Utilizzati, blanditi, e poi illusi e dimenticati. Sembra che si dipani lungo queste coordinate il destino del popolo curdo. E non da oggi. È capitato parecchie volte nella loro lunga storia che dopo averli riempiti di promesse l’Occidente gli abbia voltato le spalle. Tra le speranze del Trattato di Sèvres del 1920 che prevede la creazione di uno Stato curdo indipendente e la doccia gelata del Trattato di Losanna, che cancella completamente il Kurdistan, e il riconoscimento delle istanze dei curdi dal dibattito politico passano poco meno di tre anni. È capitato nel Novecento e capita ancora.
L’ultima volta pochi mesi fa, nel dicembre scorso. Dopo essere stati in prima fila nella lotta contro i guerriglieri del sedicente Stato islamico i curdi hanno rischiato e rischiano ancora di ritrovarsi senza alleati. E che alleati? L’America di Trump, che pure li aveva schierati in prima linea contro il terrorismo islamico, ha annunciato il 19 dicembre il ritiro delle truppe Usa dalla Siria. Una mossa, quella del presidente Usa, che ha spiazzato perfino gli uomini più vicini alla Casa Bianca e che ha sollevato non poche perplessità nelle cancellerie europee. Parole avventate quelle di Trump e che il governo statunitense si è in parte rimangiato poche settimane dopo per bocca del consigliere del presidente per la sicurezza nazionale, John Bolton, che ha stabilito precise condizioni per il ritiro dalla Siria.
Il ritiro annunciato delle truppe statunitensi per i curdi delle Forze democratiche siriane aveva rappresentato una mazzata micidiale. È anche e soprattutto grazie a questi valorosi combattenti – uomini e donne – che lo Stato islamico ha perso la gran parte del suo territorio. «I guerriglieri curdi, sia che fossero i peshmerga del Kurdistan iracheno, sia che appartenessero alle Unità di protezione popolare siriane (Ypg), sono stati i combattenti sul terreno di cui si sono servite le potenze occidentali per contrastare l’avanzata degli uomini del Califfato», racconta Antonella De Biasi, che da poche settimane ha mandato in libreria “Curdi” (Rosenberg & Sellier, 14 euro), volume di cui è anche curatrice e che si avvale dei contributi di Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies, dello studioso Giovanni Caputo e di quello del giornalista curdo-iracheno Kamal Chomani. «L’eroica difesa di Kobanê è stata forse lo spartiacque informativo, da lì i guerriglieri curdi e soprattutto le curde – fin troppo fotogeniche – erano i “combattenti buoni” contro i neri barbuti appartenenti al Daesh. Così i curdi sono diventati gli alleati perfetti delle nazioni avanzate del prospero Occidente. Docili e buoni da usare all’occorrenza, ma spesso sacrificabili sull’altare delle alleanze geopolitiche quando non più utili». Quando De Biasi scriveva queste parole il presidente americano non aveva ancora scritto il suo tweet sul ritiro: «Abbiamo sconfitto l’Isis in Siria, per me l’unico motivo di restare lì durante la presidenza Trump». Ad Ankara si erano fregati le mani. Erdoğan era già pronto a saldare i conti con i curdi siriani dell’Sdf, che per lui altro non sono che una forza terroristica. Ai curdi a quel punto non è restato altro che provare a cambiare cavallo. E visto che Trump li aveva traditi hanno cercato un accordo con Bashar al Assad. Lo Ypg, l’Unità di protezione popolare, ha chiesto all’esercito di Bashar di prendere il controllo di Manbji, città sotto l’autorità dei curdi, proprio per stoppare l’offensiva turca ventilata da Erdoğan. D’altronde per ben due volte, dal 2016, le truppe turche hanno invaso la Siria per scacciare i curdi: prima con l’operazione “Scudo dell’Eufrate” e poi con – nome davvero beffardo – “Ramoscello d’Ulivo”. Per evitare il terzo e ultimo atto, cioè il massacro della propria gente, i curdi siriani si sono rivolti al raìs di Damasco. Sperando di ottenere domani una forte autonomia. Certo, senza farsi troppe illusioni, anche perché nel passato Assad, come il padre prima di lui, si è guardato bene dal concedere ai curdi siriani quel che chiedevano.
La vicenda curda ha fatto parlare gli osservatori di un processo di vera e propria balcanizzazione. «Con l’avvicinamento di Erdoğan a Putin e Rohani – si legge nel libro – c’è stata una sorta di riedizione dell’Accordo Sikes-Picot a trazione Est per definire le aree di influenza. Oggi i curdi della Siria – la zona che ha dato più soddisfazioni al movimento negli ultimi anni – devono vedere quello che ha da offrire al-Assad che alla fine del conflitto è ancora al comando della martoriata terra siriana grazie al cospicuo sostegno ricevuto da Russia e Iran. Una sede del Pyd curdo siriano (Partito dell’unione democratica) è stata aperta a Mosca nel 2016 sotto il nome di Rappresentanza del Kurdistan occidentale e se gli americani dovessero definitivamente abbandonarli, i curdi come al solito cercheranno di salvarsi la pelle».
È il pragmatismo curdo. Un pragmatismo disincantato, senza molte speranze se non quella che il treno della storia un giorno cambi binari e ci si accorga che c’è in questo spicchio di mondo un popolo senza nazione e senza terra. Un popolo che conta 35 milioni di persone – la quarta etnia mediorientale dopo arabi, persiani e turchi – che se riconosciuto potrebbe aiutare non poco a stabilizzare le regione. Un popolo che, ed è il caso di sottolinearlo, ha sperimentato e sta sperimentando metodi di governo democratico e dal basso che da queste parti del mondo (e non solo) non hanno eguali.
Per districarsi nel ginepraio mediorientale, per conoscere da vicino questo “popolo che non c’è” la lettura del libro di De Biasi, è preziosa. La giornalista – collaboratrice di Patria Indipendente – ci accompagna in una disanima minuziosa della identità curda transnazionale dando conto delle lotte delle tante anime del popolo curdo e del vissuto dei curdi della diaspora, la loro scoperta e riscoperta della “curdità”.
L’autrice ci ricorda che «quando si pensa al Medio Oriente spesso si tende a trascurare il “fattore curdo”, cioè la presenza in questi territori storicamente scossi da guerre e spartizioni di potere di un popolo che attualmente non ha uno Stato e vive diviso principalmente tra quattro nazioni, Turchia, Iraq, Siria e Iran. La questione curda però è cruciale per la stabilità di questa zona del mondo». E, come spiega nel libro Rebwar Rashed, copresidente del Congresso nazionale del Kurdistan, «grazie alla risoluzione della questione curda, se tutto va bene in maniera pacifica e democratica, ci sarebbe un’apertura, un’opportunità per dare soluzione ad altri problemi, per esempio il riconoscimento del genocidio armeno, di quello degli alauiti della questione femminile, la separazione tra Stato e religione e l’ottenimento di una Costituzione democratica». Un sogno? Forse, però qualche sogno resiste anche all’arrivo del giorno.
È il caso, ad esempio, della questione femminile e della democrazia dal basso. Il leader curdo più famoso al mondo, Öcalan, dopo aver conosciuto in carcere il pensiero dell’ecologista radicale americano, Murray Bookchin ha promosso tra la sua gente i principi del confederalismo democratico. Andando oltre il macigno dello Stato-nazione il leader del Pkk indica la strada dell’autonomia amministrativa delle aree curde senza modificare i confini degli Stati in cui i curdi vivono. Nell’ambito delle frontiere attualmente definite bisogna pensare «a come far avanzare la democrazia in Medio Oriente: strumento ideale è il confederalismo democratico, definito come amministrazione politica non statuale, o democrazia senza Stato, fondata non sulla detenzione del potere, bensì sul consenso collettivo delle popolazioni che vivono nell’area interessata». Un cambio di paradigma davvero rivoluzionario quello del Pkk, che va perfino oltre alle vicende mediorientali e che potrebbe rappresentare un modello – quantomeno ideale – anche per il Vecchio Continente, attraversato da feroci nazionalismi che avvelenano il dibattito politico.
Il confederalismo democratico, con tutte le difficoltà del caso, racconta De Biasi, ha una sua concreta esperienza nel nord della Siria. Il territorio della Federazione democratica della Siria del Nord, denominato anche Rojava, è abitato da circa due milioni di persone, delle quali il 60 per cento è di etnia curda. Nel 2014 la Federazione si è dotata del suo testo giuridico fondamentale, il “Contratto sociale della federazione democratica della Siria del Nord” che rigetta il nazionalismo e perora una società egualitaria e rispettosa dei diritti delle minoranze.
Un capitolo di “Curdi” è dedicato al tema dell’emancipazione femminile, il femminismo alla curda. Il femminismo curdo oggi è inevitabilmente armato, dei 10mila guerriglieri del Pkk – e delle altre formazioni politiche vicine a questo partito – la metà è composta da donne. Le giovani donne in divisa che si sono rese protagoniste nella battaglia di Kobanê e più in generale nella lotta contro Daesh «sono figlie del movimento politico curdo nato in Turchia quarant’anni fa e quindi dei cambiamenti che ha introdotto il Pkk attraverso il pensiero del suo fondatore Öcalan nella percezione stessa dell’essere curdi e curde». Le donne curde di Turchia hanno pagato cara questa voglia di libertà e di giustizia, sono anche finite in carcere, hanno subito abusi e torture, ma hanno passato il testimone alle nuove generazioni».
Oggi il movimento di liberazione curdo, in ogni formazione, in ogni partito, in ogni organismo ha messo in pratica una equa ripartizione di potere tra donne e uomini, dalle montagne del Qandil fino a Parigi, Stoccolma e i mille luoghi della diaspora.
Quale sarà il futuro dei curdi nei prossimi mesi e nei prossimi anni è difficile dirlo. «Potrebbe nascere uno stato autonomo del Kurdistan dal processo di crisi che attualmente caratterizza il Medio Oriente?» si chiede Nicola Pedde in chiusura del libro. «Sono domande legittime quelle che i curdi oggi si pongono, anche alla luce del loro ruolo e del tributo di vite umane pagato alla causa di questa trasformazione politica e sociale della regione. Poco spazio viene tuttavia concesso oggi all’ottimismo, nella consapevolezza che gli equilibri politici che dominano e sempre più andranno a incidere sul rapporto tra la regione e i paesi più influenti del pianeta, sarà costruito ancora una volta sulle logiche di quella politica che tenderà sempre a prediligere e proteggere gli interessi delle entità statuali nazionali, a danno di qualsiasi ipotesi di progetto curdo».
Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e alla Rinascita della Sinistra, ha collaborato col Venerdì di Repubblica
Pubblicato giovedì 7 Marzo 2019
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