Era un ragazzo fortunato, Aldo Caldari. Classe 1911, perse la mamma, portata via dai monatti al lazzaretto di Perugia, dopo l’ultimo attacco della Grande guerra, quello della Spagnola. Gli dissero che anche il papà era morto quasi subito, invece era solo sparito, a Sora, in Ciociaria, altra vita, altra famiglia.
Aldo arriva a Roma, accolto e adottato dalla famiglia della sorella del papà, sposata al Cav. Guido De Cupis. Nobile, il palazzo avito è a piazza Navona (quello dei Tre Scalini), De Cupis è stato il fondatore della S.T.A. – Società Trasporti Automobilistici e introdusse nella Capitale i taxis (marca FIAT) che non esistevano ancora, con inaugurazione alla presenza di re Vittorio Emanuele III. Non è una coincidenza, l’acronimo STA – i romani capiranno al volo – è proprio quello della municipalizzata che negli ultimi vent’anni ha multato gli allergici a cordoli, parcometri e strisce blu. Alla vigilia del Secondo conflitto mondiale la “ditta” in piena espansione contava 300 vetture e 150 mezzi pesanti coi quali raccoglieva gli appalti comunali per la raccolta e distribuzione del latte della Centrale, della Posta, delle carni del mattatoio e delle verdure dei mercati generali, con stabilimenti che si estendevano da viale Manzoni a Porta Maggiore. Decaduta dopo la morte dello zio, nel ’48, la società fu acquisita dal Comune e restò in liquidazione per mezzo secolo, fino all’avvento di Rutelli sindaco e Walter Tocci vice, che la resuscitò.
Aldo Caldari studiò ragioneria, giocò bene a pallone con la Fortitudo (poi confluita nella AS Roma) e, siccome a casa De Cupis “il danaro profuma di buono quando lo si guadagna di persona”, fu presto assegnato alla direzione del Reparto Movimento automezzi. Intanto, i fine settimana li trascorreva nella “Villa del Cardinale” Gerolamo Colonna, in località Palazzolo ai Castelli, residenza estiva secentesca acquistata da zio Guido, con giardino all’italiana, restaurato con le selci romane recuperate sull’Appia Antica. In Un po’ per celia e un po’ per non morir, Ettore Petrolini ricorda quei tempi: “Guido De Cupis colla Villa… – la più bella della regione – che tiene spalancata a tutte le ore, alle laute masticazioni degli amici famelici, che abbonda in generosità nel fornire leccornie e simili gargarozzoni”. Era un ragazzo fortunato, Aldo Caldari.
Fin qui, nel libro edito da Gangemi, la storia di famiglia è raccontata dal figlio di Aldo, Luigi. Le pagine seguenti raccolgono invece il diario autografo del papà, vergato sia durante l’esperienza come Tenente di Complemento del Corpo Automobilistico sul fronte albano-greco, sia nel corso della prigionia successiva all’arresto da parte dei tedeschi, all’indomani dell’armistizio.
In Albania, Caldari, inizia a comprendere come stanno andando le cose, che le reni alla Grecia non saranno spezzate.
E attraverso il diario, Aldo, nella sua vita, ora prende la parola in prima persona: “Dal più piccolo reparto al più grande mancano i collegamenti”, “Tutti cercano di far la forca agli altri. Tutti comandano, tutti padreterni e gli uomini cadono”, “La lotta per i migliori posti è acerrima”, “L’offensiva è fallita su tutto il fronte”, “È doloroso constatare che la nostra Italia non riesce a battere una Grecia”, “La nostra vita di 20 anni è stata tutta un bluff”, “Bollettino del 23 aprile 1941. I Greci hanno deposto le armi. Ma a chi si sono arresi a noi o ai tedeschi?”. A loro, due giorni prima. Sui tornanti ghiacciati e a strapiombo della strada “Serpentina” costruita dai turchi, che collegava le retrovie alla linea del fronte, Caldari, mentre era alla testa di una colonna di rifornimenti sotto il tiro dei mortai greci, riuscì a salvare dodici militari che si trovavano a bordo del cassone di un camion precipitato in un burrone. Si calò e li trasse in salvo uno dopo l’altro, solo l’autista restò schiacciato dal mezzo, ma Aldo ne recuperò il corpo durante il viaggio di rientro. Poi a giugno ’41 rientra in Italia.
Il 9 settembre 1943, mentre è alla guida di un’autocolonna della STA militarizzata, è fermato dai tedeschi vicino a Bologna. Aldo è incauto: “Impensatamente mostrai la tessera militare”. Alla colonna fu consentito di proseguire, lui arrestato. Il 15 settembre inizia il viaggio della deportazione, il 26 transita a Berlino, il 1° ottobre gunge al campo di concentramento di Nerybka a Przemysl, e lì riceve le prime proposte per l’arruolamento in cambio del rientro in Italia. 27 dicembre: “Rimando la decisione di optare ma potrò resistere al freddo e alla fame?”. 29 dicembre: “Non ne ho il coraggio, e poi andare a combattere contro italiani mi ripugna”. 3 gennaio 1944: “Oggi sono deciso a optare e a scrivere subito a casa per farmi richiedere dalla STA”. 9 gennaio: “Molti lati brutti del mio carattere scompariranno con la fine della prigionia che è stata per me una dura maestra della vita”. Il 14 gennaio Aldo arriva al campo di Hammerstein, in territorio polacco. 20 gennaio: “Ogni notte sogno di essere a casa”. 29 gennaio: “Quello che di schifo ho provato nei riguardi degli optanti repubblicani non lo posso descrivere”. 2 febbraio: “Sveglia alle 6.30, inquadrati e lasciati al freddo fino alle 12”. 6 febbraio: “Ancora rape, ci stanno facendo fare una cura di rape perché vanno a male”. Il 18 Aldo riceve la notizia che la STA lo ha richiesto a Roma per lavoro, risposta negativa. 24 febbraio: “La pratica è stata riveduta e gli viene dato corso. Firmo una dichiarazione per il lavoro”. Il 24 marzo inizia il viaggio di ritorno, dopo 196 giorni di prigionia.
30 marzo 1944: “Ore 2.30 a Prima Porta, alle ore 6.30 a casa. Mio onomastico”. Era un ragazzo fortunato, Aldo Caldari.
Daniele De Paolis, giornalista
Pubblicato giovedì 20 Luglio 2017
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