Leggere Millanta facce di Piero Manni significa incontrare un testo strano e inusuale, vuoi per la sua natura di raccolta postuma (dove è, peraltro, in buona e folta compagnia), vuoi per l’essenza formale dell’operazione. Infatti, sono diversi gli atteggiamenti e gli stili, le posture e i moduli espressivi presenti in questa scrittura che trova una sua cifra stilistica unificante nel voler uscire dal letterario, nel farne saltare il codice con le relative regole e i relativi confini.
Questa scelta fa sì che si possa definire la narrazione di Manni polifonica, perché lascia la parola a una pluralità di voci e di coscienze indipendenti e pienamente autonome, privandole volutamente della presenza ingombrante e paternalistica dell’autore e della relativa gerarchia degli universi rappresentati. In questa maniera ci è messo sotto gli occhi un ricco universo di soggetti e non di oggetti, di umanità e non di merci, di feconda dialettica e non di pure opposizioni di dialogo e conversazione. Anche quando il soggetto è muto e domina il silenzio ci troviamo in momenti di drammatizzazione tali da sentirci sulla scena, dentro uno spettacolo, o meglio: dentro una forma drammatica.
I protagonisti che occupano lo spazio di Manni non sono solo la varia e ricca umanità lavoratrice del Salento ma, nell’autorappresentarsi, costituiscono e creano un particolare punto di vista sul mondo perché, nel parlare dei propri singoli universi, parlano a noi di un mondo comune e delle sue trasformazioni in atto.
È qui che emerge il tratto antropologico – più volte sottolineato dai critici, su tutti Antonio Prete nella postfazione –, che serve a creare una sorta di mondo alla rovescia, di carnevalizzazione (nell’accezione di Bachtin) del mondo rappresentato: e ciò crea una struttura pienamente aperta, caratterizzata dal dialogo di tutte le componenti e di tutti i diversi gruppi sociali, con la consapevolezza radicata che non è solo in se stessi che si può trovare il senso della vita.
La lingua si crea a partire dalla voce dell’altro, degli altri, voci assorbite nel discorso dell’autore ma non normalizzate, perché per Manni dare cittadinanza vuol dire lasciare la parola agli altri, alle loro visioni del mondo. Anzi, la parola altrui modella il discorso dell’autore: nasce così una sorta di interna dialogizzazione. In questo modo esplode il letterario, quello inteso non come parola neutrale della lingua, libera da intenzioni e voci altrui, ma come codice storicamente determinato, attraverso le trasformazioni, alcune delle quali ancora in atto, e le dinamiche tra i diversi gruppi sociali.
E allora le pagine si riempiono di molteplicità; non a caso il titolo è una scoperta dichiarazione di un programma di scrittura: millanta facce sono quelle che vengono fuori e abitano il Salento e che parlano una lingua polemica, di aspro confronto e di lotta. Chi parla è carattere vivo, carne pulsante della trama della vita di una comunità, per questo l’interiorità come autocoscienza viene dialogizzata, nasce nel confronto e si proietta all’esterno. Il dialogo, come crescita dialettica dell’umano, è il fine stesso dell’azione: è l’azione. Così, se finisce la possibilità del dialogo finisce tutto.
In quest’ottica ermeneutica e operativa acquista un rilievo particolare, come dicevo poco sopra, l’antropologia, che diventa un modo, per certi versi, scientifico, di raffreddamento, attraverso il quale entrare, conoscere e rappresentare l’universo popolare delle classi subalterne: entrano in gioco sullo stesso piano il “pasticciotto” della colazione del giornalista, i riti sacri delle religiose, le streghe e i poteri notturni, “sciacuddhi e macare”. Questa scelta non è importante solamente sul piano formale, della descrizione e della rappresentazione di un universo che non ha mai avuto cittadinanza (non solo letteraria ma tout court), ma diventa la modalità scelta da Manni per cercare di stare, contemporaneamente, dentro e fuori la narrazione, quasi sdoppiandosi, personaggio che partecipa di questo mondo e narratore che ne diventa testimone esterno. L’antropologia è l’asse del politico, nell’accezione etimologica del termine, di ciò che è comune, in quanto è la maniera, priva di paternalismo e patetismo, di lasciare la parola direttamente ai protagonisti di questo universo. La scelta è qui radicale, infatti in primo piano parlano e agiscono uomini e donne esclusi dalla storia e spesso dalla vita, i partecipanti delle classi subalterne, per i quali la speranza di riscatto è di là da venire.
Questa situazione di scrittura implica una serie di scelte sul piano del linguaggio e dello stile per certi versi anche sorprendenti. Infatti la polifonia si trascina dietro e fa convivere l’espressionismo plurilinguistico continiano e le forme e i moduli comunicativi che rimandano alle esperienze delle neoavanguardie, con la ricerca della dislocazione dell’io e quindi della focalizzazione. Contribuisce fortemente agli esiti delle narrazioni il montaggio dei diversi pezzi, che non segue una logica cronologica: si apre con Taranta noir, un finto giallo o, per meglio dire, un oltre giallo, al centro il romanzo non finito Senza capo né coda e poi i racconti brevi: e in questo non finito emerge proprio la ricerca di un andare oltre le scritture letterarie per lasciar parlare, liberamente, la Niura, la Mammana, Nzino Bray. È così che viene fuori l’ironia, amara e dolce allo stesso tempo, così in bella mostra, ad esempio, nella descrizione della questione dell’apertura del Circolo dei nobili e dei notabili a tutti i cittadini. All’aspra contesa segue il silenzio.
Per essere chiari fino in fondo, quest’opera, montaggio ardito di tessere e frammenti di voci narranti, rappresenta il lascito narrativo e narratologico di Piero Manni; infatti il testo – e lo dico volutamente qui, in chiusura – è la raccolta dei suoi testi narrativi, alcuni già pubblicati su quotidiani e riviste (Salento Salento era uscito nel 2000 per Manni, altri invece inediti come il progetto di romanzo Senza capo né coda): entrare in questo universo narrativo vuol dire ascoltare e dialogare con un proletariato che vuole farsi classe in sé e per sé e l’autore ci mostra la dura e strettissima via del riscatto anche per quei mondi umani che proletariato non sono ancora e cercano di uscire da uno stato millenario di minorità. Per questo la prima sensazione, aperta la raccolta e superata la soglia, è quella di entrare in un teatro e vedere immediatamente esseri in carne e ossa in un movimento che è fermento e che, trascorsi pochi minuti, ci chiamano insistentemente sul palco con loro, e se mostriamo resistenze e perplessità, ci obbligano: non si può stare fuori dalla vita. Tutti siamo dentro a questo mondo, non c’è via di fuga possibile, per renderlo più umano bisogna conoscerlo, interpretarlo e lottare per mutarlo. Senza mai perdere la propria umanità, che è il passarsi un pezzo di pane con l’olio. Forse, solo così, potremo mantenere la nostra umanità senza soccombere.
Erminio Risso
Pubblicato venerdì 15 Luglio 2022
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