È un gran bel modo di guardare allo scontro di Spagna quello proposto da Laurie Lee in Un momento di guerra (trad. di Fabrizio Ascari, Adelphi, pp. 141, € 16), testo in bilico tra memoir e romanzo che, uscito in Inghilterra nel 1991 come quadro ultimo di un trittico autobiografico iniziato molti anni prima, nel 1959, con Cider with Rosie, vede ora la luce in Italia per i tipi di Adelphi nell’elegante e vivida traduzione di Fabrizio Ascari.
Lorenzo – questa la voce narrante, questo il nome di battaglia di Lee – giunge in Spagna nel dicembre del 1937 dopo due giorni di marcia tra vette e tormente. La guerra, in quel momento, è una faccenda ‘strana’ e gli occhi di chi la combatte – specie dalla parte delle Brigate internazionali – sono offuscati ancora dai sogni epici degli utopisti. Si va per avversare il fascismo serpeggiante ma lo si fa con leggerezza, equipaggiati come uomini del circo, come dandy slanciati, come eroi d’un romanticismo in ritardo sui tempi, tutti ragazzi “per lo più giovani, dalle guance incavate, cenciosi, pallidi, i figli – insomma – della depressa e inquieta Europa”.
Un’Europa certa di poter contenere le più lerce brutture dei nazionalismi entro i confini dell’altopiano iberico. Lo dice in chiaro Lorenzo: allora la guerra era così localizzata che sembrava di “entrare in un’altra stanza”. Si entrava passando dalla Francia “satolla” di quella pace, colpevole, dell’appeasement all’inglese (adottato volentieri dal governo d’oltralpe), o, a esser più indulgenti o forse tragicamente realisti, la pace della Francia in decadenza, quella di Cioran, dell’eccesso di razionalità, della nobile superficialità, dell’intelligenza merlettata.
Fatto sta che gli uomini che passano i Pirenei sono invece degli ingenui idealisti: nelle bocche dicono parole grandi (la Libertà e la Causa), tra le loro file marciano “ex carcerati, alcolizzati, minatori debilitati, portuali, politici chiassosi e studenti universitari sognatori occupati a scribacchiare manifesti politici e biglietti ai loro amici”, quasi – mi vien da dire – giovani sessantottini ante litteram, i cui slogan, come pure ha scritto Hobsbawm a proposito dei ‘rivoluzionari’ del ‘68, mescolavano le affermazioni ideologiche, nel senso tradizionale del termine, alle «pubbliche proclamazioni di desideri e sentimenti privati». I tanti che, come Lorenzo, partono alla volta di Madrid lo fanno per sentirsi apostoli della libertà, per il desiderio collettivo, ma pure intimo d’aderire a “un’eroica pazzia condivisa” in mezzo a paesaggi immutati dai giorni di Cervantes, in cerca dell’opportunità dell’avventura e del gesto epico (come il Chisciotte) ma, ancora, anelando orizzonti fiabeschi di riscatto e di fuga (che ricordano la tenacia e la voglia di vivere dei quattro Musicanti di Brema) da una realtà deludente (l’Europa – di nuovo – satura di pace in marcescenza); parte quindi per la Spagna anche chi ha sulle spalle “fallimenti, miseria, la legge, tradimenti di mogli o amanti”.
La guerra, poi, è un bailamme: i volontari, come Lorenzo, subiscono sorti kafkiane, imprigionati come sono, interrogati dai loro stessi compagni (“mi sentivo sempre di più vittima di un’oscura accusa per la quale avevo smesso di cercare una spiegazione”); da bui sotterranei, finiscono dentro a un pozzo e poi di nuovo all’aria aperta, nel gelo dell’inverno, tra città ‘invisibili’ (le descrizioni di Figueras o di Albacete mi hanno fatto risentire le note delle città calviniane), scivolando su pietre lucenti come vetro, tra villaggi coperti di neve, “deserti e nudi, da cui sembrava essere scomparsa ogni forma di vita”. Gli scontri sono impari: le Brigate internazionali poco possono a petto della forza bellica sguainata da Franco, “il supremo patriota e difensore della fede cristiana” che lasciava i connazionali a subire “sulla loro carne quei primi collaudi” e destinava “vaste aree della Spagna alle prove delle nuove squadriglie di bombardieri di Hitler, culminati nella distruzione totale dell’antica città di Guernica”.
Il lugubre rumore che la Spagna è la prima a conoscere di lì a poco avrebbe risuonato in tutta Europa; e sotto alle bombe, incastrati tra le macerie, non finiscono solo i corpi dei combattenti per la libertà ma anche il sogno, forse poco solido sul versante pragmatico, di una generazione: quello di poter arginare i fascismi con più o meno isolati gesti eroici e con una buona dose di fede e di sacrificio personali. Non possono che uscirne vinti (agli sconfitti è dedicato in esergo il testo di Laurie Lee): la Spagna instaura la propria dittatura e quelli che possono farlo tornano a casa. “La liberazione giunse improvvisa, inaspettata e banale”, scrive l’autore. E a casa, ad attendere l’eroe, solo il tiepido calore di un “amore senza onore”.
Ci vorranno quasi dieci anni per capire la lezione della guerra di Spagna, la dura lezione che Laurie Lee avrebbe forse dovuto scrivere molto tempo prima. Ci vorranno dieci anni, ma proprio da quella lezione le Resistenze europee comprenderanno il valore di tutto ciò che sta a valle dell’entusiasmo, della rabbia, della voglia di lottare: l’organizzazione della lotta, la tenacia nella fatica e nel dolore, il rigore e la disciplina della guerriglia.
Giacomo Verri, scrittore e insegnante di Lettere. Partigiano Inverno, testo finalista al Premio Calvino 2011, è stato il suo primo romanzo. Con Racconti partigiani torna a parlare di Resistenza, quella di ieri e quella di oggi. Dal 2016 ha inaugurato un proprio blog letterario: http://giacomoverri.wordpress.com
Pubblicato mercoledì 25 Luglio 2018
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