La memoria è una inesauribile fonte di storia, capace di rievocare testimonianze, racconti ed episodi di vita vissuta che rappresentano elementi fondanti per ricostruire un più ampio quadro degli eventi e dei contesti economici, politici e sociali. L’odio, la violenza e la discriminazione contro gli ebrei sono stati una costante in Italia e in Europa, che l’opinione pubblica non può e non deve sottovalutare.
In Italia la dittatura fascista ha imposto la perdita delle libertà individuali e collettive e di ogni diritto inalienabile. Violenze, aggressioni contro i singoli e distruzioni di case del popolo e sedi sindacali hanno rappresentato una costante dell’azione squadrista del regime.
All’interno della storia nazionale mussoliniana, con le leggi razziali, attivate nel luglio del 1938 e precedute dalla pubblicazione del Manifesto della razza, si precisava che “esistono grandi razze e piccole razze” e che “gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani”.
Fino al 1924 vi era in Italia un sindacato unitario dei giornalisti, la Federazione nazionale stampa Italiana (Fnsi) che venne esautorato l’anno successivo dal regime con la creazione del sindacato fascista dei giornalisti. In quello stesso 1925, un articolo della legge sulla stampa prefigurava l’istituzione di un ordine dei giornalisti ma non venne mai attuato (l’Ordine, che prevede doveri ma anche tutela diritti e libertà dei giornalisti, vedrà la luce solo nel 1963) perché intervenne la legge sull’organizzazione sindacale di tutte le professioni. Nel 1928 nacque quindi solo l’Albo, “la cui tenuta – recitava la legge promulgata da re Vittorio Emanuele III – e la disciplina degli iscritti sono esercitate dall’Associazione sindacale”.
Il 16 febbraio 1940 il sindacato nazionale fascista dei giornalisti, aderendo alla politica mussoliniana, decretava che gli iscritti ebrei dovessero essere cancellati dall’Albo. Stessa sorte fu riservata ai notai e a dirigenti e impiegati della pubblica amministrazione: posizioni lavorative di prestigio che la dittatura doveva in qualche modo delegittimare.
Nel sessantesimo anniversario di quella significativa presa di posizione del sindacato, la Fondazione Paolo Murialdi, in collaborazione con la Comunità ebraica di Roma e l’Ordine dei giornalisti del Lazio, hanno voluto ricordare quello spregevole e nefando episodio di discriminazione con una originale e pregevole pubblicazione dal titolo Reiscriviamo all’Albo i giornalisti ebrei radiati dal fascismo (AA. VV. Quaderni Murialdi, gennaio 2021).
Scrive Enrico Serventi Longhi, storico del giornalismo: “Eliminare la componente ebraica, anche patriottica, persino fascista, dal corpo della nazione, significava allo stesso tempo indicare ai giovani fascisti la volontà di rompere ogni indugio conservatore e di dotarsi di un progetto compiutamente totalitario”.
Come documenta la ricerca condotta negli archivi della Fondazione sulle epurazioni, la prima azione contro i giornalisti di origine ebraica fu il demansionamento del ruolo e, in seguito, il licenziamento in tronco. Riguardando anche nove prestigiose firme dell’epoca: Margherita Sarfatti, Piero Arnaldi, Guido Artom, Rodolfo Buté, Alfonso Novara, Dario Sabatello, Enrico Rocca, Ettore Dalla Riccia, Anita Levi Carpi.
Dei 12 professionisti iscritti negli elenchi tenuti dal sindacato, in 3 vennero radiati: Arrigo Jacchia, Mario Ottolenghi (direttore del giornale sionista Israel) e Ugo Sacerdote (corrispondente dalla Svizzera de Il Popolo d’Italia). Tra i pubblicisti, in numero assai maggiore rispetto ai professionisti, vennero espulsi 27 su 35 iscritti: tra questi Giuseppe Levi (giornalista sportivo), Alberto Neppi (giornalista e fautore di movimenti culturali dell’epoca), Enrico Lombroso (nipote di Cesare Lombroso) e Nello Enriquez (corrispondente di La rivista delle colonie e Lo Stato corporativo). Quindi in totale, 32 giornalisti (tra professionisti e pubblicisti) vennero radiati ed espulsi dall’Albo, non potendo così esercitare la professione.
Secondo Silvia Antonucci, responsabile dell’archivio storico della Comunità ebraica di Roma, l’emanazione delle leggi razziali ha origini lontane. Infatti, già nel dicembre 1936, Benito Mussolini, che mai dimenticò di essere stato giornalista e direttore, dichiarava di non gradire collaboratori di fede ebraica ne Il Popolo d’Italia, da lui fondato. “I fatti – sostiene la studiosa – non accadono dall’oggi al domani, c’è una preparazione, dei segnali che a volte non è assolutamente facile cogliere, ma se utilizziamo lo spirito critico, se ragioniamo e ci poniamo domande, forse abbiamo una possibilità di accorgercene”.
Secondo le ignobili leggi razziste di ispirazione nazifascista, per essere definita “di orientamento ebraico” a una persona bastava avere nell’albero genealogico un familiare ebreo. L’obiettivo primario di questi provvedimenti era quello di annientare ogni individualità portatrice del “virus”. La storia ha drammaticamente attestato gli avvenimenti dei quali è stato protagonista il popolo ebraico e chiunque si opponesse alla criminalità nazifascista.
Reiscriviamo all’Albo i giornalisti ebrei radiati dal fascismo si colloca pienamente nell’ottica di una ricerca mirata, al di fuori di ogni retorica, nel complesso rapporto delle libertà tra i giornalisti in epoca fascista e la normativa antiebraica. Si tratta di un libro vivo, capace di destare interesse e con il precipuo fine di creare le premesse di una vasta operazione politico-culturale per una effettiva libertà di stampa, che non deve e non può finire con questa pubblicazione.
Maurizio Orrù, giornalista, componente esecutivo nazionale Anppia
Pubblicato sabato 20 Novembre 2021
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/leggi-razziali-in-prima-pagina-un-debito-finalmente-saldato/