenuti, che si guadagnò l’encomio di Nilde Iotti, allora Presidente della Camera e l’apprezzamento di Simon Wiesenthal, fu così non solo un atto di memoria verso le vittime del sadico massacro nazifascista, ma anche una resa di conti personale col proprio vissuto.
Il libro nasce dal passato ma è rivolto all’oggi. Ripubblicato nel 2015, in occasione del Giorno della Memoria, è sempre valido e illuminante più di una rievocazione storiografica.
La continuità delle stragi di innocenti sotto nuove forme è sotto i nostri occhi. Bombardamenti rovinosi, attentati, esecuzioni. Benvenuti non vuole rassegnarsi a questa realtà mostruosa del mondo e ci invita a confrontarci con un percorso grafico dal monito simbolico truce e silenzioso. Se è scioccante scorrere queste visioni della Shoah che continuano ad emozionarci e sconvolgerci, un’opera singolare come questa non ha tempo, va al di là della parola, esige ancora di essere riletta, merita l’impatto della nostra attenzione con i gesti e i volti delle vittime. Per rivoltarci contro la barbarie. Per far riflettere i giovani. E dovrebbe essere presente nelle biblioteche delle scuole.
Apriamo le pagine dell’Inferno dei Lager. Ecco la foto delle inferriate nella cella d’isolamento di Auschwitz, simbolo della prigionia. Nella scelta dei lavori la preoccupazione estetica ha ceduto a volte il posto alla pura testimonianza. I fogli non sono solo opera di artisti professionisti (nomi noti come Renato Birolli, Aldo Carpi, Agostino Barbieri, Corrado Cagli, Franciscek Jazwiecki) ma anche di naif, alcuni illustrativi, spontanei, alcuni di bambini (quelli di Terezin) frutto della sofferenza diretta.
Sono internati: francesi, belgi, cecoslovacchi, jugoslavi, tedeschi. Un coro di rappresentazioni crude e taglienti di ciò che forse sfugge persino alla descrizione. I cadaveri pronti per il crematorio, i prigionieri nudi costretti a svuotare un pozzo nero sotto la minaccia dell’aguzzino, gli spaventosi pollai dei letti a castello gremiti di vivi e morti nel campo di Gusen, scheletri sotto le docce della camera a gas nei campi di sterminio in Belgio, Austria, Germania, Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia. File di disperati dalla testa china che con miseri fagotti entrano nel campo di Terezin e ci spezzano il cuore. Le torture, le sadiche bastonature dei kapò, le ossa macilente. Solo ossa sono le gambe dei ricoverati all’ospedale di Oswiecim (Auschwitz). L’esecuzione vista da terra: delle scarpe e una testa. E ancora poveri corpi abbandonati come rami divelti e le vesti a righe dei deportati che sembrano sbarre.
Una figura solitaria, un prigioniero cecoslovacco morente di fame e ancora corpi abbandonati sul terreno a Buchenwald o ammassati a Mauthausen, gesti crudeli delle SS con le fruste e i bastoni, le divise germaniche, personificazione degli sgherri, i reticolati, gli appelli spietati forieri di condanna, i corpi nudi, i lazzaretti con chi attende la morte, le selezioni. Le membra: mani, pugni, arti scarnificati divenuti i veri protagonisti del luogo. A volte sembrano tendersi in un grido disperato senza più forza che la disperazione. Come quel capo fra le mani di un detenuto russo ad Oswiecim. L’incubo dei trasporti. Il terrore dei moribondi negli occhi, fori spalancati fuori dalle orbite. A Jasenivac, in Jugoslavia, un’esecuzione, gli impiccati che dondolano. Una donna che attinge l’acqua della pozzanghera col cucchiaio, uno scheletro vivente nel campo di Belsen, un carretto pieno di braccia, teste, resti umani a Buchenwald.
Gli internati hanno segnato il dolore estremo in questi diari di morte in cui si confondono arte e vita. Ce lo confermano questi versi di Benvenuti: “Stringevano nel palmo della mano la poca polvere, il niente lasciato dalla vita” (disegno del polacco Marian Begusz, fochista del forno crematorio di Oswiecim Birhenau). Ce lo riassume la figura dolente del Ritratto di Giovanni di Rzesowa di Franciszek Jazwiecki che vediamo in copertina. E infine le parole emozionanti di commento di Primo Levi nella prefazione: “L’Uomo, tu uomo, sei stato capace di fare questo”.
Serena d’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato martedì 23 Gennaio 2018
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